La nuova era repubblicana

L’ampiezza del risultato spazza via l’equivoco che ha fuorviato fino a ieri buona parte dei commentatori. Non è stata la vittoria di Trump, ma l’esordio di una nuova era politica. Abbagliati dalla fortissima personalità del vincitore, e dalla sua straordinaria capacità di catalizzare amori e odi altrettanto viscerali, abbiamo tutti sopravvalutato il ruolo della sua leadership populista. A questo equivoco ha contribuito molto la polarizzazione mediatica, la facilità con cui giornali e televisioni hanno aderito a una semplificazione del messaggio: o con lui, o contro di lui. Ma se un leader vituperato e condannato si riprende la Casa Bianca, e il suo partito che lo segue compatto conquista entrambi i rami del Congresso, non si tratta di un avvicendamento al vertice. Ma di un sommovimento sociale profondo, che pone molto probabilmente le basi di un mutamento di fase, e di sistema.

Comprendere – e accettare – la forza delle radici del consenso a Trump è la prima autocritica da fare per gli avversari democratici. Continuare a rappresentare Trump come un usurpatore e un bugiardo ha solo contribuito a esorcizzare il fatto che, per metà del popolo, le cose non stavano così. E se l’attaccamento al proprio capo ha resistito alle tempeste e alle accuse di una accesissima campagna elettorale, Trump potrà, per il prossimo futuro, contare sulla stabilità del suo seguito, e del collante identitario che ha forgiato. Non si sa se e come i democratici riusciranno a ricucire – o anche soltanto ad immaginare – una propria visione del mondo che riesca a catturare di nuovo la maggioranza dei propri cittadini. È quasi certo che nell’immediato ci sarà un regolamento di conti tra le due fazioni – moderati e radicali – che avevano trovato un precario equilibrio dietro la candidatura di Harris. Impegnati a leccarsi le ferite, lasceranno ai vincitori il compito di ridisegnare il futuro.

Accanto alla solidità del retroterra sociale, l’altra novità del trumpismo trionfante riguarda, infatti, il progetto di riorganizzazione statale che può rappresentare una svolta di portata comparabile a quella di un secolo fa con il New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Le linee guida di questo programma sono state chiaramente enunciate in quel Project 2025 che è stato uno dei principali pomi della discordia elettorale. Trump si è – in alcune occasioni – dissociato dagli aspetti più dirompenti, come l’epurazione di cinquantamila funzionari di livello intermedio dell’apparato federale, per sostituirli con personale di fiducia reclutato da un database già preparato di amministratori accuratamente profilati. Ma non è dato, al momento, sapere se e in che misura questo piano sia stato davvero messo da parte.

Anche perché si incrocia con un altro progetto parallelo, denominato Doge, che fa capo all’ineffabile Elon Musk. L’acronimo sta per Department of Government Efficiency, Ministero dell’Efficienza governativa, e sembra prefigurare l’ingresso diretto del tycoon nelle maglie del potere Usa. Ovviamente, con tutto il supporto di quell’intelligenza artificiale di cui Musk è – con le sue imprese – uno dei massimi esperti mondiali.

Sarebbe la prima volta che si provi a sciogliere un nodo che è alle radici del fallimento reiterato del welfare state nelle democrazie occidentali: l’inefficienza operativa e le resistenze corporative di fronte agli imperativi di flessibilità e rapidità imposti dai mercati globali. Un esempio in questa direzione è stato il ruolo svolto da Palantir nella riorganizzazione della macchina di intervento della burocrazia Usa a supporto delle misure anti-Covid. Un’azienda che fa capo a Peter Thiel, uno dei pionieri della Sylicon Valley legato a filo doppio col vicepresidente Vance, l’altro uomo forte della Casa Bianca.

Inutile aggiungere che – ammesso che funzioni e che Trump lasci a Musk l’iniziativa – i costi sindacali e sociali di una svolta così radicale sarebbero notevoli, come le incognite sulla trasparenza della gestione, e dei suoi risultati. Accentuando quei rischi autocratici che continuano ad essere il rovello – e la paura – con cui ampie fasce dell’opinione pubblica guardano all’affermazione di Trump. Come confermato dal titolo con cui il New York Times epigrafa che «l’America si affida all’uomo forte – e si ritrova sul precipizio di uno stile autoritario di governo mai visto nei suoi due secoli e mezzo di storia».

Questa preoccupazione riflette la consapevolezza che, questa volta, la presidenza Trump andrà ben oltre gli aspetti coreografici e caratteriali cui quella di quattro anni fa ci ha abituato. Dietro Trump c’è un consenso sociale ampio e stabilizzato. E al suo fianco c’è un partito compatto, e deciso ad occupare il potere per tenerselo stretto e a lungo. Insieme a due vice, molto più giovani del presidente e con una visione dello Stato che rompe apertamente con la tradizione. Abbastanza per trasformare una vittoria nell’inizio di una nuova era, l’era repubblicana.

Dove questa era condurrà gli Usa, e il mondo, è un’altra storia.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 6 novembre 2024).

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