Mobbing e burnout: quando il lavoro avvelena l’anima

(1) Si presenta in modo subdolo muovendosi tramite azioni melliflue e vili, corrodendo le vite di chi si imbatte nella sua presenza. Prende il nome di “mobbing”. Lo psicologo svedese Leymann lo definì come” una comunicazione ostile, non etica, diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo individuo”.  La regista Francesca Comencini, nel 2004, realizzò una pellicola sul tema con protagonista Nicoletta Braschi nei panni di una segretaria in gamba presa di mira da superiori e colleghi, umiliata e sottoposta ad un lento e logorante processo di svalutazione personale che la renderà inevitabilmente annientata non solo nell’animo, ma anche nel fisico.
Si calcola che in Italia siano almeno 1.500.000 le vittime di tale pratica tristemente diffusa. In taluni casi, il soggetto leso può arrivare a compiere azioni estreme culminanti addirittura nel suicidio. Il termine “mobbing”, coniato dall’etologo Konrad Lorenz nel 1966, si riferisce al particolare comportamento di alcune specie animali che circondano un proprio simile assalendolo in gruppo col fine ultimo di allontanarlo da esso. Svolgere il proprio lavoro nel rispetto della dignità personale dovrebbe essere uno dei diritti basici dell’uomo, preservando tale aspetto, le aziende beneficerebbero di innumerevoli vantaggi quali una produttività migliore, riduzione dei conflitti, proficua gestione degli imprevisti. Osservando i numeri delle statistiche, si deduce come tale atteggiamento assuma i contorni sbiaditi di una chimera in quanto, gli ambienti lavorativi in cui vi è un clima di empatia e collaborazione risultano in netta minoranza rispetto a quelli con evidenti problematiche interne.
Non è facile analizzare il proliferare di tale fenomeno, spesso confuso con altri o relegato a definizioni che mal né attestano la reale pericolosità, sminuendone anzi gli effetti, e riducendolo ad una consuetudine diffusa da accettare con passività. Molteplici sono le testimonianze di lavoratori che, dopo essere stati oggetti di pesanti vessazioni anche per anni, si sono autoconvinti di come tali abusi fossero parte integrante del processo formativo, catalogandoli come mera “gavetta”, e andando così a giustificarli anche a scapito di colleghi in cerca di solidarietà davanti a eclatanti ingiustizie. La cronaca offre sistematicamente storie di persone che narrano con dovizia di dettagli il loro drammatico vissuto all’interno di aziende pubbliche o private sottolineando come, oltre allo stress lavorativo, dovessero tollerare anche episodi sistemici di violenza psicologica volti a denigrare il loro operato col fine di screditarli e far dubitare loro delle proprie reali capacità.
La hustle culture che appare radicata in taluni soggetti, non aiuta nella diffusione di un approccio al lavoro sano ed equilibrato secondo cui, svolgere il proprio dovere con impegno e dedizione non deve trasformarsi in una strenua lotta in cui ci si svuota di ogni energia per raggiungere obiettivi impossibili, né in una competizione con gli altri ove anche danneggiarli diventa parte di un meccanismo insidioso, in cui ogni azione appare lecita se mette in buona luce chi la compie davanti ai “capi”. Come diceva Rousseau” è troppo difficile pensare nobilmente quando si pensa a guadagnarsi da vivere”, citazione che spiegherebbe, almeno in parte, perché molteplici persone si assoggettino a tali dinamiche deleterie senza battere ciglio o protestando debolmente.
Affermare che solo chi svolge professioni altamente manuali e fisicamente usuranti sia maggiormente esposto a situazioni di malessere legate al lavoro sarebbe fallace in quanto, esistono anche altre condizioni altamente svantaggiose per l’individuo. Impossibile non nominare il burnout, uno stress eccessivo e prolungato causato da sovraccarichi, cambi di responsabilità, squilibri tra vita personale e professionale, mancanza di gratificazioni. Tra le professioni più a rischio di tale minaccia si segnalano quelle legate all’aiuto. Medici, infermieri e educatori costituiscono una buona fetta di lavoratori potenzialmente coinvolti in tali processi a causa del diretto contatto con la sofferenza umana oltre che all’indubbio carico emotivo che tale mansione comporta.

In un panorama di questo tipo non viene difficile comprendere come, per alcuni, rientrare in ufficio dopo il fine settimana rappresenti una fonte di subbuglio emotivo che va oltre al semplice cliché associato al lunedì, temuto giorno della settimana che conclude il sospirato relax per riportare il lavoratore con i piedi per terra ed il morale a pezzi. Da una civiltà che pretende di essere considerata moderna e progressista ci si aspetta maggiore attenzione ai bisogni dei singoli individui, se non altro perché continuare ad ignorarli conduce a conseguenze dannose anche per chi li circonda. Determinati infortuni potrebbero essere evitati prestando maggiore attenzione al funzionamento dei macchinari, alle condizioni in cui operano gli addetti ai lavori e alla serenità di questi ultimi, condizione indispensabile per far si che dubbi, stanchezza o malesseri vengano segnalati prima che avvenga qualche eventualità di carattere anche infausto, senza timore di essere oggetto di scherno, diventando finalmente parte di un contesto produttivo e soddisfacente da ambo le parti.

.1. Ricevuto in Redazione. Conosciamo dal Liceo Linguistico “Eco” (già “Saluzzo-Plana di Alessandria)  Serena Muda e ben volentieri le pubblichiamo questa sua testimonianza. Al proposito riprendiamo una frase significativa dalla sua mail…” ecco un articolo per il giornale. Ho pensato, essendo ormai passato il 1 maggio, di non concentrarmi su tale evento ma di andare a far luce su alcuni aspetti tossici legati alle realtà lavorative,…” ...E pensiamo che abbia fatto bene. Troppi sono gli “angoli bui” del nostro mondo del lavoro tutt’altro che in buona salute. 

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