La notte precedente il congedo non riuscivo ad addormentarmi. Mi giravo e rigiravo nella branda preso da un senso di emozione e nello stesso tempo di timore.
Avevamo festeggiato il nostro congedo al “Fungo reale “di Valloriate, poi ci eravamo precipitati in caserma per ascoltare il “silenzio” dei congedanti e metterci infine nelle brande per l’ultima notte in camerata. Ma, al contrario degli altri scaglioni, tutto era avvenuto in sordina.
A causa di un imminente addestramento, la compagnia era stata praticamente consegnata in caserma, addirittura alcuni fra i congedanti del secondo giorno erano stati costretti a montare di guardia e non era servita un’animata discussione con il sottotenente Venturella almeno per evitare quell’umiliazione. Praticamente alla nostra cena erano venuti in pochi. Era proprio vero, il mese di gennaio era “sfigato” fino alla fine.
Avevo visto Mulassano uscire dalla camerata, indossando il cappello con la grande penna del congedante e le giberne, per andare a prendere il fucile e montare di guardia, con passo lento, quasi rassegnato.
Mi ero sentito in colpa, perché non ero riuscito a strappare allo sten. almeno l’esenzione dello scaglione di gennaio dal servizio di guardia. Mi sembrava di avere tradito i miei compagni di mese, che si fidavano di me e che per tutto il periodo del servizio militare mi avevano sostenuto.
Davanti alla palazzina alloggiamenti, noi congedanti ci riunimmo con coloro che erano smontati dal servizio di guardia e con quei pochi che avevano partecipato alla nostra cena per ascoltare il “silenzio” trasmesso da un’emittente locale.
Dopo, commossi, ci ritirammo nelle camerate. C’era un silenzio assoluto. Dormivano tutti, vista la sveglia delle 4 del giorno successivo. Facemmo un po’ di casino, poi ci mettemmo in branda. Soltanto Giuseppe ed io rumoreggiammo ancora, alzandoci e correndo lungo il corridoio, bruciando la nostra stecca, il calendario sul quale avevamo cancellato uno dopo l’altro i giorni che ci separavano dal congedo.
Dopo di che decisi di radermi (come facevo da 12 mesi), di preparare la drop per il giorno seguente e finalmente di coricarmi. Non avevo sonno. Sistemai il cuscino…ma niente. Cominciai a pensare e a ricordare.
Mentre ormai anche i miei compagni di camerata ronfavano, ricordai la prima notte trascorsa in caserma, la confusione, i rumori, ben diversa da quell’ultima, nella quale l’unico rumore era il russare di qualche alpino dal sonno pesante o dalla respirazione difficile.
Rammentai le notti dei campi invernali, il freddo patito e le vessazioni dei nonni.
Quante cose erano cambiate. Ero giunto a Boves atterrito e tornavo a casa cambiato, forse, anzi no, indurito.
Mi ero indurito e non me ne ero accorto, o quasi. Lo dimostrava il fatto che se da una parte avevo lottato contro il nonnismo, dall’altra avevo accettato alcune sue regole, a cominciare dalla corvè obbligatoria in cucina per gli ultimi arrivati.
Certo, ero stato pronto a stigmatizzare gli episodi più eclatanti, a rimproverare chi prevaricava sui più deboli o sugli ultimi arrivati, ma non avevo avuto il coraggio di andare fino in fondo, di affrontare anche da solo certe situazioni difficili.
Una notte di dicembre fui svegliato da Ghibaudo, che mi riferì che in una camerata c’era un’adunata figli. Mi alzai, giunsi fin sulla soglia di quella, mi appostai e udii il capo camerata che parlava ai nuovi arrivati con tono minaccioso. La voce era impastata, alterata. Sicuramente aveva bevuto. Ebbi paura di affrontare da solo quel gruppo. Sapevo che fra le reclute nessuno mi avrebbe spalleggiato e Ghibaudo era scomparso. Anche se avessi svegliato quelli della mia camerata non ci sarebbe stata nessuna levata di scudi, anzi sarebbe stata ancora una seccatura alzarsi…e poi per chi? Per dei figli? Ma sì… era finita, mancava poco… perché prendersela. In fondo cosa stavano facendo? Giocavano. Certo… mancando un po’ di rispetto a noi di gennaio, più vecchi e con più diritto di ordinare adunate figli, ma andava bene così.
Mi ritirai. Mi sentivo un verme. Ghibaudo ricomparve.
“Allora che fai?” Come se lui non fosse di gennaio.
“Sono fatti- risposi- domani mattina parlerò con il capo- camerata e mi farò sentire.”
Parlai così più per tacitare lui e la mia coscienza che per altro, sapevo che il capo-camerata avrebbe minimizzato. Tornammo a dormire.
Il giorno successivo feci ciò che avevo detto… e fu come avevo immaginato: non era successo niente…
“Lapenta- mi disse Trevisan- ti ho lasciato spaventato, un pulcino bagnato, e ti ritrovo sicuro di te.”
“Si cambia. “Gli risposi, con tono misto di sufficienza e disprezzo, mentre registravo gli estremi della sua carta di identità, al corpo di guardia.
Trevisan apparteneva al ristretto gruppo di alessandrini presenti alla caserma “Cerutti” di Boves e in più apparteneva a quel gruppetto di alessandrini che era riuscito a concludere il servizio militare nella città di residenza. Nel suo caso la motivazione era seria, ma non glielo perdonavo lo stesso di averci abbandonato a penare in quell’inferno.
Ci aveva lasciati dopo i campi invernali. Era partito per la licenza, salutando e dando appuntamento al suo ritorno. Ma tornò solo per il congedo.
A ottobre del 1982 di alessandrini nella 106 eravamo in tre o quattro, più tre della provincia. Gli altri erano per la maggior parte liguri e cuneesi.
Con il tempo mi ero proprio incattivito. Incattivito al punto che quando il tenente medico ci disse che un nostro commilitone, appena arruolato, simulava ad arte problemi alla gamba per evitare il servizio militare, invitandoci a farlo “trovare lungo” (a farlo patire), non mi feci pregare. Quando venne in fureria, dopo una lunga licenza per malattia, per sbrigare una pratica, pur avendo tanto male alla gamba, lo feci stare in piedi, invitandolo a sedersi solo quando ormai avevamo finito, minimizzando ancora il tutto.
Il giorno in cui lo stesso ufficiale medico mi disse che si era sbagliato e che in realtà il ragazzo aveva una grave patologia, rimasi di sasso, per non dire peggio.
Cardone ti chiedo scusa. Ovunque sia, spero che tu stia bene. Fui cattivo.
E mi scuso anche con te Dellacasagrande, che disperato chiedesti il mio conforto. Te lo diedi in maniera brusca e inappropriata. E quando seppi che, confessandoti con il cappellano militare, avevi parlato di pratiche vessatorie attuate nella nostra compagnia, ti trattai male. Non potevo accettare che tu avessi avuto più coraggio di me nel denunciare il”nonnismo”.
La notte dell’11 gennaio 1983 mi giravo e rigiravo nella branda, agitato. Agitato perché ritornavo alla condizione di libero cittadino, ma anche perché lasciavo una vita scandita da regole ed orari ai quali ormai ero abituato. Sarei tornato alla vita civile con le preoccupazioni che l’avrebbero accompagnata, a cominciare dal lavoro. Avrei dovuto rimettermi a studiare per ottenere un posto di ruolo nella scuola. Ce l’avrei fatta? E se no? Quanto tempo avrei potuto andare avanti? avevo già 27 anni. Forse avrei fatto meglio a firmare per continuare il servizio militare. Con la laurea avrei avuto qualche possibilità di avanzamento di carriera. Ma quelli ormai erano solo pensieri, perché, un po’ per indecisione, un po’ per il tempo scaduto e un po’ per amore di libertà, non se ne era fatto nulla.
Arrivò la mattina dell’11 gennaio 1983. Mi alzai prima degli altri congedanti, erano le 4,30. Feci il cubo per l’ultima volta. Mi lavai, mi vestii con l’uniforme da cerimonia (la drop) mentre gli altri si preparavano per andare all’esercitazione…quante volte l’avevo fatto anch’io. Misi a posto le ultime cose, tutto era stato sistemato in due grosse borse da viaggio il giorno prima. Uscii dalla camerata, scesi le scale con gli alpini equipaggiati per la manovra. Qualcuno mi salutò. Alcuni fecero qualche battuta:
” Ma ti alzi presto anche oggi?”
“Senti la mancanza di Caula?”
“Vieni anche tu?”
Sorrisi, salutando tutti.
Uscii dalla palazzina alloggiamenti e mi diressi verso quella comando per attendere il tenente Caula e chiedergli quando ci avrebbero consegnato i fogli di congedo.
L’ AR 76 giunse poco dopo. Mi avvicinai, feci il saluto militare.
“Già in piedi?” mi chiese il comandante, rispondendo al mio saluto, appena sceso dall’auto.
“Comandi. Sono qui per salutarla e per sapere a che ora riceveremo il foglio di congedo.”
Con molto distacco mi rispose che avremmo ricevuto i fogli di congedo dal maresciallo Sciolla, dopodiché, senza aggiungere altro, mi salutò e si allontanò, dirigendosi verso il piazzale dell’adunata, dove gli alpini erano già schierati e si stavano preparando per salire sugli ACL.
Tornai verso gli alloggiamenti e mi fermai davanti all’entrata, in attesa che i camion passassero, per salutare i miei compagni.
Dopo poco gli ACL transitarono uno dopo l’altro. Erano coperti. Si scorgevano solo i capo-cassoni e i soldati accanto.
Qualcuno di questi mi salutò con un cenno. I più giovani, guardandomi con malinconia, mi dissero:” Ciao Lapenta.”
Salutai tutti con tristezza, la maggior parte di loro non l’avrei mai più incontrata sulla mia strada… e ciò rattristava. Con alcuni avevo vissuto per quasi un anno gomito a gomito.
Tornai in camerata. Mi sedetti sulla branda in attesa della sveglia. Guardai i miei compagni che ancora dormivano. Mi alzai di nuovo, aprii l’armadietto, controllai se avessi dimenticato qualcosa…niente…tutto a posto. C’erano solo i due borsoni ormai chiusi. Uscii dalla camerata e camminai su e giù lungo il corridoio. Le camerate erano silenziose e deserte. Sulle brande c’erano i cubi ben fatti. Alcuni alpini dormivano ancora ma fra breve sarebbero stati svegliati, si sarebbero alzati e lavati, sarebbero andati a fare colazione, poi all’adunata per l’alzabandiera e quindi alle attività quotidiane.
Tornai nella mia camerata. Mi sedetti di nuovo sulla branda accanto al cubo, appoggiandomi e guardandomi intorno. Dopo una ventina di minuti, o forse meno, passò il capoposto per la sveglia. Ci salutammo.
Per la prima volta i miei compagni si svegliarono senza mugugnare. Vedendomi già vestito, Alberto mi chiese:
“Allora ce li danno i congedi?”
“Sì, stamattina. Dobbiamo aspettare che arrivi il maresciallo Sciolla, li ha lui in ufficio, perché Caula è in addestramento.”
“A che ora?” Aggiunse quasi strepitando
“Mah, appena apre l’ufficio… il tempo che sistemi le sue cose e possiamo andare. Alle otto e mezza va bene…”
“Finalmente, così me ne vado via da sto cazzo di posto.”
Continuammo a parlare e mentre lui indugiava ancora nella branda, gli altri si erano già alzati, lavati e si stavano vestendo. Avremmo aspettato tutti i congedanti del primo giorno per andare a fare colazione insieme e poi presentarci all’adunata.
“Muoviti Alberto- gli disse allegramente Matteo- vuoi andare via e stai ancora in branda!”
“Almeno oggi faccio come mi pare.”
“Mah…” Rispose Matteo, scuotendo il capo.
Lo fece in un modo così curioso che ridemmo tutti.
Quando fummo pronti, uscimmo dalla camerata e ci avviammo verso le scale per recarci a fare colazione.
Avevamo una sensazione strana. Ci muovevamo senza la preoccupazione che qualcuno ci desse degli ordini o ci dicesse cosa dovevamo fare. I più di noi scherzavano. Attraversammo il piazzale dell’alzabandiera quasi fossimo già dei civili nullafacenti.
Entrammo in sala mensa, ci servimmo e andammo a sederci vicino ai congedanti della 23. Scambiammo qualche parola. Ci furono delle risate. Rivolgemmo saluti e battute a quelli che sarebbero rimasti.
Pensai al mio primo giorno di mensa alla “Vian”. Ricordai Briasco. Finalmente era venuto anche per lui il giorno del ritorno a casa, a Genova, solo che il suo viaggio dal Friuli sarebbe stato più lungo.
Uscimmo per tornare alle nostre camerate e controllare che tutto fosse pronto per la partenza.
Che strana sensazione dava l’imminente libertà, inebriante, quasi frastornante…avevamo atteso quel momento per un anno, era giunto…indimenticabile… se fosse durato per sempre …
Alberto, Matteo e Giuseppe scherzavano in dialetto cuneese, dicendo battute e coinvolgendo anche me e Piccardo e intanto canticchiavano il motivetto dei congedanti:
“…Siamo borghesi,
siam congedanti, un passo avanti
la libertà!”
E facendo un passo avanti si inchinarono di fronte ad un’ipotetica platea.
Scoppiammo tutti a ridere.
Giungemmo alla nostra camerata. Quando Giuseppe vide il mio cubo gli si avventò, disfacendolo.
“Cosa fai?” Gli chiesi fra il gioioso e il sorpreso.
“Hai dormito qui per l’ultima volta. Dovevi lasciare disfatta la branda. Vuoi mica continuare a fare il servizio militare?”
“Hai ragione-risposi- non c’ho mica pensato, ero così abituato… che stupido sono stato.”
“Quando ce ne andremo, verrà il casermiere e porterà via tutto…quindi… il cubo…ma che senso ha.”
“Hai ragione. Sono stato proprio un figlio.”
“Lo puoi dire.” E rise di gusto.
Quando fummo pronti, scendemmo per l’adunata. La 23 era al completo. Della 106 eravamo presenti in pochi, oltre a quelli dei servizi, noi di gennaio, in drop i congedanti del primo giorno, ancora in scbt quelli che si sarebbero congedati il giorno dopo, il 12 gennaio.
Tutto avvenne rapidamente, adunata, alzabandiera, saluto del comandante Rossi e scioglimento delle righe per le varie attività. Noi ci avviammo verso la palazzina comando per attendere il maresciallo Sciolla. Quelli della 23 rimasero indietro, fermati da non so da quale motivo.
Quando il maresciallo giunse, puntuale come sempre, vedendoci ci sorrise.
“Ma siete già qui?”
“Il tenente Caula ci detto di rivolgerci a lei, maresciallo.” Parlai per tutti.
“Seguitemi in ufficio, i fogli di congedo sono pronti.”
Lo seguimmo ansiosi. Avevo salito quei gradini per quasi undici mesi, ebbi un attimo di malinconia. Ci fermammo sulla soglia della fureria unificata, rivolsi uno sguardo furtivo alla porta di quello che era stato il mio ufficio, la fureria 106. Il maresciallo ci fece entrare. Ci schierammo davanti a lui. Eravamo sette.
Ci mettemmo sull’attenti, il sottufficiale ci ordinò il riposo, bonariamente.
Tirò fuori da un cassetto i fogli. Ad Alberto luccicavano gli occhi, ma non solo a lui. Ci chiamò uno ad uno, ci fece firmare e ci consegnò il documento, dandoci la mano. Eravamo liberi.
Salutandoci, ci disse: “In bocca al lupo ragazzi. Buona fortuna. Se aveste bisogno ricordatevi che noi ci siamo. Siete sempre dei nostri.”
“Grazie maresciallo.” Rispondemmo tutti insieme.
Uscimmo dall’ufficio e quindi dalla palazzina, mentre entravano quelli della 23, stringendo fra le mani l’ambito congedo. Qualcuno lo girava e rigirava fra le mani. Sul fondo del foglio era stampigliato:” Ha servito la patria con disciplina e onore.”
Tornammo nelle camerate per prendere i bagagli e uscire, ormai a quel luogo non ci legava più niente.
Erano quasi le dieci quando ci presentammo al corpo di guardia. Ci attendevano i nostri compagni del secondo giorno. Ci salutammo, abbracciai Mauro e Mulassano, che era smontato dal servizio di guardia. Mi sentivo in colpa per non essere riuscito ad evitargli quell’ultimo impegno a ridosso del congedo.
Qualcuno scattò delle foto. Uscimmo. Quando venne chiusa la porticina d’ingresso alle nostre spalle, mi voltai. Ormai era serrata. Che strana sensazione, eravamo fuori. Per 11 mesi avevamo condiviso con quelli di dentro fatiche, gioie e dolori e ora mentre di là la vita continuava con propri ritmi e orari, noi eravamo fuori…per sempre. Con quelli di dentro non avevamo più niente da condividere, se non, forse con qualcuno, l’amicizia e qualche ricordo.
Alzai lo sguardo verso lo stemma del battaglione “Saluzzo” che campeggiava in alto sulla parete della caserma, lo guardai a lungo, quasi per fisarlo nella mente, quindi mi avviai con i miei compagni sulla strada che portava là dove erano parcheggiate le auto di Alberto e Matteo. Le raggiungemmo e vi caricammo i bagagli. Prima di salirvi…ancora uno sguardo alla caserma e ai nostri 11 mesi di vita che avrebbe serbato per sempre. Prendemmo posto sulle vetture e via, senza più voltarci.
Egidio Lapenta
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