Ida Dominijanni ricorda le motivazioni delle crisi attuali

 

Ida l’abbiamo conosciuta attraverso i molti articoli che ha scritto nella sua vita, l’abbiamo ammirata in alcune sue trasmissioni e per alcuni bei libri che ha scritto (specie sui diritti delle donne e sui diritti “in generale”). Ora si sofferma sulle motivazioni delle crisi che stiamo vivendo e lo fa in modo esemplare. Come è noto si laureò in Filosofia all’Università di Firenze nel 1977, è stata allieva di Cesare Luporini e Rosario Villari, coi quali discusse una tesi in Storia contemporanea. Negli anni della formazione universitaria si avvicinò al femminismo e ai movimenti di sinistra. Dal 1982 al 2012 è giornalista presso il quotidiano il manifesto, dapprima lavorando alla sezione culturale, e poi come notista politica ed editorialista, con la rubrica settimanale Politica o quasi. Negli anni ottanta conduce alcune trasmissioni radiofoniche su Radio 3 (Noi voi loro donnaOra DAntologia di RadiotrePrima paginaFaccia a faccia). All’inizio degli anni novanta collabora con le cattedre di filosofia politica e Filosofia del linguaggio delle Università di Verona e di Siena e con Mario Tronti, nell’ambito del Centro per la Riforma dello Stato. Tra il 2001 e il 2008 è docente a contratto di filosofia sociale presso l’Università Roma Tre. Nel 2016 firma l’appello de Il Fatto Quotidiano a sostegno delle ragioni per il “No” per il referendum costituzionale sulla riforma Renzi-Boschi. Un pedigree d’eccezione per una persona che può dare ancora molto alla società. 

Infatti, non sottraendosi a quella che è diventata la cartina al tornasole di tutte le contraddizioni del mondo, tratta da par suo la “questione ucraina”. Ne mette in luce il pericoloso sviluppo che ha via via intaccato equilibri storici cinquantennali, ha rivoluzionato alleanze economiche e politiche, ha fatto emergere il peggio (raramente il meglio) di tutti quanti gli attori coinvolti in quella spaventosa carneficina. Perchè, semplicemente, quel “pericoloso sviluppo” non si sarebbe dovuto manifestare, dovendosi chiudere fin dall’inizio dei contrasti di fine Secolo XX, con accordi locali con tanto di beneplacito internazionale. Ciò che è successo per la Cecoslovacchia con la divisione consensuale di due Stati ex regioni di una unica entità, non si è avuto in Ucraina. Anche se le tendenze autonomistiche, per motivi diversi, delle due parti non trovarono soluzioni prima del 2014 e tanto meno lo hanno cercato/realizzato dopo. Ed ora ci troviamo con una polveriera con un governo emergenziale che si è autoriprodotto con un diktat, con centinaia di migliaia di morti di fatto inutili, se si ritornerà alle forti autonomie richieste fin dall’inizio. Soprattutto con una economia europea e mondiale completamente cambiata, con il gas russo che va verso oriente invece che in Europa (percorso favorito soprattutto dai politici tedeschi del trentennio post caduta del muro) e con elementi minerali transuranici che stanno diventando, ancor più di petrolio, carbone e gas, i veri motivi di guerre prossime venture. In un suo passaggio la Dominijanni fa presente che stiamo ragionando con la testa politico di metà Novecento, con le sue priorità e i suoi preconcetti, senza capire che il mondo è cambiato, è davvero unico e interconnesso in cui, di fatto, una guerra tradizionale con atomiche e tutto il resto è impensabile, visti gli interessi ramificati in campo. Ida prova a darci qualche spiegazione. Proviamo a seguirla e vediamo se il suo approccio può essere quello giusto. 

(*) “Com’era largamente prevedibile, Donald Trump ha preso in mano il dossier della guerra d’Ucraina per gestirlo a modo suo, cioè con pugno autocratico e imperiale, rivolgendosi unicamente all’altro autocrate imperiale della situazione, Vladimir Putin, e schiacciando sotto il tacco l’Ucraina, cioè la vittima dell’aggressione russa fin qui “protetta” – o usata – dagli Stati uniti ma oggi chiamata a saldare i debiti col protettore firmando un contratto capestro e destituendo il suo presidente Volodymyr Zelensky, per tre anni esibito dal protettore e dai suoi alleati nei summit internazionali e nei festival del cinema come il simbolo immacolato della democrazia sotto attacco ma oggi scaricato da Trump come “comico mediocre” e “dittatore non eletto” colpevole di aver voluto lui la guerra. E con l’Ucraina e Zelensky finisce nel cestino della storia l’Europa, fin qui partner fedelissimo degli Stati Uniti nella difesa del paese aggredito e nella crociata della democrazia contro l’autocrazia. Ci fosse in giro un briciolo, solo un briciolo, di onestà intellettuale, il fronte atlantista di centrodestra e di centrosinistra che ha deciso e gestito per tre anni, negli USA e in Europa, la risposta occidentale all’aggressione russa dovrebbe quanto meno ammettere una sonora e triplice sconfitta: sul piano ideologico, sul piano geopolitico globale, sul piano dei rapporti fra le due sponde dell’Atlantico.

Sul piano ideologico, perché a Trump, campione in casa propria della demolizione della democrazia liberale, di fare la guerra in nome della democrazia importa meno di zero: per lui le guerre si fanno e si chiudono sulla base di convenienze e contrattazioni economiche, non di crociate ideali o morali. Sul piano geopolitico globale, perché se è vero che la mossa di Putin del 2022 non mirava tanto o soltanto alla conquista dell’Ucraina quanto alla riconquista di un ruolo nella ridefinizione dell’ordine mondiale, Trump – diversamente da Biden e dai suoi alleati europei, arroccati a difesa dell’assetto unipolare nato dalla fine della Guerra fredda – accetta la sfida di Putin, ritenendo di avere lui stesso qualcosa da guadagnarci, che si tratti dell’accesso alle terre rare in Ucraina o in Groenlandia, di una riesumazione delle sfere d’influenza o di un rilancio del primato americano sulla base neo-tecnologica fornita dalla Silicon Valley. Sul piano delle relazioni transatlantiche, perché il sodalizio fra USA ed Europa, apparentemente rafforzato sotto la presidenza di Biden ma in realtà programmaticamente indebolito dalla conduzione americana della guerra d’Ucraina, è stato fatto a pezzi in quattro e quattr’otto da Trump e dal suo vice, come un ferro vecchio novecentesco ormai desueto e inutilizzabile nello scenario del terzo millennio.

Detto in altri termini, e sempre giocando con il numero tre. Delle tre guerre che fin dall’inizio si sono combattute sul suolo ucraino, la prima, quella territoriale fra Russia e Ucraina, ha tuttora un esito incerto, appeso al negoziato appena aperto, ma di certo vede – per tacere delle vittime che gridano vendetta da ambo le parti – una Ucraina sconfitta militarmente e devastata sul piano economico e demografico, con Zelensky destinato a essere sacrificato, e una Russia contenuta nelle sue mire espansioniste ma con Putin saldamente in sella, a onta delle scommesse occidentali della prima ora sul crollo del suo regime. La seconda, ovvero la guerra per procura fra la Russia e gli Stati Uniti che nel disegno americano puntava all’implosione della Russia e all’indebolimento dell’Europa (e segnatamente della Germania), approda con una sorprendente giravolta all’intesa fra Putin e Trump. ma lascia sul campo un’Europa sconfitta, isolata e indebolita, con costi economici enormi da smaltire, un sistema di sicurezza da reinventare, un baricentro spostato verso Est e – soprattutto – un asse politico spostato nettamente a destra. La terza, ovvero la guerra per la ridefinizione dell’ordine mondiale, vede un successo quantomeno momentaneo della Russia, che riconquista un posto nel club dei grandi e torna a essere riconosciuta dagli Stati Uniti come interlocutore, almeno fino a quando questo inedito sodalizio farà comodo a Trump per scongiurare quello fra la Russia e la Cina e a Putin per demolire quello fra gli Stati Uniti e l’Europa.

Nell’incertezza dei tempi che si aprono ci sono dunque due dati incontrovertibili con cui fare i conti. Il primo è la marginalizzazione geopolitica e la crisi economica e politica dell’Europa. Il secondo è la patente sconfitta del paradigma della guerra condotta in nome della democrazia contro l’autocrazia, che si risolve nella vittoria sulla democrazia non di uno ma di due autocrati, uno, Putin, esterno al fronte democratico occidentale, l’altro, Trump, partorito dal suo interno. Sono due dati strettamente connessi, eppure sono in pochi quelli che sembrano in grado di metterli insieme e di trarne qualche conseguenza autocritica.

Più facile è oggi, per il fronte democratico-progressista europeo sotto schiaffo, denunciare l’accelerazione verso il peggio innescata dall’avvento della presidenza Trump e lamentare l’ingerenza indebita di J. D. Vance nella politica europea. Ma Trump, Vance e Musk non sono tre alieni piovuti dal cielo: sono il frutto perverso ma non inspiegabile di una deriva di crisi inesorabile che ha eroso in profondità i fondamentali della democrazia statunitense, non per caso nello stesso arco di tempo in cui essa, troppo sicura del proprio primato, si è armata e ha chiamato i propri alleati ad armarsi contro tutti i regimi politici e le forme di vita non conformi al modello occidentale.

Né l’accelerazione trumpiana può far dimenticare che è stato l’allineamento supino agli USA di Biden a condannare la UE al suicidio politico: con l’adesione incondizionata alla narrativa americana della guerra d’Ucraina in stridente contrasto con gli interessi europei; con l’identificazione incondizionata con Kiev assunta a paradigma della democrazia; con la condivisione di un paradigma semplificato di interpretazione del mondo – democrazia vs autocrazia – dimentico della complessità del Novecento europeo; con la sostituzione del linguaggio della politica con quello delle armi. E di conseguenza, con la rinuncia a quel ruolo di mediazione politica del conflitto che oggi i leader europei reclamano fuori tempo massimo elemosinando un posto al tavolo delle trattative di pace. Il tutto – a proposito di democrazia – mentre qualunque voce critica veniva messa al bando, e la bandiera della contrarietà alla guerra veniva regalata a formazioni di estrema destra come la Lega in Italia e AfD in Germania.

Di fronte a questa debacle, che a sua volta porta al pettine molti nodi irrisolti della costruzione europea, e di fronte al radicale cambio di paradigma delle relazioni internazionali innescato dal ciclone-Trump, è disperante la povertà della reazione della classe dirigente europea in preda al panico per la perdita della garanzia dell’ombrello militare americano. Una reazione tutta incentrata al peggio sull’ossessione per la sicurezza e sull’urgenza del riarmo, come nel vertice parigino improvvisato da Macron, al meglio su un improbabile recupero di competitività e sull’invocazione di un ancor più improbabile stato unitario europeo, come nell’ultimo discorso di Mario Draghi.

Ma prima o poi bisognerà pur ricominciare a parlare di politica, su questa e sull’altra sponda dell’Atlantico. Nel cambio di paradigma azionato da Trump non c’è solo la svolta di 180 gradi rispetto al sistema di alleanze novecentesco degli Stati Uniti. C’è anche l’archiviazione dell’agenda neocon che ha dominato la politica estera statunitense dal 2001 in poi, con la sua giaculatoria dello scontro di civiltà fra la democrazia occidentale e, a turno, il terrorismo internazionale, i fondamentalismi, le dittature, le autocrazie. Un’agenda dalla quale le presidenze democratiche non sono riuscite a emanciparsi, e che ha fornito il quadro di riferimento per l’intervento degli Stati Uniti sulla scena ucraina fin dai fatti del 2014. Inquieta che questa agenda venga archiviata da Trump e non da sinistra come sarebbe stato auspicabile, ma si può sperare che la sua archiviazione liberi qualche energia sia nella sinistra minoritaria statunitense che non l’ha mai condivisa. sia fra i Dem che l’hanno dissennatamente fatta propria.

Quanto all’Europa, la debacle del fronte bellicista e l’avvento del nuovo asse autocratico romperanno inevitabilmente l’unità soffocante del mainstream politico e mediatico che ha tenuto banco negli ultimi tre anni, e porterà inevitabilmente allo scoperto i conflitti fin qui oscurati dallo zelo per la guerra. Due su tutti: quello fra le nuove destre radicali e il campo che dovrebbe contrastarle, un conflitto che comincia già a dividere chi salta e chi non salta sul carro di Trump. E quello, ben più radicato nella storia di lungo periodo, fra Europa occidentale ed Europa centro-orientale, una faglia che la guerra d’Ucraina ha ricomposto solo in superficie ma che dalla guerra esce in realtà approfondita, e che sottostà allo spostamento a destra degli equilibri politici dell’intera Unione. Chi ha davvero a cuore le sorti della democrazia europea non può che scommettere sulla agibilità pacifica e sulla potenziale generatività di queste contraddizioni, scongiurando la possibilità che soprattutto la faglia Est-Ovest inneschi una nuova deriva di guerra, questa volta fra europei secondo il codice genetico del Vecchio continente. Sul campo sacrificale dell’Ucraina restano pur sempre troppi soldi e troppe armi fuori controllo.”

(*) https://centroriformastato.it/leuropa-disfatta/

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