Sarebbe azzardato aspettarsi che il nuovo papa riesca a risolvere il rebus di una guerra – anzi due – che hanno riacceso sul fronte occidentale conflitti che ci eravamo risparmiati per tre quarti di secolo. Però, in poche settimane, si è registrata un’accelerazione di trattative e spiragli in buona parte legati agli incontri romani dei leader di tutto il mondo. Incontri che sono andati ben oltre la contingenza delle celebrazioni, e che lasciano intravedere una cauta ma sagace regia. Che potrebbe aprire una nuova fase, più attiva nella ricerca della pace.
Fin dal suo discorso inaugurale al cospetto dei fedeli e del mondo, Leone XIV ha scandito a chiare lettere che la pace sarebbe stata il cuore della propria iniziativa. Facendone un testimone e un legame del suo rapporto con papa Francesco, ma, al tempo stesso, cominciando a tessere la tela che nei giorni successivi sarebbe diventata più evidente. Un ruolo di facilitatore che, fino ad oggi, era del tutto mancato. I leader nazionali che avevano, in varie occasioni, provato a misurarsi su questo fronte – da Erdogan a Macron a Scholz – non avevano raccolto granché. E anche Trump, che aveva esordito proclamando di risolvere la faccenda in 24 ore, non è riuscito fino ad oggi a sciogliere nessuno dei nodi principali. Anzi, a più riprese è sembrato che la questione si stesse aggrovigliando. Ieri a Roma si è iniziata a vedere qualche prima importante schiarita.
Almeno sull’asse che si era, negli ultimi mesi, inaspettatamente complicato, il rapporto tra Stati Uniti ed Europa. Siamo solo alle prime battute, e sapremo presto se e come alle parole concilianti potranno seguire anche fatti concreti. Certo, però, che appena tre mesi fa il vice-presidente J. D. Vance, a Monaco, aveva gelato la platea dei suoi interlocutori pronunciando un j’accuse inaudito nella storia dell’alleanza occidentale. Non limitandosi a rimarcare le differenze di visione sui vari fronti internazionali, ma lanciando un attacco alzo zero al sistema dei valori europei, sintetizzato nella famigerata frase che “in Europa la libertà di parola è in ritirata”. Ieri, quello stesso Vance ha approfittato del clima vaticano per cambiare decisamente tono e marcia, ed incontrare la Van der Layen, auspice e ospite il premier italiano che ha incassato un indubbio successo diplomatico. E la dichiarazione finale è stata di ben altro segno. Un segno che porta l’imprimatur – silenzioso – del Vaticano.
Fino a pochi anni fa, sullo scacchiere globale, il ruolo della Chiesa è stato visto come quello di una preziosissima moral suasion, la capacità di suscitare – con maggiore o minore vigore, e capacità di convinzione – un clima intellettuale e culturale favorevole al raggiungimento della pace. Un ruolo importante, ma inevitabilmente limitato dalla rigidità dei blocchi di potere, che ruotavano intorno a poche potenze egemoni. Oggi il contesto è molto cambiato. L’instabilità degli equilibri multipolari richiede una intensa e costante attività di mediazione e riposizionamento, dove conta – molto più di ieri – la riserva di know-how relazionale. Il patrimonio di conoscenze dirette, reti di luoghi e personalità, che diventano fondamentali per costruire – o ricostruire – quelle interlocuzioni fiduciarie che sono il sale di ogni trattativa. Un patrimonio in cui il Vaticano – per la sua storia plurisecolare di presenza in ogni angolo del pianeta – non ha pari rispetto ai governi nazionali.
Abituati a mettere in primo piano l’esercizio di un – enorme – potere spirituale, tendiamo a relegare a un ruolo residuale il cosiddetto potere temporale della Chiesa. E il cittadino comune a malapena ne intuisce i meandri e l’ampiezza. Qualcosa di più si è riusciti a cogliere dalle cronache che hanno preceduto e accompagnato il Conclave, e dalla biografia straordinaria del papa che è stato eletto. Straordinaria – sotto il profilo politico – per la complessità del retroterra formativo, che coniuga una lunga esperienza missionaria con un pedigree intellettuale e teologico di assoluta primazia. Qualità che, in tempi non lontani, non erano insolite tra le elite politiche, che univano un rigoroso apprendistato sul campo a una tempra di pensatori e una salda visione ideale. Oggi, al vertice dei governi, sono necessarie altre doti per sopravvivere ai vortici dei cambiamenti tecnologici, e a quelli – ancora più tumultuosi – delle opinioni pubbliche. Il Vaticano può, invece, ancora far tesoro della storia millenaria che ha incorporato nel suo dna. E nella sua leadership.
Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 19 maggio 2025).
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