Insieme, Turingia e Sassonia superano di poco i sei milioni di abitanti. Meno del dieci per cento in un paese che ne conta oltre ottanta. Ma l’importanza del voto di ieri in questi due Land dell’Est ha un impatto simbolico che investe duramente il quadro politico nazionale. E, al di là dei risultati immediati, aggrava uno scenario di instabilità e di incertezza che durerà fino alle elezioni nazionali del settembre del ’25.
Il successo dell’ultradestra di AFD non è certo una sorpresa, visti i voti che aveva riportato in quest’area già in occasione delle europee. Stavolta, però, vince con il suo leader più estremista, offrendogli un palcoscenico istituzionale da cui farà sentire ad altissima voce le sue farneticazioni post-naziste. L’ostracismo dei partiti storici dovrebbe tenerlo alla larga dall’esecutivo regionale, ma si tratta di una magra consolazione visto il tracollo registrato dall’alleanza oggi in maggioranza a Berlino, con la SPD che supera a malapena la soglia di sbarramento. Un andamento negativo confermato dai sondaggi nazionali, e al quale non è chiaro se e come Scholz riuscirà a porre riparo in pochi mesi.
Più ancora del terremoto politico, è quello sociale ed economico che oggi preoccupa l’establishment tedesco al potere. Fino a qualche anno fa, la leadership di Kohl e Merkel sembrava essere riuscita a produrre un vero e proprio miracolo, la fusione – in appena due decenni – delle due Germanie in un’unica potente e florida nazione. Grazie a una visione lungimirante, una ferrea determinazione e a una ingentissima mole di finanziamenti, l’ex repubblica popolare filo-sovietica sembrava essersi trasformata nel motore della Germania unificata. Un risultato che a noi italiani appariva come il modello di ciò che non eravamo riusciti a fare nei confronti del nostro Mezzogiorno. Oggi, le parti sembrano invertite. Col Sud che, da qualche anno, ha ripreso a dare segnali di vitalità e di spinta in molti indicatori chiave, e la Germania che sembra pagare, invece, il prezzo più elevato in Europa alla crisi internazionale innescata dalla guerra. E vede andare in frantumi quella costruzione ideale unitaria che aveva rappresentato un motivo di orgoglio e di riscatto.
Il voto di protesta ha, infatti, radici profonde, che affondano nell’eredità del regime comunista. Soprattutto per le popolazioni più anziane, è risultato difficile saltare sul carro dell’economia di mercato. Per molti ha significato incertezza lavorativa, più competizione e – con la chiusura di molti giacimenti minerari in nome della salvaguardia ecologica – la prospettiva di un declino. Le responsabilità sono state facilmente attribuite a un’elite berlinese intrisa di valori occidentali che appaiono, per i meno abbienti, illusori.
La spia più interessante di questo malessere è il neo-nato partito personale di Sahra Wagensnecht, fuoriuscita dalla Linke con cui era stata eletta in parlamento e assurta rapidamente alla ribalta nazionale grazie al suo brillante e innovativo stile comunicativo, che le è valsa in pochi mesi una percentuale a doppia cifra nei sondaggi. La Wagensnecht – moglie di Oskar Lafontaine, icona della sinistra radicale – si autodefinisce di «sinistra conservatrice», con una piattaforma anti-immigrati condita con posizioni sulla guerra critiche dell’egemonia americana, e nostalgiche del benessere economico che i rapporti privilegiati con la Russia avevano a lungo garantito ai tedeschi. In prospettiva, potrebbe sottrarre voti ad AFD, pescando nel suo bacino di protesta populista e ancorandoli a una visione sociale e ideologica di welfare europeista. Nel grande frullatore geopolitico che sta squassando il vecchio continente, una donna di grande esperienza e fascino oratorio potrebbe dare una mano all’establishment a sottrarsi alla morsa di AFD. O forse, spingerlo a cadere dalla padella nella brace.
di Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 2 settembre 2024)
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