I conti che non tornano

Un messaggio si aggira per l’Europa. Per la verità, già da un pezzo. Ma solo recentemente sembra essere riuscito a squarciare i veli delle cancellerie. In sintesi, recita così: i conti della politica non tornano. E quelli dell’economia, peggio ancora.

La leadership nel disvelamento è spettata – come dubitarne – alla Germania. Che alle recenti elezioni regionali ha visto l’estrema destra guadagnarsi la palma del vincitore e – quel che è peggio – la coalizione al governo sbriciolarsi. Se il tracollo dovesse ripetersi domenica 22 in Brandeburgo, scatterebbe il codice rosso. Il problema è che – probabilmente – è già tardi per rimediare. Infatti, il quadro economico non lascia molti margini di manovra. Le cifre snocciolate da Federico Fubini una settimana fa sul Corriere dimostrano che la crisi tedesca affonda in una ventennale miopia di disinvestimento strategico: 2400 miliardi che mancano all’appello rispetto all’andamento dei decenni precedenti e che spiegano perché la Germania – e, dietro di lei, mezza Europa – abbia accumulato un ritardo spaventoso sul fronte decisivo dell’innovazione digitale.

Questo quadro è – di molto – complicato dalla constatazione che il rallentamento nello sviluppo sarebbe stato ben più catastrofico se non ci fosse stato l’afflusso ingentissimo – quasi otto milioni – di immigrati a evitare la stagnazione. Come scrive sempre Fubini, «se il saldo migratorio fosse stato zero o poco più – se i giovani ungheresi, polacchi, cechi, spagnoli, italiani, portoghesi, greci, ucraini, siriani, afghani se ne fossero rimasti a casa loro – per la Germania saremmo già di fronte a un decennio perduto. Come il Giappone dopo la sua bolla». La miopia delle elites tedesche, con la fissa del «freno al debito», salvata dalle orde di migranti. Chiaro? Provate, però, a spiegarlo agli elettori che nell’est-Europa vedono sparire il lavoro e diminuire i salari e sono – a torto – convinti che sia colpa degli immigrati. Una sindrome che si sta allargando anche al resto del paese. E per frenarla i vecchi partiti non sanno letteralmente cosa fare.

Anche perché, al cuore del problema, ci sono i rapporti con l’America. Al netto degli errori pregressi, le cose per la Germania son cominciate a precipitare quando – con l’invasione dell’Ucraina – sono saltati i legami con la Russia. Innanzitutto quelli energetici, con le conseguenze che sappiamo. Ma anche quelli di una scommessa, a lungo coltivata dalla Merkel, di costruire ponti commerciali e – in qualche misura – culturali. Che servissero ad aprire una nuova frontiera per il futuro, ma fornissero, al tempo stesso, un ombrello per il passato, un ammortizzatore sociale e psicologico verso il brusco cambio di direzione  e di regime imposto ai neo-cittadini dell’est. Invece, con l’improvvisa e drastica messa all’indice di Putin in nome della solidarietà all’Ucraina, le elites di governo hanno imboccato una strada che molti elettori – soprattutto all’Est – non hanno condiviso. Una contrarietà emersa subito sul fronte destro con AFD, ma che, alle ultime elezioni, ha preso corpo anche a sinistra attraverso la rapida ascesa della lista rossobruna di Sahra Wagenknecht, contro le spese militari e a favore di quelle sociali.

Si tratta di posizioni familiari al partito di Marine Le Pen, appena ammesso nel salotto buono di Matignon – e dell’Eliseo – con l’astensione con cui sembrerebbe garantire a Macron di uscire dall’impasse di un parlamento quasi ingovernabile. Un evento che, insieme ai risultati delle elezioni e dei sondaggi tedeschi, celebra – come ha scritto ieri Luca Ricolfi su questo giornale – «il funerale del “cordone sanitario“, ossia l’idea che verso i partiti estremisti le forze politiche democratiche dovessero alzare una barriera invalicabile». Per il momento, tuttavia, si tratta ancora di un funerale simbolico. La vera celebrazione ci sarà se – il fatidico 5 di novembre – dovesse vincere Trump. E tener fede alla sua promessa di lasciare l’Europa a cuocere – militarmente – nel proprio brodo.

A quel punto si porrà il problema di dove reperire i fondi per provare a metter su in tutta fretta un esercito che supplisca al vuoto della mancata protezione Usa. Ed è con questo problema sul tappeto – e nelle tasche degli elettori – che la Germania si troverà ad affrontare, a settembre del prossimo anno, le elezioni più incerte e drammatiche della sua storia democratica. E di quella dell’Europa unita.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 8 settembre 2024).

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