Il rompicapo presidenziale

Siamo ancora al testa a testa nella sfida per la Casa Bianca. Qualcosa forse comincerà a muoversi tra un paio di settimane, dopo il fatidico duello del 10 settembre sulla rete televisiva ABC. Nel frattempo, i media continuano a spulciare nel curriculum di Harris (tanto, di Trump già sappiamo tutto) per capire qualcosa in più di quello che potrebbe fare se fosse eletta Presidente.

Non è facile. Il suo difetto principale sembrerebbe una propensione a cambiare facilmente idea. Lo ha fatto con disinvoltura rispetto ad alcuni temi chiave – come l’immigrazione e il welfare – posizionandosi in questi giorni in modo molto più moderato rispetto a quando correva da vice, quattro anni fa, nel ticket con Joe Biden. Ma allora era stata proprio scelta col compito di coprirlo a sinistra, per compiacere l’ala più radicale del partito. Oggi, come si è visto chiaramente alla convention di Chicago, tutti gli esponenti più in vista di quella componente – da Warren a Sanders a Ocasio-Cortez – hanno appoggiato senza se e senza ma la candidatura di Kamala. La paura, si sa, fa novanta. E dopo la quasi-certezza di rivedere Trump allo studio ovale, nessuno se l’è sentita di porre condizioni. Spianando così la strada a quella conversione verso il centro che è oggi il tratto più clamoroso del nuovo corso della candidata democratica.

D’altro canto, di questo dietro-front – e di tutto ciò che ascolteremo nei prossimi settanta giorni – dopo il 5 novembre non resterà nessuna traccia. In ogni sistema elettorale, le promesse del giorno prima contano notoriamente poco. In America l’esperienza bipartisan dimostra che contano pochissimo. Su molti temi cruciali – in primis la spesa pubblica, sia per il welfare che per gli incentivi industriali – le differenze tra Biden e Trump si sono rivelate ben minori che nei rispettivi programmi. Con una importante eccezione, che è anche quella che ci riguarda più da vicino: sul fronte della politica estera, i propositi dei due candidati si presentano molto diversi. Ed è probabile che lo saranno anche i loro comportamenti e decisioni.

Una spia del pedigree di Harris viene dalla ricostruzione apparsa su Foreing Policy del suo curriculum in Senato. Kamala è arrivata tardi alla carriera politica, nel 2016, entrando però direttamente nel consesso più prestigioso e autorevole di Capitol Hill. E andando a sedere subito in una delle Commissioni strategiche, quella sull’Intelligence. Con poca visibilità esterna – riunioni per lo più a porte chiuse – ma con dossier e interrogatori su tutti i fronti più caldi della cybersecuruty: dall’hackeraggio – più o meno accertato – di potenze straniere con incursioni nella regolarità elettorale, minacce dallo spazio con tentativi di compromettere i sistemi di GPS, i pericoli rappresentati da compagnie estere come Huawei all’avanguardia dell’innovazione tecnologica, fino ai rischi dei ritrovati più recenti di Intelligenza Artificiale generativa e di quantum computing.

Rispetto alle esperienze di Biden, navigatissimo nei meandri della guerra fredda ma – inevitabilmente – senza una conoscenza diretta delle sofisticatissime mappe dell’hi-tech, Harris rappresenta una nuova generazione di politici, ferratissimi in prima persona su quello che oggi è il fronte in cui si gioca la partita della sovranità multipolare. Un bagaglio che le tornerà utilissimo non appena metterà mano al dossier dei rapporti con la Cina e le sue mire su Taiwan, oggi a tutti gli effetti la cassaforte dei microchip per il controllo globale del pianeta. È cruciale che Kamala sappia, fin dall’inizio, di che partita e di che carte si tratta. Per conto suo, Trump si è già dotato di un super esperto di tutto rispetto, il supporto molto caloroso di Elon Musk. Kamala contro Donaldelon: sembra un match di guerre stellari. E forse lo è davvero.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 26 agosto 2024).

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*