1.
Il 30 aprile 1944 la guerra distruggeva il “vecchio” Municipale, storico teatro a palchi collocato all’interno del Municipio, di cui tuttora si legge l’insegna sulle vetrine del Caffè del Teatro e si intuisce il foyer sulla sinistra dell’androne di accesso agli uffici comunali. Prima, era stato vandalicamente devastato il Teatro del Popolo, in piazza Vittorio Veneto, soggetto interessante che arrivò ad ospitare un memorabile concerto di Arturo Toscanini. Continuava così la travagliata storia degli edifici teatrali alessandrini, inaugurata a inizi Settecento dal teatro dei Guasco e proseguita con una serie di contenitori di proprietà privata (alcuni incendiati), costruiti nella zona dei giardini pubblici adiacente a via Savona. Questo può essere definito il sito storico e caratterizzante dei teatri alessandrini, perché vi era stato eretto anche l’ultimo sopravvissuto: il teatro Virginia Marini, dignitosa palazzina liberty che ospitava spettacoli di vario genere: prosa, con grandi attori e persino con la presenza di Luigi Pirandello nelle vesti di regista (puntualmente ignorato dall’apatia mandrogna); varietà e operetta (mitica fu l’apparizione della “scandalosa” Joséphine Baker); concertistica classica e la molto amata lirica; e (attenzione!) anche il cinema. Il Marini alimentò la vocazione cinematografica di Alessandria, anticipandone la connotazione più originale: la Città volle pervicacemente consacrare un matrimonio fra Palcoscenico e Schermo, e ci riuscì con il nuovo municipale, a buon diritto definibile come “cinema-teatro”.
Ma la grande antologia dei primordi teatrali alessandrini non può certo essere ridotta alle poche notizie precedenti. Non è questa la sede. Per gli interessati, fra le numerose pubblicazioni, gli articoli e i diversi interventi che si sono succeduti negli anni, vale la pena di richiamare l’attenzione sui documentatissimi e appassionati scritti di Lucio Bassi. Inoltre, per riepilogare approfonditamente il passato e per introdurci con dovizia di dati alle vicende del nuovo teatro dall’inaugurazione del 1978 alla stagione 2004-2005, è fondamentale il volume che Anna Tripodi volle e produsse come Direttore Generale di ASPAL SpA (e quindi anche del Teatro Municipale, della cui storia fu tra i protagonisti).
2.
Nel dopoguerra, mentre per leggi sulla sicurezza si escludeva la possibilità di ricostruire il teatro all’interno del Municipio, una parte di opinione pubblica premeva perché la ricostruzione si facesse sul sedime del “povero” Marini, che ancora funzionava ma di cui nessuno teneva alta la bandiera. Quindi la scelta si orientava su un nuovo edificio autonomo posizionato nello “storico” sito dei giardini pubblici. Il Sindaco Basile sbarrò la strada dimostrando l’insostenibilità economica dell’idea. Bisognò attendere il 1958 per bandire un concorso nazionale per il progetto di un teatro capace di accogliere fino a 1.800 persone, un numero che derivava dal sogno di grande lirica che non pochi cittadini coltivavano. Ci furono due vincitori, poi un altro periodo di silenzio amministrativo. Nel 1964 il Sindaco Amaele Abbiati incaricò l’Ufficio Tecnico comunale di rielaborare uno dei due progetti, giudicando eccessive le dimensioni precedentemente immaginate e quindi raccomandando di scendere ad una capienza di 1.200 posti. Nel ’65, inaspettatamente, il noto architetto Ignazio Gardella intervenne a difesa della conservazione del Marini sostenendo la fattibilità di una ristrutturazione di platea e galleria che avrebbe consentito di raggiungere i 1.200 posti richiesti. Nonostante l’autorevolezza del proponente, la proposta fu scartata perché non avrebbe consentito la realizzazione di servizi e funzioni collaterali di cui si riteneva che il nuovo teatro dovesse essere dotato: innanzitutto un centro culturale e una seconda sala (interrata) di circa 300 posti. Così fu deciso. La realizzazione tecnica fu affidata all’architetto Canegallo del Comune e, fra i consulenti si incaricò, in merito all’acustica, l’ingegner Sacerdote del Politecnico di Torino; il quale, nella propria relazione, disegnò un profilo della nascente creatura incolpevolmente “sbagliato”: il nuovo Municipale doveva essere considerato “essenzialmente come un tradizionale teatro d’opera”, tuttavia utilizzabile anche come “sala di concerti od auditorium, sala cinematografica ed in via eccezionale teatro di prosa”. Con freddezza tecnica l’ingegnere annunciava così il destino polifunzionale della costruenda sala, ben sapendo che tale varietà sarebbe stata, sul piano acustico, un bel problema (e -aggiungiamo noi- per i futuri gestori un rebus organizzativo). Agli esperti fu chiaro che Alessandria si era comunque fatta il più grande e più attrezzato palcoscenico del Piemonte dopo quello del Regio di Torino, il cui boccascena poteva essere chiuso da un imponente schermo cinematografico calante dall’alto.
Dunque: nel dicembre 1967 il Comune approvava l’edificazione di un cinema-teatro veramente ambizioso. Il Comune, infatti, confermando una tendenza già apparsa nel passato, aveva voluto creare un unicum nel panorama nazionale, dando caratteristiche di servizio pubblico ad una continuativa attività cinematografica di prima visione, come tale di natura commerciale. Ciò avveniva fra le mura di una città caratterizzata da ben quattro sale gestite da altrettante famiglie imprenditoriali di lungo corso. Intendiamoci: la “decima musa” aveva conquistato il cuore degli alessandrini, la cinefilia era coltivata ad alto livello, rappresentata da Adelio Ferrero, critico cinematografico di prestigio nazionale, e sviluppata da un forte gruppo di intellettuali e di appassionati veri. Su questa base gli amministratori maturarono la convinzione che il nuovo contenitore avrebbe portato incassi tali da coprire gran parte dei costi generali. Era un fine illusorio perché la sala presentava alcuni difetti strutturali per la proiezione di film, e soprattutto perché la concorrenza privata era incontrastabile, mentre all’orizzonte si affacciava un’invasione di strumenti tecnologici che avrebbero rivoluzionato i modi della fruizione da parte del pubblico, portando il centenario modello dell’esercizio cinematografico ad un inesorabile declino. Naturalmente il cinema come arte non scomparve, anzi. Alessandria non tradì la sua eccellenza in merito; creò il Premio per giovani critici intitolato ad Adelio Ferrero e “Ring!”, un festival della critica cinematografica che portò per anni in città non solo i maggiori studiosi di cinema, ma anche registi come Moretti e Bellocchio, personalità come Alessandro Baricco e Alberto Barbera. A garantire il risultato c’erano due alessandrini: Nuccio Lodato, allievo di Ferrero davvero degno del maestro, e Anna Tripodi, eccellente direttrice del Teatro. Dietro le quinte c’era la grande capacità organizzativa della AZIENDA TEATRALE ALESSANDRINA.
E qui siamo ad un’altra peculiarità assoluta, ad un altro unicum, che il Nuovo Municipale stava per indossare. Per anni si assistette ad un vivace confronto fra intellettuali e politici su quale tipo di gestione adottare. I primi, anche attraverso autorevoli associazioni come il Circolo De Santis, “picchiavano” sul fatto che bisognasse comunque garantire, per la nuova istituzione culturale, una netta autonomia dalla politica, una indipendenza statutaria. Andavano di moda le “municipalizzate”, con cui si cercava una privatizzazione nella gestione di determinati servizi pubblici che consentisse una maggiore “agilità” economica e organizzativa; il governo della Città, guidato dal Sindaco Felice Borgoglio, decise di rispondere alle istanze politico-culturali con una scelta politico-amministrativa di forte innovazione, quasi provocatoria. Il Comune stabilì l’esternalizzazione delle attività del nuovo Teatro e costituì l’A.T.A, Azienda Teatrale Alessandrina; ne divenne Presidente Delmo Maestri (per la prematura scomparsa di Ferrero) e membri del Consiglio d’Amministrazione: Ugo Zandrino, Lucio Bassi, Franco Ferrari, Nuccio Lodato. Maestri chiamò alla direzione Giorgio Guazzotti, da poco divenuto direttore organizzativo del Teatro Stabile di Torino. Il 25 settembre 1978 il sipario del Municipale finalmente si alzò su uno spettacolo della celebre Compagnia della Rocca, perciò all’insegna della prosa, mentre il CdA si convinceva che la lirica sarebbe stata troppo costosa per una “azienda” che doveva badare al pareggio di bilancio (alla faccia delle profezie di Sacerdote). Gli alessandrini reagirono alla loro maniera: architettonicamente il nuovo arrivato era già definito un “bunker”; chi si aspettava un debutto con un bel melodramma rimase deluso; uno spettacolo di prosa fu il genere più adatto a far nascere subito il tormentone (mai risolto) della cattiva acustica. Guazzotti, con la sua autorevolezza a livello nazionale, riuscì a portare il 14 ottobre Carla Fracci direttamente dalla Scala: pubblico in delirio, per la Città quella fu la vera inaugurazione del nuovo Municipale.
Da quel momento il Teatro cominciò a fare il suo mestiere. “Riempire” le numerose poltrone non era impresa facile; ben presto si capì che il modo principale per chiamare un pubblico di numero pari a quello delle poltrone, stava nel “comprare” attori famosi e titoli “sicuri”, e nell’individuare iniziative varie quasi certamente gradite. Collocare qualche centinaio di spettatori (risultato non trascurabile in una città di provincia) in quella platea, magari lasciando vuota la galleria, provocava una depressione lancinante negli organizzatori e una brutta impressione nei presenti. Insomma: le dimensioni e la struttura fisica di un teatro ne influenzano la programmazione.
Negli anni, ovviamente non trascurando l’incidenza culturale dell’azione complessiva dell’A.T.A nei confronti della Città, si cercò di rimediare ad un pesante problema di mercato. Da secoli il mestiere del teatro si basava (e ancora oggi) sulla “tournée”, cioè sul portare “in giro” ogni spettacolo per sfruttarlo al meglio; più giorni si stava in una “piazza” (una città) più si favoriva l’economia del proprio prodotto. Una città di nebbiosa provincia di per sé non offriva una grande domanda; se si aggiungeva un teatro così grosso che per esaurirlo bisognava fare miracoli, si otteneva che la quasi totalità dei titoli, anche i più fortunati, non potessero andare aldilà di un’unica recita; con ciò ponendo un ulteriore problema di rapporto organizzativo con il pubblico. Nonostante ciò, gli spettatori delle stagioni principale arrivarono ad una media di mille, portando quello di Alessandria ad essere uno dei più apprezzati teatri comunali italiani, per il suo livello artistico e anche per la sua forma gestionale. Impossibile riportare l’elenco delle compagini e degli interpreti che si alternarono sulla ribalta, ma si può cogliere l’occasione per dare un’idea dell’alto livello raggiunto dai cartelloni dell’A,T.A.
Fra il 1978 e il 2004; sul nostro palcoscenico si alternarono: i maggiori teatri stabili italiani di prosa; l’orchestra sinfonica della RAI; il Teatro Regio di Torino; solisti come Severino Gazzelloni, Nikita Magaloff, il Trio di Trieste, Uto Ughi, Alexander Lonquich, Nicanor Zabaleta, Andrea Lucchesini, Salvatore Accardo, Ivo Pogorelich, Katia Ricciarelli; attori di primo piano come Gigi Proietti, Dario Fo, Franca Rame, Alberto Lionello, Tino Buazzelli, Enrico Maria Salerno, Anna Proclemer, Glauco Mauri, Giorgio Albertazzi, Valeria Moriconi, Paolo Stoppa, Gastone Moschin, Maddalena Crippa, Beppe Barra, Giancarlo Sbragia, Michele Placido, Anna Maria Guarneri, Vittorio Gassman, Rossella Falk, Umberto Orsini, Gabriele Lavia, Eros Pagni, Tino Carraro, Pupella Maggio, Giulio Bosetti, Mariangela Melato, Ottavia Piccolo, Turi Ferro, Monica Guerritore, Ugo Tognazzi, Pino Micol, Luca Barbareschi, Carla Gravina, Paolo Bonacelli, Paolo Poli, Sergio Castellitto, Lella Costa, Nino Manfredi, Antonio Albanese, Sergio Fantoni, Franco Branciaroli, Massimo Dapporto, Paolo Rossi, Tullio Solenghi, Gianrico Tedeschi, Mario Scaccia, Giulia Lazzarini, Mariano Rigillo, Ale e Franz, Zuzzurro e Gaspare, Giobbe Covatta, Ficarra e Picone, Nando Gazzolo, Moni Ovadia, Giuliana De Sio, Paolo Ferrari, Neri Marcorè, Silvio Orlando, Franca Nuti, Gian Carlo Dettori, Loretta Goggi, Marco Paolini; artisti come Roberto Bolle, Victoria Chaplin e Jean Baptiste Thierré, Marcel Marceau, Leopoldo Mastelloni, Lyndsay Kemp, Arturo Brachetti, Amedeo Amodio, Jorge Donn, Mummenschanz, Momix, Maguy Marin, Pilobolus, Liliana Cosi, David Parsons, Les Ballets Trockadero; e ancora: Lucio Dalla, Gianni Morandi, Johny Dorelli, Massimo Ranieri, Gino Paoli, Fabrizio De André, Giorgio Gaber, Paolo Conte, Avion Travel.
Formidabili quegli anni! Si può dire che tutto lo spettacolo dal vivo presente in Italia conobbe (in senso biblico, naturalmente) il Teatro Comunale di Alessandria.
3.
Nei cartelloni dell’A.T. A era scarna la presenza della lirica, per decenni detentrice del primato fra i gusti dei cittadini, ma l’azienda si inventò un sostituto molto interessante. In verità non era un inedito. Nel 1937 Mario Degiorgis, gestore e poi direttore del vecchio Municipale, organizzò, con il sostegno anche finanziario del “Minculpop”, il Primo Teatro Nazionale di avviamento lirico, che andò avanti con successo fino al bombardamento del ’44, sfornando cantanti che divennero famosi. Questo modello fu reinventato, e ne venne fuori un gioiello fra le iniziative di livello nazionale del nostro Teatro.
L’Azienda Teatrale Alessandrina celebrò il decennale di attività (’78 / ’88) presentando in prima mondiale il balletto Time Out, musica di Ludovico Einaudi (un giovane compositore destinato a una grande fama), interpretazione del gruppo statunitense ISO sotto la guida del mitico Daniel Ezralow. Era l’ottobre 1988; a settembre avevano debuttato sullo stesso palco, in prima nazionale, le opere Jakob Lenz e The Martyrdom of St. Magnus. Tutti e tre gli spettacoli erano stati interamente organizzati e allestiti dall’A.T.A. Fu uno dei momenti professionalmente più maturi raggiunti dalla “macchina” del Comunale. L’azienda ottenne un tale risultato tecnico-teatrale, aldilà di quello artistico, perché aveva ulteriormente valorizzato le sue risorse umane e le sue strutture attraverso la sua creatura più ambiziosa: il LABORATORIO LIRICO DI ALESSANDRIA.
Questa iniziativa durò tredici edizioni, dal 1980 al 1992. Ebbe una risonanza nazionale indiscutibile e ancora oggi gli addetti ai lavori la citano positivamente. La storia dei suoi contenuti non è lineare, l’identità del Laboratorio subì alcuni progressivi cambiamenti. L’idea fondante era nata dall’organizzatore musicale Duilio Camurati. La sua proposta era incentrata su un concorso nazionale per giovani cantanti, strumentisti, maestri collaboratori e assistenti alla regia. Con i vincitori di ciascuna edizione si allestirono – sotto la sapiente direzione artistica del Maestro Edoardo Müller – spettacoli che offrivano ai giovani un’opportunità non consueta nel panorama delle istituzioni musicali italiane. La prima fase del Laboratorio fu all’insegna della formazione, quella formazione particolarmente efficace che si compie nel fare, come un vero apprendistato in bottega. Fu naturale che la formazione direttamente in palcoscenico, concretamente legata alla produzione di spettacoli, facesse da supporto a un’altra finalità dichiarata: portare la lirica in provincia a un livello qualitativo alto e insieme a costi inferiori rispetto a quelli che avrebbe comportato un acquisto di recite sul mercato operistico nazionale. Una finalità per raggiungere la quale aggiungemmo un tassello fondamentale.
I giovani interessati alle professioni del teatro divennero una vera linea di lavoro ulteriore dell’Azienda Teatrale Alessandrina. Convincemmo la Regione Piemonte a finanziare, collocandolo nel Comunale, un corso di formazione professionale per tecnici teatrali, interamente gestito dall’azienda. Fu un successo, anche se “dietro le quinte”, che aumentò la qualità e la stessa credibilità nazionale del Laboratorio. Il corso fu tenuto da Pino Rombolà, mitico direttore di scena del Teatro Stabile di Genova, il quale allevò un gruppo di giovani facendone dei tecnici di palcoscenico e dei costruttori, con cui realizzò scenograficamente e diresse tecnicamente tutte le opere del Laboratorio.
Non dimentichiamo che il Laboratorio poteva affrontare il melodramma anche perché l’azienda aveva contemporaneamente creato al proprio interno un coro dilettantistico che il Maestro Gian Marco Bosio portò a un ottimo livello qualitativo.
Nel 1982 (inizio della mia direzione) decidemmo che le opportunità che il Laboratorio offriva, potevano essere estese a compositori viventi e possibilmente giovani, certo non consacrati, interessati al teatro musicale colto. Ne nacquero due prime assolute, affidate a due ragazzi terribili che stavano “disturbando” la torre d’avorio dei compositori italiani: Mare nostro di Lorenzo Ferrero nel 1985, e Cirano di Marco Tutino. L’apertura alle novità ci condusse ad affrontare una componente “difficile” dell’allestimento operistico: la regia, che noi pensavamo non dovesse essere una semplice ancella della musica ma costituire un’ulteriore chiave interpretativa, non certo per violentare la partitura ma per reinventarla. Riuscimmo a portare ad Alessandria dei giovani registi, destinati a un futuro prestigioso: Giorgio Barberio Corsetti, Gabriele Vacis, Gabriele Salvatores.
Ci spingemmo a “teatralizzare” la città. Nel 1984 realizzammo una deliziosa Serva padrona di Pergolesi nel cortile di Palazzo Ghilini. Nel ‘91 (penultimo anno della storia del Laboratorio) il sindaco Giuseppe Mirabelli ci chiese, per primo, di spettacolizzare i cortili della Cittadella. Vi rappresentammo La finta giardiniera di Mozart. Credo sia stata un’esperienza memorabile, che ha ispirato negli anni successivi vari utilizzi del nostro straordinario contenitore monumentale.
Cirano era stato diretto da un giovane musicista tedesco, Will Humburg, il quale riuscì a risvegliare il nostro interesse verso una cultura musicale diversa. Forse ci lasciammo un po’ affascinare da una prospettiva di clamorosa sprovincializzazione della nostra iniziativa, che aveva ottenuto così rapidamente una risonanza nazionale. Eravamo comunque a un bivio. Si era esaurita la guida del Maestro Edoardo Müller, eccellente custode della tradizione; avevamo “osato” alternare Ferrero a Purcell e Tutino a Donizetti: dovevamo decidere cosa fare da grandi. Humburg ci propose una nuova evoluzione del Laboratorio dedicandolo alla drammaturgia musicale contemporanea, aprendolo a compositori stranieri mai apparsi in Italia, e privilegiando un genere che può essere definito “teatro musicale da camera” (durata breve, organici musicali piccoli, ecc).
Affidammo a Humburg la direzione artistica di questo Laboratorio di terza generazione. Con lui nel 1988 producemmo quella straordinaria terna di titoli che citavo in apertura, dove opere di autori come Peter Maxwell Davies e Wolfgang Rihm, celebrate da tempo a livello internazionale, facevano la loro prima apparizione in Italia grazie ad Alessandria; e dove il giovane compositore Ludovico Einaudi ci faceva sconfinare, con un’altra prima assoluta, in un genere musicale altrettanto affascinante: la danza. L’attenzione degli addetti ai lavori, già catturata da Ferrero e Tutino, aumentò.
In queste edizioni anche le nostre già citate capacità tecniche trovarono ampia espressione. Le ridotte dimensioni delle opere programmate ci spinsero a chiedere ai registi Marco Sciaccaluga, Gabriele Vacis e Flavio Ambrosini di cimentarsi con l’ennesimo gioco inventato dal Laboratorio: destrutturare espressivamente il Comunale. Collocammo il pubblico sul palco, usammo la buca dell’orchestra come scenografia, coprimmo la platea con una sterminata pedana praticabile: e la fredda platea si trasformò in una coprotagonista dello spettacolo.
Nonostante gi esiti incontestabili andammo in crisi. Si acuivano le contraddizioni fra risorse economiche e obiettivi artistici. La città era indifferente, anzi, considerava il Laboratorio un costoso giochino per intellettuali di sinistra. Inutile pensare di trovare uno sponsor locale. La Regione, il cui contributo sosteneva il peso economico, cominciò a preoccuparsi che il Laboratorio si risolvesse di fatto in una o due serate all’anno e nel relativo pugno di spettatori. In queste condizioni diventava impossibile non soltanto programmare pluriannualmente, come era professionalmente necessario, ma anche recepire progetti di una certa complessità che avrebbero consentito ulteriori salti di qualità. La citata edizione della Cittadella, del 1991, permise a Humburg di congedarsi con un Mozart poco frequentato e con uno splendido concerto sinfonico. Ma ormai sapevamo che le difficoltà erano superiori alle risorse. L’anno successivo (ultima edizione) introducemmo una ragione politico-culturale forte: realizzammo una coproduzione con il Teatro Regio di Torino, cioè riuscimmo ad abbinare il piccolo Laboratorio nientemeno che all’ente lirico regionale. Mettemmo in scena Alcassino e Nicoletta, quarta opera di compositore italiano presentata in prima assoluta dal Laboratorio, direzione d’orchestra Guido Guida, regia Mauro Avogadro. Fu un’operazione dotata di evidenti potenzialità. Tutte le prime di musica contemporanea, prodotte negli anni dal Laboratorio, erano state replicate a Torino grazie alla collaborazione del festival Settembre Musica; e allora perché non pensare a una quarta fase del Laboratorio incentrata sulla “piemontesità” degli enti coinvolti?
Ma gli scenari politici erano in pieno terremoto. Alessandria stava per esprimere uno dei primissimi governi locali della Lega Nord; non erano tempi per la cultura, figurarsi per la ricerca e la sperimentazione. Ma, intendiamoci, ne era valsa la pena; come testimonia la mostra di Maurizio Buscarino, il più grande fotografo italiano di teatro, che avevamo chiamato a documentare le opere del Laboratorio e le cui opere oggi (primavera 2025) sono in mostra nelle Sale d’Arte comunali.
4.
La maledizione dei teatri alessandrini non aveva ancora finito di perseguitarci. Dopo incendi, vandalismi, bombardamenti, nel 2012 il Comunale subisce una dispersione di polvere di amianto, tragicamente favorita dai condotti del riscaldamento e dalle canaline dei cavi elettrici. Gli organi competenti decretano una chiusura che sembra subito destinata ad essere irrimediabile. La combinazione di questa chiusura, della progressiva fine degli esercizi cinematografici e del disastro della pandemia portò ad una desertificazione dello Spettacolo in Alessandria. L’unico operatore sopravvissuto, Paolo Pasquale, grande imprenditore proprietario del Politeama Alessandrino, resiste coraggiosamente e diventa il salvatore della patria. “Politeama” è, in origine, il termine gergale per indicare una sala che potenzialmente ospita tutti i generi spettacolari; mitico il caso del Politeama Rossetti di Trieste, che in pieno periodo fascista presentò incontri di lotta libera (memorabile fu la partecipazione di Primo Carnera) e le battaglie navali con relativo allagamento dell’intera platea. I nostri pioneristici teatri privati collocati nei giardini pubblici inserivano nello stesso cartellone: lirica, prosa, balletto, varietà, nonché spettacoli equestri, acrobati, maghi, ipnotizzatori, etc. Nel cinema-teatro Alessandrino era stato inserito un dignitoso palcoscenico attrezzato, che il resiliente Pasquale ha aperto alla musica leggera, ai comici, al musical, alle conferenze-spettacolo, compreso un corso di recitazione tenuto dal suo partner: l’attore Massimo Bagliani; a ciò ha aggiunto, da qualche anno, l’ospitalità ad una stagione di prosa, sostenuta dal Comune, con compagnie nazionali e con ottimi prodotti dei gruppi locali. Il gradimento è rilevante, e dimostra che il pubblico della città ha di nuovo desiderio di spettacolo dal vivo.
Il Sindaco Abonante ha deciso, saggiamente, di sviluppare il lavoro intrapreso dal Sindaco Cuttica di Revigliasco per la ristrutturazione e la riapertura del Comunale. Il cantiere sta andando avanti. Ce la faremo.
Franco Ferrari
AL/29 gennaio 2025
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