Ma davvero Trump vuole andare alla guerra – commerciale – con mezzo mondo, anzi – in termini di prodotto lordo – quattro quinti? Un mio autorevole amico politico, diceva sempre: «stiamo attenti a non aprire troppi fronti». Il presidente Usa sta facendo il contrario. Ne apre almeno cinque ogni giorno. Di tutti i tipi. È vero che siede sulla sedia più potente del mondo, e che gli avversari interni sono – al momento – allo sbando. Ma quanto può reggere uno scontro di questa entità e ampiezza?
Per rispondere a questa domanda, ci sono due scuole di pensiero. La prima si concentra su Trump, su quello che può avere in testa, alla luce dell’esperienza passata. Anche per il suo background professionale, Trump viene considerato un pragmatico. Uno che può spararle grosse, ma per lo più per spaventare e alzare il prezzo. Al momento opportuno, però, si siede al tavolo e chiude l’accordo. Questa scuola parte dal presupposto che Trump – meglio di chiunque altro – sappia come l’economia funziona. E sa che se l’America oggi è l’economia più forte e solida del mondo lo deve anche alla rete di rapporti che le sue aziende – e le sue banche – intessono con ogni angolo del pianeta. Rompere questo equilibrio seminando panico e zizzania a botta di tariffe ad hoc, rischia di danneggiare innanzitutto chi è al centro e il dominus di questo equilibrio, gli Stati Uniti d’America.
Dunque, il Trump furioso – secondo questa linea interpretativa – cederà presto il campo a un Presidente contrattualista, interessato a favorire un numero limitato di settori – e di aziende – a lui più vicini, ma attento, al tempo stesso, a non scombussolare troppo il quadro – già di per se alquanto precario – degli scambi e delle supply chain globali. A questa linea aderisce una folta pattuglia di esperti e di diretti interessati, tra cui spiccano le aziende che avrebbero tutto da guadagnare da tariffe mirate soprattutto a colpire i propri competitor. Basta leggere il manifesto protezionista con cui Dario Amodei – proprietario di Anthropic – ha esortato Trump a sanzionare duramente le start-up cinesi di Intelligenza artificiale che stanno mettendo a repentaglio l’egemonia americana.
La seconda scuola di pensiero vede, invece, in Trump un apprendista stregone. Che pur pensando poi di ripiegare su posizioni meno bellicose, rischia di mettere in moto una valanga di reazioni che non sarà semplice fermare. Insieme allo sconcerto e – in molti casi – la paura per tariffe che potrebbero mandare a picco grandi gruppi aziendali, si sta diffondendo nell’establishment dei paesi interessati un senso di rabbia e ribellione. Che presto di trasferirà sui lavoratori – e i consumatori – che dovranno sopportare il peso delle scelte imposte dalla Casa Bianca. Nel giro di poche settimane, paesi fino a ieri vicini e comunque non ostili agli Usa rischiano di diventarne nemici. Non sul piano militare, dove gli antichi assetti dovrebbero reggere ancora. Ma sul piano del sentimento pubblico, che non è certo una componente da poco nel determinare i rapporti di forza geopolitici.
Se a ciò si aggiunge la campagna sfrenata che Elon Musk sta conducendo – con dovizia di mezzi finanziari e comunicativi – a favore dei partiti di destra estrema in tutta Europa, il quadro diventa ancora più fosco. Fino ad oggi, il terremoto della guerra ucraina aveva lasciato in piedi e compatto il blocco occidentale. Pur se fortemente danneggiati dalla piega delle sanzioni al gas russo e dai costi crescenti dell’appoggio alla resistenza ucraina, gli stati europei avevano seguito l’alleato americano nelle principali scelte militari. Cosa faranno se le tariffe di Trump dovessero scompaginare – a favore di questo o di quello – interi comparti produttivi? E come reagiranno all’invasione – virtuale ma molto efficace – della propaganda di Musk in violazione dei confini nazionali?
In questa crescente confusione, Cina e Russia restano alla finestra. Quale che sarà la piega economica che prenderà la vicenda, sul piano dell’immagine gli Usa stanno facendo loro un gran favore. E si sa come di questi tempi i simboli e i messaggi contino spesso più della sostanza.
di Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 3 febbraio 2025).
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