Quanto costa la Casa Bianca

Tra le principali – sottaciute – ragioni del ritiro di Joe Biden c’è stata la scelta dei principali finanziatori democratici di chiudere i cordoni della borsa. E che borsa! I milioni per sostenere le campagne presidenziali si contano a centinaia, e sono il carburante indispensabile per fare funzionare le mastodontiche macchine di propaganda mediatica, con il loro corredo di superesperti. È il fenomeno in cui più risaltano le differenze tra gli Usa e l’Europa, anche se se ne parla poco e male.

Se provate a cercare in rete un po’ di dati, se ne trovano – di primo acchito – solo sulle diverse normative. Stringenti e moralistiche da noi, come se – nell’era di internet – il consenso democratico si potesse conquistare gratis. Non sorprende che – sempre più spesso – ci ritroviamo un personale politico con una cultura ottocentesca dei rapporti coi cittadini: quattro chiacchiere faccia a faccia, con condimento di tortellini all’occorrenza. In Usa vige la dottrina opposta. Visto che in gioco c’è il potere, è giusto che gli elettori si diano da fare anche col proprio borsellino. Il che non significa trasformarsi in plutocrazia. L’elezione di Barack Obama fu in larga misura conquistata inaugurando il crowdfunding sul web, raccogliendo piccole somme da milioni di sottoscrittori e investendole per l’acquisto di spazi televisivi. Nonché per il reclutamento dei professionisti indispensabili per gestire i meandri della comunicazione in rete.

Certo che, conti alla mano, le distanze tra le due sponde dell’Atlantico sono strabilianti. L’elezione – quattro anni fa – di Boris Johnson costò 21 milioni di dollari, più o meno quello che i due partiti Usa investirono per un semplice seggio di deputato in Texas. Per le suppletive, pochi mesi dopo, in Georgia del posto che valse ai democratici il controllo del Senato, solo per la televisione furono spesi 315 milioni. Ne deve essere valsa la pena, visto che per la sua campagna vincente del 2020 Biden aveva raccolto quasi un miliardo e mezzo di dollari, cui va sommato il miliardo messo insieme dal suo partito. Sono cifre destinate ad essere abbondantemente surclassate dalla competizione in corso. Grazie al suo esordio sprint, Kamala Harris ha potuto superare – nel solo mese di luglio – la soglia dei 300 milioni, più del doppio di quanto denunciato dal quartier generale di Trump. Il dato politicamente più rilevante è che il 90 per cento dei contributi alla vicepresidente viene da somme inferiori ai 200 dollari.

Questo successo è dovuto alle inedite tecniche di ingaggio degli elettori via web, con meeting sulla piattaforma zoom cui hanno partecipato oltre duecentomila fan, molti dei quali hanno poi contribuito con piccole o grandi donazioni. Internet non è solo, però, una fonte di finanziamenti. È anche una galassia di siti sempre più ardua da monitorare. Basta pensare alla moltiplicazione di utenti e piattaforme rispetto agli esordi di Obama, e alla proliferazione di strumenti e strategie per diffamare gli avversari politici. Combattere queste battaglie richiede un vero e proprio – costosissimo – esercito di specialisti.

Guru della comunicazione e dei sondaggi sociodemografici sono, inoltre, indispensabili per scegliere in quali stati concentrare le risorse, di tempo per le apparizioni e di audience. Il complesso sistema elettorale Usa concentra in pochi stati l’ago della vittoria finale. E decidere dove è ancora aperta la partita è di gran lunga la responsabilità più importante delle due cabine di regia. La sconfitta di Hillary Clinton dipese dall’aver trascurato gli stati della cosiddetta «rust belt», gli antichi insediamenti siderurgici e metalmeccanici del Midwest, storicamente sindacalizzati e pro-democratici. Ma che si rivelarono la culla di quel malessere degli operai bianchi che fece prevalere Donald Trump. È con un occhio – anzi due – a questi stati che Kamala Harris annuncerà domani il proprio running mate, il candidato alla vice-presidenza. Un’altra occasione in cui i riflettori dei media – stavolta gratis – saranno tutti accesi su di lei.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 6 agosto 2024).

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