Ippofilo

Il titolo è bellissimo e significa “colui che ama i cavalli”.

Il cavallo ha rappresentato sempre una parte importante nella mia vita, perché sin da ragazzo ero attorniato da giornali e riviste che parlavano di corse di cavalli.

“Sport Italia”, “Il cavallo”, “Sportman” erano onnipresenti ogni settimana e mio padre studiava, scommetteva e vinceva.

Quanti fine settimana abbiamo passato assieme visitando ippodromi, da quello piccolino “Montebello” a Trieste a “Le Padovanelle” a Padova sino alla scala del trotto, “San Siro”.

Qualche volta in occasione di corse molto importanti si raggiungeva “Villa Glori” a Roma e “Agnano” a Napoli.

Il tutto in un tremore di zoccoli e in un tramestio di scommesse, un rumore a me molto familiare.

Poi, finalmente i grandi, sterminati ippodromi europei, specialmente quando, durante il mio soggiorno a Londra, passavo inevitabilmente alcuni sabati in questa sorta di anello circolare attorno alla grande metropoli, frequentando “Newmarket”, “Newbury”, “Ascot” e le innumerevoli sale corse che si trovavano in ogni parte di Londra.

E poi, anni dopo, la Francia, con i suoi enormi ippodromi a Vincennes e Longchamps, dove centinaia di migliaia di spettatori scommettevano anche l’ultimo franco.

Voi direte una vita passata sui campi di corse, ma non è solo questo: ricordo quando, vicino a Los Angeles, ad Hollywood Park, rivedevo le pagine sopraffine di Charles Bukowski, in cui le corse di cavalli diventano componenti essenziali della vita, assieme alle donne e al whisky.

Ma questa è solo una parte del sogno e devo dire che mio padre riuscì a realizzare il suo sogno, quando finalmente creò una piccola scuderia.

Certo, non era quella della regina Elisabetta, e neppure quella di Karim Aga Khan, ma era un piccolo quartetto di cavalli trottatori in una piccola scuderia di un piccolo ippodromo.

Ma, come dice, il grande Nicolò “parva sed apta mihi”.

Un focoso sauro, che menava violenti colpi di zoccolo, due morelli nervosi, ma buoni corridori, ed infine un grigio, un castrone già piuttosto anziano, che sembrava il più tranquillo.

Ma proprio questo ultimo, non troppo grande, ma resistente, era quello che ci doveva dare le maggiori soddisfazioni: dal piccolo ippodromo di Montebello sino a Padova e poi a San Siro, la scala dell’ippica, un successo silenzioso ed inaspettato.

Certo, la scuderia di mio padre non durò molto, ma fu per lui il raggiungimento di un desiderio a lungo celato ed io lo comprendo benissimo.

Ancora oggi, dopo tanti anni, nei miei sogni appare il volo magico di Secretariat verso la Triple Crown, con quel vantaggio clamoroso di quindici lunghezze sul secondo, come se quel galoppo si dovesse trasformare in un volo irresistibile contro la noia, la banalità per riprendere l’essenza stessa della libertà.

Ecco, la velocità del cavallo è questo, sfuggire alle consuetudini del giorno per giorno e dirigersi verso uno spazio in cui traguardo, azzurro e oceano si confondono in una realtà inestricabile.

Viator

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