Appunti per una riflessione sugli anni Settanta, la classe operaia e il conflitto sociale.
I decenni compresi tra gli anni Sessanta e gli Ottanta del secolo scorso definirono, senza dubbio, una stagione dirompente e straordinaria per l’evoluzione delle dinamiche sociali in tutto il mondo.
Furono anni di fermento e di innovazione che coinvolsero l’intera società occidentale capitalistica in un turbinio di avvenimenti e di fatti che segnarono la Storia contemporanea recente in maniera indelebile e profonda, modificandone in modo sostanziale i paradigmi di riferimento e le chiavi interpretative correnti. Il mondo uscito dal Secondo conflitto mondiale fu attraversato, nei successivi trent’anni dal 1945, da un progressivo effervescente processo di crescita e di sviluppo sia in termini economici che in materia di diritti, garantendo l’affermazione delle “democrazie liberali” nel mondo occidentale e l’esistenza del blocco dei Paesi del “socialismo reale” in una dimensione di suddivisione dell’ordine globale basata sul principio delle sfere di influenza e di equilibrio imperniata sul rispetto reciproco fondato sulla deterrenza militare e la paura incombente dell’olocausto nucleare[1].
In Occidente il contratto sociale sottoscritto virtualmente tra le parti prevedeva lo sviluppo di un’economia di mercato che riconosceva lo scambio tra lavoro, capitale e mezzi di produzione, introducendo livelli di compensazione e redistribuzione strettamente collegati con il benessere sociale collettivo, ampliando e sostenendo finanziariamente la costruzione del welfare che migliorò sensibilmente le condizioni delle classi sociali meno abbienti e più fragili, facilitando forme di mobilità sociale che diventarono esse stesse fattori di crescita e sviluppo collettivo.
Questo processo coinvolse l’intero campo occidentale in un articolato periodo temporale che durò oltre trent’anni durante i quali altre realtà del Sud globale (Asia, Africa, Sudamerica, ecc.) furono invece impegnate in sanguinosi e violenti processi di decolonizzazione e di affrancamento da regimi autoritari e dittatoriali spesso conniventi con forme di neocolonialismo criminale. Durante quei trente gloriouses in Europa e in nord America si svilupparono una eccezionale crescita economica e della ricchezza generale delle nazioni, un forte incremento demografico e uno straordinario allargamento e incremento delle conquiste sociali in materia di diritti sia individuali che collettivi, modificando nella sostanza i modelli archetipici della convivenza collettiva comune.
Oggi, a cinque decenni da quegli anni, è trascorso un adeguato lasso di tempo per ipotizzare di aprire una riflessione storiografica critica più ampia e organica su quella stagione; una fase temporale che sempre più spesso, soprattutto in Italia, il mondo della politica e dell’informazione dominante tende a derubricare quale momento di sterile contrapposizione sociale e di conflitto aspro e violento, bollando quel lungo decennio degli anni Settanta come “anni di piombo”, accompagnandolo con una sinistra aura di condanna e negatività.
In realtà è invece giunta l’ora di affrontare e studiare quella stagione con gli strumenti critici della storiografia, di leggere e interpretare quel ciclo senza sconti, evidenziandone le contraddizioni e le responsabilità storiche. Alcuni studi pionieristici a riguardo in Italia sono già stati messi in atto; ricordo a tal proposito alcuni saggi interessanti a puro titolo informativo come “Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta” o “Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale” di Guido Crainz o “Generazione settanta. Storia del decennio più lungo del secolo breve” di Miguel Gotor o l’ultimo “C’era una volta in Italia. Gli anni Settanta” di Enrico Deaglio in cui si è tentato di riflettere su quella stagione da parte di autori – o quanto meno alcuni di loro – che, oltre a svolgere una rilettura critica del periodo, hanno anche avuto la ventura di vivere quegli anni in prima persona da testimoni.
Appare indiscutibile come la lettura, critica e puntuale, di quella stagione ce lo restituisca come probabilmente il momento più fecondo e vivace del dibattito pubblico nazionale dall’epilogo del conflitto bellico mondiale. Un’epoca che si espresse con una vitalità e una energia culturale, politica e sociale che regalò, alla allora nostra giovane democrazia, gli esiti più innovativi e radicalmente profondi di quella fruttuosa discussione collettiva che si era progressivamente sviluppata a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta; esiti che portarono ad una effettiva modernizzazione del Paese che condusse l’Italia ad inserirsi definitivamente nel novero delle grandi democrazie europee occidentali, nonostante i forti condizionamenti esterni e i limiti di autonomia dettati dal posizionamento all’interno dello scacchiere geopolitico internazionale in un contesto globale di contrapposizione in cui il mondo era immerso determinato dalla Guerra Fredda.
Furono quelli gli anni che condussero l’Italia all’approvazione di grandi riforme legislative, solidamente fondate sulla Carta costituzionale, che diedero una forte connotazione progressiva e strutturale all’intera società italiana. Gli anni Settanta sono stati, infatti, gli anni in cui venne promulgato e approvato il nuovo Statuto dei lavoratori, frutto di rinnovati rapporti e relazioni tra le parti sociali ordinamento in cui i lavoratori divennero protagonisti attivi e portatori di diritti, di istanze e di responsabilità; gli anni in cui venne democraticamente sancito il diritto statutario al divorzio prima e all’aborto poi; in cui si provvide dar corso al mandato costituzionale di decentramento della democrazia rappresentativa approvando la riforma che promosse la costituzione delle Regioni come nuovo soggetto amministrativo autonomo; la stagione in cui si elaborò e discusse una profonda e radicale riforma del diritto di famiglia aggiornandolo alle trasformazioni e ai mutamenti sociali, giuridici e relazionali che si erano sviluppati all’interno della società civile italiana; il periodo in cui si modificò profondamente il mondo dell’informazione radiotelevisiva rendendolo plurale e differenziato; quello in cui, a seguito di un grande dibattito pubblico – disciplinare, culturale e politico – venne approvata una pionieristica e rivoluzionaria riforma del sistema psichiatrico nazionale che prevedeva l’abolizione dei manicomi attribuendo alla psichiatria funzioni di cura e attenzione alla persona, superandone i connotati repressivi, di contenimento e di stigma sociale attribuendo alla malattia mentale la corretta dimensione; infine gli anni Settanta furono quelli in cui la prima donna divenuta ministro della Repubblica, l’on. Tina Anselmi, orgogliosamente cattolica e partigiana, elaborò e costruì la riforma del Servizio Sanitario Nazionale, dove la salute del cittadino diviene bene pubblico collettivo, garantendone l’universalità e la gratuità, nel rispetto puntuale dei valori fondanti dei principi costituzionali di uguaglianza richiamati dalla Carta. Gli anni Settante furono quindi una età di riforme straordinarie, riforme che risultarono essere il frutto di una stagione di forti conflitti che hanno attraversato la società italiana, evidenziandone le contraddizioni sempre più manifeste che la caratterizzavano. Senza voler scomodare la dialettica eraclitea e la “teoria del conflitto” come fattore di trasformazioni che conducono all’ordine delle cose e del mondo, appare evidente come questa si presenti come un’età in cui alcune componenti della società italiana fecero emergere prepotentemente il loro peso e il loro desiderio di essere tra i protagonisti del cambiamento. In primo luogo la grande massa di giovani che allora costituiva una parte rilevante e significativa della cittadinanza attiva, figli di quel fenomeno demografico noto come baby boom, che accompagnò i primi decenni della seconda metà del XIX secolo, rendendola un interlocutore sociale importante, portatore di istanze e aspirazioni a cui fornire risposte.
In secondo luogo la crescente influenza di una componente costitutiva della società italiana che, attraverso un lento, progressivo processo di crescita, trasformazione e autoconsapevolezza era diventata, nel corso del dopoguerra, un interlocutore importante e imprescindibile nel dibattito pubblico nazionale: la classe operaia. La saldatura, ideale e di intenti, avvenuta tra questi due soggetti protagonisti della società italiana prese avvio durante gli anni della contestazione e della protesta sociale che si sviluppò nella seconda metà degli anni Sessanta che si affermò con forza nel biennio 1968/1969 con il Sessantotto giovanile e studentesco e le lotte operaie del cosiddetto “autunno caldo”.
Gli anni Settanta diventarono la naturale continuazione di quella stagione di trasformazione nata nel decennio precedente e che trovò nell’approvazione del già citato “Statuto dei lavoratori”[2], uno dei momenti probabilmente più alti dal punto di vista legislativo e istituzionale, approdo di un intenso dibattito giuridico, politico e culturale che giungeva all’applicazione dei principi cardine della nostra Carta fondamentale riconducibile ai primi tre articoli, costitutivi l’essenza stessa della Repubblica ovvero il valore fondante del lavoro e dell’uguaglianza come principio istitutivo della comunità nazionale. Il testo della legge introdusse notevoli modifiche sia sul piano delle condizioni di lavoro che su quello delle relazioni sindacali e dei rapporti fra le parti, istituendo disposizioni a tutela e garanzia dei lavoratori e in materia di rappresentanza sindacale. Questo andava nel solco di una attenta interpretazione dei principi costituzionali sanciti dalla Carta nei suoi primi articoli dove il riferimento al lavoro come elemento fondante dell’ordinamento repubblicano è l’unico diritto esplicitamente enunciato.
Nello Statuto vengono sanciti e definiti per legge alcuni istituti come la fissazione di limiti minimi di età di assunzione per il lavoro minorile in cave e miniere, la riduzione di orario della durata della giornata lavorativa, il riconoscimento del diritto di associazione sindacale e quello di sciopero, l’introduzione dell’attenzione alle prime normative antinfortunistiche e l’obbligo di introduzione forme assicurative, regolamenta gli eccessi di controllo e di indebito accesso nella libertà individuale del lavoratore da parte del datore di lavoro, sancisce il divieto di mediazione nel lavoro, incentiva e valorizza le relazioni sindacali in materia di contrattazione, riconosce e garantisce la democrazia assembleare all’interno delle aziende, garantisce il lavoratore dal licenziamento senza validi motivi introducendo l’obbligo di reintegro. Come detto queste conquiste furono il frutto di un lungo periodo di lotte politiche e sindacali che il movimento operaio, nella sua accezione più ampia, mise in atto in quegli anni, arrivando ad elaborare una propria soggettività che si propose come effettivo interlocutore nel dibattito pubblico e sociale, portatore di istanze e proposte atte al miglioramento non solo salariale della classe lavoratrice, ma delle condizioni di lavoro nel loro complesso, facilitando e aumentando in tal modo la redistribuzione della ricchezza nazionale prodotta, valorizzando così le proprie condizioni “di classe”, introducendo così nuovi fattori di democratizzazione interna nella struttura statuale che regolamenta le relazioni tra le parti sociali, dando ampia funzione alle assemblee sindacali e ai consigli di fabbrica che diventarono, nei fatti, vere e proprie palestre di democrazia condivisa, che produssero innovazioni dal punto di vista sia contrattuale che rivendicativo, favorendo in tal modo la formazione e la crescita di una nuova classe dirigente sindacale capace di interpretare con forza lo spirito del tempo.
Strumento di questo conflitto sociale messo in atto fu la contrattazione sindacale che scatenò in quegli anni grandi ondate di scioperi con vigorose lotte e contrapposizioni muscolari che condussero la classe operaia a beneficiare di significativi miglioramenti salariali oltre che al riconoscimento di progressivi miglioramenti delle condizioni lavorative e all’individuazione di nuovi benefici individuali. Attraverso l’utilizzo della contrattazione sindacale le rivendicazioni del movimento operaio incisero significativamente in quello che si stava in allora progressivamente costruendo ovvero forme di stato sociale perequative e redistributive rispondenti a esigenze di miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici. È in questo clima e in questa temperie che prese vita ad esempio l’esperimento – rivoluzionario in allora – delle cosiddette “150 ore” – ovvero l’individuazione e la definizione di una parte del tempo lavorativo contrattualmente stabilito, pagato e retribuito in cui i lavoratori che ne facevano richiesta potevano impegnare per il completamento del proprio ciclo di studi, migliorando in tal modo la propria condizione individuale e aprirsi a prospettive di crescita lavorativa e personale diversificate o, più semplicemente, riuscire a completare il proprio corso di formazione scolastica raggiungendo traguardi scolastici che erano state interrotti in precedenza per le ragioni più svariate, spesso per mera necessità.
Le organizzazioni sindacali che già a partire dall’immediato dopoguerra avevano progressivamente assunto una rilevanza politica e di rappresentanza sempre più marcato, anche in forza del loro ruolo sancito dalla Costituzione, diventarono sempre più protagoniste e interlocutrici nel dibattito pubblico nazionale. La suddivisione di sigle sindacali delle varie categorie di lavoratori era diventata nel corso tempo un elemento di frammentazione della classe operaia, indebolendo in tal modo l’azione sindacale. Durante i mesi dell’autunno caldo la convergenza programmatica e ideale che sottendeva le lotte dei lavoratori trovò terreno fertile nella stagione delle assemblee sindacali e dei consigli di fabbrica, con una spinta alla ricerca di un’azione unitaria che proveniva dal basso, dalla base dei lavoratori. Le principali sigle confederali sindacali, capaci di accogliere al proprio interno la rappresentanza delle forze politiche e il patrimonio ideale dei partiti del cosiddetto “arco costituzionale” ovvero di quelle formazioni protagoniste della costruzione della Repubblica, furono fortemente sollecitate a ricercare nuove formule aggregative in grado di sostenere con maggior vigore le istanze dei lavoratori nella contrapposizione con le controparti sociali, individuando nell’unità sindacale ciò che era in grado di meglio contrastare le resistenze della classe imprenditoriale – il “padronato” come veniva definito sinteticamente, ma efficacemente allora – l’obiettivo di maggior rilevanza.
Questa ricerca e questo mito dell’unità sindacale fu, per alcuni lustri, uno degli assi portanti della dibattito politico interno al movimento operaio e, più in generale, alla sinistra politica che in quegli anni si arricchì di nuove formazioni e nuovi gruppi figli proprio di questa discussione politica che aveva permeato la riflessione culturale del Paese producendo alcune elaborazioni teoriche di assoluta rilevanza[3]. Questo sforzo impegnò per anni il dibattito interno ed ebbe come risultato di maggior rilevanza la costituzione nel 1973 della F.L.M. – Federazione Lavoratori Metalmeccanici che riunì sotto un’unica bandiera le tre sigle dei lavoratori metalmeccanici italiani – che peraltro costituivano la maggioranza degli occupati nell’industria di allora – raggiungendo, nei fatti, quell’unità sindacale tanto agognata, capace di proporsi come interlocutore autorevole e temuto dalle controparti. La F.L.M. è stata un’iniziativa in grado di raccogliere il meglio del sindacalismo italiano, quello con maggior capacità di innovazione e qualità contrattuale, con una solida cultura di “classe”, con una riconosciuta autorevolezza e una elevata ampiezza di rappresentanza[4].
Fu negli anni dell’esperienza unitaria dell’F.L.M. che la classe operaia italiana riuscì ad ottenere risultati significativi non solo dal punto di vista contrattuale e salariale, ma anche sotto il profilo delle innovazioni e dei miglioramenti della qualità del lavoro tramite una rivisitazione dei tempi e dei metodi delle lavorazioni, degli ambienti lavorativi e delle misure di sicurezza dei luoghi di lavoro. Fu durante quel decennio che iniziarono a prendere forma e si svilupparono non solo attenzioni, ma anche azioni rivendicative sulle ricadute ambientali e sulla salute pubblica che le attività industriali producevano. È in quegli anni che iniziarono ad venire a galla criticità ed emergenze di forme di inquinamento industriale derivanti da sversamenti di reflui o emissioni in atmosfera e da modalità produttive obsoleti e a rischio di incidente che contaminarono l’ambiente o intaccarono significativamente la salute pubblica. L’incidente alla Icmesa di Seveso e gli effetti sulla popolazione di quelle zone furono particolarmente significativi, ma anche qui, nella nostra provincia, iniziò una approfondita discussione su due emergenze ambientali che diventarono da subito di rilevanza nazionale: l’inquinamento della valle Bormida a seguito della storica attività dell’Acna di Cengio e la tragedia dell’inquinamento da amianto dell’Eternit di Casale Monferrato che ha coinvolto e coinvolge tutt’ora, la popolazione e un intero territorio; anche in questi casi a noi particolarmente vicini l’operazione verità e di conoscenza avvenuta attraverso una intensa attività di approfondimento, studio e di informazione contribuirono alla costituzione di forme di consapevolezza sui temi che derivavano dall’intenso dibattito tra le maestranze interno alle fabbriche e ai consigli di fabbrica.[5]
Le spinte innovative e unitarie che alimentavano le lotte sindacali svolsero dunque in quegli anni funzione di lievito per l’ammodernamento della società italiana, costruendo negli strati popolari una cultura di promozione verso quelle profonde riforme di cui il Paese necessitava per adeguarsi alla contemporaneità ed equiparandolo agli altri Stati nazionali più avanzati dell’Occidente.
Queste trasformazioni, queste riforme, si svilupparono durante un ampio decennio che si dipanò a cavallo degli anni Settanta, nell’ambito di un contesto di ordine globale del mondo occidentale riferito a Bretton Woods, come già detto, e calato in una logica economica capitalistica basata su fordismo e taylorismo, dove il lavoro era il fulcro del conflitto sociale. In quel decennio questo equilibrio venne stravolto dall’avvento di nuove concezioni e teorie economiche riconducibili al neoliberismo che introdussero il mercato e la finanza, in luogo del lavoro e della produzione, quali nuovi feticci su cui poggiare una nuova stabilità.
Margaret Thatcher prima e Ronald Reagan poi, furono i campioni di questa rivoluzione copernicana che stravolse il mondo occidentale e le relazioni sociali; il motto divenne “la società non esiste, esiste l’individuo” e l’arricchimento fine a sé stesso senza preoccuparsi di redistribuire ricchezza e delle ricadute sociali stravolsero gli equilibri introducendo una lunga stagione di instabilità e di incertezza, una stagione che dura sino ad oggi con tutti i suoi preoccupanti drammatici segnali.
A tutto ciò si è aggiunta l’avvento di una nuova tumultuosa rivoluzione industriale frutto della innovazione tecnologica, informatica e digitale che contribuisce a sovvertire sostanzialmente i precedenti equilibri sociali, decretando la fine dei rapporti tra le classi sociali così come sino ad oggi definite e individuando nella “globalizzazione” il nuovo ordine mondiale.
La fine dei vecchi equilibri ha portato una progressiva compressione del protagonismo delle componenti sociali e una ridefinizione dei ruoli alterandone lo schema; la classe operaia è stata progressivamente oggetto di compressione e riduzione quantitativa, marginalizzata e sminuita del suo peso sociale, perdendo nel corso degli anni la propria capacità di incidere sul corso degli eventi, impoverendosi sempre più e aumentando il divario sociale rispetto a nuove forme di effimera rappresentanza sociale. Ma questa è storia dei giorni nostri, una storia in cui siamo profondamene immersi che tentiamo di decifrare e comprendere e il cui dipanarsi nel tempo inquieta sempre più.
Le parole sin qui scritte hanno voluto rappresentare la storia di quella stagione, straordinaria e feconda, che furono gli anni Settanta con le sue contraddizioni, le sue aspirazioni, le sue speranze.
Si è provato a raccontare una stagione in cui il mondo del lavoro, la classe operaia e il sindacalismo italiano agirono da protagonisti di quegli anni, di quella temperie e si è tentato di introdurre ad una descrizione di una fase storica costituita da storie di lotta dure, articolate, complesse ed esaltanti.
È la narrazione di una capacità di elaborazione e di proposta politica che è stata capace di rappresentare le istanze e i desideri delle grandi masse dei lavoratori in maniera unitaria e coesa, capace di condurre impegnative vertenze e perseguire accordi assai rilevanti. Una stagione superata ormai, ma che rimane comunque un momento straordinario di crescita e di riequilibrio sociale in grado di completare quell’opera di trasformazione del Paese, ammodernandolo, aggiornandolo e introducendolo a pieno diritto tra i principali Paesi dell’Occidente sviluppato.
Insomma, anni formidabili…
21 gennaio 2083 Mariano G. Santaniello
[1] Questa visione globale fondava sui principi e sugli accordi stipulati e condivisi tra gli Stati usciti vincitori dalla guerra durante la conferenza di Bretton Woods e dalle risultanze emerse dai vertici delle potenze alleate a Teheran nel 1943 e a Yalta nel 1945.
[2] Lo Statuto dei Lavoratori ovvero la legge n. 300 approvata il 20 maggio 1970 fu fortemente voluta dall’allora Ministro del Lavoro Giacomo Brodolini, sindacalista socialista, che investì un raffinato giuslavorista e docente universitario, Gino Giugni, della sua elaborazione mettendolo a capo di una commissione tecnica composta da notevoli giuristi. Un altro importante personalità che contribuì significativamente fu il democristiano Carlo Donat-Cattin che sostituì Brodolini prematuramente scomparso. La legge costituì il traguardo di un lungo e tormentato percorso di lotte e conquiste sociali avviatosi a partire dall’immediato dopoguerra.
[3] A tal proposito si richiama l’esperienza del operaismo nato dalle riflessioni teoriche di personalità come Raniero Panzieri, Mario Tronti, Toni Negri, Massimo Cacciari, Alberto Asor Rosa, Rita Di Leo, Romano Alquati e altri che, partendo da una rilettura critica del pensiero marxista ortodosso, ne propose un approccio antiautoritario e di acquisizione di consapevolezza del proprio ruolo e potere da parte della classe operaia.
[4] L’esperienza unitaria della FLM si concluse con la formale dissoluzione nel 1984. L’unificazione non incontrò mai i favori delle sigle confederali e dei partiti ma, costituì qualcosa di più di un semplice patto di unità di azione. La FLM, di fronte alle esitazioni e agli arresti del processo unitario a livello confederale, seppe rappresentare la punta avanzata e uno stimolo verso un più elevato grado di unità sindacale.
[5] Furono queste occasioni che fecero emergere all’interno del mondo del lavoro alcune figure di studiosi, quadri e dirigenti sindacali che svolsero in allora una funzione pedagogica e maieutica nella costruzione della consapevolezza della portata dei temi e nella loro gestione; è bene ricordare la qualità di personalità come Corrado Maltoni, Luigi Mara, Giulio Maccacaro e, più vicino a noi, la carismatica presenza di Bruno Pesce, sindacalista casalese, vera anima storica della lotta contro l’amianto e contro l’Eternit.
Complimenti per l’excursus storico. Solo una domanda…. a fronte di centinaia di migliaia di giovani soprattutto (e anche meno giovani) fortemente coinvolti politicamente e socialmente, partendo dalle attività di ognuno… si è però rimasti con il cerino on mano o, se vuoi, con un pugno di mosche. Milioni di ore di sciopero a ripetizione in quegli anni forse sarebbero stati più utili se diversamente orientati. Mario Draghi lo scrisse allora (1979) Sul Corriere “Grandi energie Mal spese. Il mondo, purtroppo, è una altra cosa.”. Chi non se ne accorse?