Discutere Craxi

Sono passati venticinque anni dalla scomparsa di Bettino Craxi, e il sistema mediatico non perde occasione per ravvivare la passione per gli anniversari. Dunque si trovano sui giornali una gran quantità di articoli di memoria e riflessione, varie pubblicazioni di diverso spessore e qualità. L’ex segretario del PSI è certamente personaggio storico dalla eredità controversa, che suscita ancora discussione su tesi opposte e a volte un ostracismo invincibile di chi ha visto nella sua figura la quintessenza della corruzione e la causa dei mali della prima Repubblica. Altri vedono in Craxi, e lo riabilitano deformando a volte i dati storici, l’avanguardia di una ‘modernizzazione’ della politica italiana e della sinistra che ancora oggi va riaffermata contro i dogmatismi del marxismo vecchio e nuovo e contro qualsiasi radicalismo sociale.

Tuttavia, è indubbio che dopo un quarto di secolo anche su Craxi si debba discutere, e discutere della sua linea politica, dei suoi successi e dei suoi fallimenti e della eredità dell’opera, senza anatemi e condanne morali, senza trasformare la sua esperienza in un mero dato criminale. La storia del PSI negli anni 76’ – 94’ non può essere ridotta ad unico fenomeno corruttivo, pur se certamente vi fu disinvoltura nell’uso dei finanziamenti, pur giustificata per ragioni di battaglia politica. Il PSI di quegli anni aveva un disegno politico complessivo da applicare alla realtà italiana, ed è sulla adeguatezza di quel disegno e sulla coerenza degli strumenti usati per attuarlo che si deve porre attenzione analitica.

Chi scrive, ed è bene porre ciò in premessa, non dà un giudizio positivo della stagione craxiana. Ma questo giudizio è negativo non per il fatto che egli, Craxi, sia stato un riformista convinto, e che abbia sempre lottato per affermare le ragioni del socialismo democratico, e che inoltre, abbia coltivato le relazioni internazionali dando sponda alle giuste rivendicazioni palestinesi, e aiutò le opposizioni sudamericane travolte dalle dittature militari, ( vedi il Cile di Pinochet). Semmai, l’errore maggiore della politica craxiana è stata quello di dare su un lato scacco non solo al PCI, isolandolo all’opposizione, ma anche alla forza dei movimenti sociali e sindacali, e sull’altro, perseguendo un accordo con la destra democristiana e con la parte più retriva di Confindustria, ponendo in contraddizione oggettivamente il Partito Socialista rispetto al proprio insediamento sociale e popolare. Sotto Craxi, a partire dagli anni ottanta, il PSI si pone come rappresentante di ceti medi a volte conservatori, e di un elettorato meridionale che viveva grazie alla alimentazione di meccanismi clientelari di diversa natura. La natura conservatrice del nuovo PSI di Craxi, sia a livello di elettorato che di gruppo dirigente, renderà praticamente impossibile il superamento degli steccati storici a sinistra, verso il PCI, nella fase nuova che si apriva dopo la caduta del Muro di Berlino. Tuttavia, Craxi, fu sempre, credo di poterlo dire con oggettività, un uomo della prima Repubblica, fedele al sistema dei partiti, pur se voleva riformare tale sistema, un socialista gradualista e democratico, convinto assertore di un primato del socialismo democratico sul comunismo e sul PCI. Infatti, il suo anticomunismo fu sopratutto un sentimento anti – PCI. Va detto, per onore dei fatti, che il Partito Comunista di Berlinguer non ebbe attenzione per il travaglio socialista dopo la sconfitta di questi nel giugno 76’. Il Compromesso Storico spingeva i comunisti a ritenere centrale la alleanza con i democristiani, riservando ai socialisti una sostanziale indifferenza. Non mi pare dubbio che l’azione di Craxi, che spinge il PSI ad accentuare gli elementi di anticomunismo e a rivedere il rapporto di questo con un alcuni strati sociali operai, determini il fatto che il partito vada progressivamente oltre la identità socialdemocratica, che resta, questa, al fondo ancorata ad un rapporto stretto col mondo sindacale. Cito a questo riguardo un saggio di Alberto Asor Rosa, pubblicato a metà anni novanta, ‘La sinistra alla prova’ editato da Einaudi.  Alle pagine 78 – 81 del volume su citato, Asor Rosa divide il ceto intellettuale che ruota attorno alla segreteria di Craxi in due gruppi ben distinti: il primo coinvolge personalità del calibro di un Giorgio Ruffolo, che si caratterizza per avere un progetto politico al fine di ‘riformare’ la società italiana, e il governo non è che un elemento utile ma non necessariamente indispensabile e comunque contingente, per realizzare il ‘disegno riformatore’. Il secondo gruppo, che vede fra le sue fila come elementi di spicco Giuliano Amato e Luciano Cafagna, contestano che il riformismo debba avere un progetto a cui il socialismo dovrà tendere per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e non solo dei lavoratori, dato il fatto che i processi sociali vanno non contrastati e incanalati dentro un ‘disegno ideale’; utopia che è sempre destinata a subire gli scacchi della realtà, ma semmai assecondati e accompagnati dalle pratiche di governo. Date queste premesse, il riformismo si riduce a pratica di governo, o per meglio dire, il riformismo è solo una pratica di governo che si limita a gestire la società così come essa si presenta, assecondandone gli andamenti, lasciando che le cose accadano senza avere nessuna ambizione di cambiarle. Come Asor Rosa afferma, è un riformismo che ironicamente non ha nulla da riformare, e, aggiunge, dati gli elementi essenziali della sua pratica, esso arriva a coincidere in pieno con la cultura politica dei moderati. Scrive Asor Rosa, ‘Il riformismo si trasforma perciò in un arte del governo delle cose, in una tecnica, da mettere eventualmente al servizio della politica, per “governare il cambiamento”, standoci dentro il più possibile. Aggiunge il nostro poche righe sotto, ‘ La cultura di Bobbio, Ruffolo, Arfè, Cohen, ha avuto un rapporto tangenziale e provvisorio e, in un certo senso, reciprocamente strumentale, con la linea politica di Craxi; la cultura di Amato ha avuto con essa un rapporto organico,’. E quella cultura moderata ha innervato quel fenomeno politico culturale che è stato il craxismo; craxismo che non so quanto coincida con il pensiero del leader Craxi, ma certamente ha permeato il suo PSI profondamente. Va aggiunto, che le due culture riformiste si diedero battaglia dentro al partito socialista, e la cultura progettuale, lombardiana se volete, fu nettamente sconfitta col congresso di Palermo della primavera del 1981. Credo sia questo dato sopra descritto che spiega il fatto di come il partito socialista, nei primi anni novanta, di fronte al cambiamento del PCI e alla crisi della DC, determinati dalla fine del sistema di Yalta e dai cambiamenti sociali, non accetti la proposta di Craxi di un nuovo dialogo a sinistra col nascituro PDS. Il PSI si spacca negli anni 90’ – 91’, malgrado Craxi ne sia ancora il segretario indiscusso e inamovibile, e di fronte al dilagare del clima antipolitico che gonfia le vele della retorica dei magistrati di ‘Tangentopoli’, i socialisti si dileguano e abbandonano alla spicciolata la nave che affonda. Alcuni si rifugeranno sul veliero berlusconiano, trovando lì un naturale approdo, segno che una buona parte del gruppo dirigente PSI aveva maturato profonda estraneità con i valori della sinistra. Altri, spesso i vecchi ‘lombardiani’, troveranno più naturale restare a sinistra, collocandosi nel campo dell’Ulivo e militando nei DS. Mi sembra allora logico dedurre che la fine del PSI, il suo frantumarsi organizzativo, il suo dividersi accanitamente sull’idea del riformismo fino a determinare una diaspora che porta gli uni a destra e gli altri a restare a sinistra, dimostri ampiamente quanto Bettino Craxi abbia profondamente inciso sulla cultura dei socialisti e gli abbia spinti, forse in maniera inconsapevole, oltre i limiti della propria identità storica, consumandone idealità e insediamento sociale e determinandone, in ultima istanza, la scomparsa dal panorama politico del paese.

Non si può che concludere che questa assenza di un socialismo organizzato lascia a sinistra un vuoto ancora oggi non colmato. E’ forse questa la eredità più problematica di Craxi con cui dobbiamo ancora fare i conti. Ovvero, non grava tanto un problema di moralità, sul nostro presente a sinistra quando si discute di Craxi, ma semmai pesa il fallimento della stagione del PSI degli anni ottanta. Ritornare allora su quegli anni, sulle vicende socialiste, può servire a recuperare una radice storica del socialismo italiano che tanto sarebbe utile al progressismo dei nostri giorni.

Alessandria 11-02-2025                                                              Filippo Orlando

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