Perché una statua in piazza?

Anni fa l’amministrazione comunale di Gavi decise di collocare nella piazza centrale della cittadina una scultura di Arnaldo Pomodoro. Erano i tempi dei vitelli grassi, per cui lo stanziamento coprì, oltre al costo della statua (un monolite cilindrico in bronzo, alto tre metri) anche una cerimonia di presentazione intitolata “Perché una statua in piazza”, cui parteciparono Umberto Eco e altre personalità della cultura, alessandrina e non. In realtà più che di presentazione l’incontro risultò essere giustificatorio, perché si tenne qualche settimana dopo l’inaugurazione ufficiale, a seguito delle perplessità manifestate nel frattempo dai cittadini. Il problema nasceva, oltre che dall’enigmaticità dell’opera, che aveva le fattezze di un grande fallo rugoso, dalla scelta del luogo di collocazione: era infatti piazzata al centro del quadrivio nel quale convergono le arterie principali d’ingresso e di uscita da Gavi, e creava negli automobilisti un effetto di sorpresa e di curiosità che li distraeva dalla guida; tanto che nel giro di tre mesi si contarono nella piazza una ventina di incidenti causati dalle mancate precedenze.

Al termine dei tre mesi, e a dispetto dalla dotta ed entusiasta perorazione di Eco, la statua venne rimossa. Non so che fine abbia fatto, non so se per l’arte sia stata una sconfitta, ma so per certo che a Gavi nessuno oggi la rimpiange (e sul web non è assolutamente ricordata).

Credo allo stesso modo che nessuno in Alessandria lamentasse sino ad oggi l’assenza di una statua dedicata al pontefice Pio V Ghisleri. Già esistono in città e nei suoi dintorni chiese a lui dedicate, addirittura un complesso monumentale a Bosco Marengo, per cui il nome dell’illustre conterraneo non rischia di cadere nell’oblio: e sono d’accordo sul fatto che questo non debba accadere. Ma per motivi un po’ diversi da quelli che hanno evidentemente animato gli ideatori di questo ritardato omaggio.

Devo sgombrare però preventivamente il campo da equivoci. Non sono contrario per principio alla statuaria commemorativa, ai monumenti insomma, e ho anzi zero stima per quelli che li abbattono o li imbrattano, anche se in qualche caso (che non è certo quello della cancel culture, ma ad esempio quello della caduta di una dittatura) posso comprendere perché arrivino a farlo.

Le statue, ma anche i busti, i bassorilievi o le lapidi non mi fanno né caldo né freddo, a meno che siano orribilmente brutte o eccezionalmente belle. So che in genere sono dedicate a personaggi che meriterebbero ben altro, ma penso che la loro presenza, se accompagnata da una solida conoscenza storica e da una corretta informazione, possa comunque giovare alla manutenzione della memoria. Questo almeno valeva sino a qualche tempo fa, e di quanto poi giusto dispensiere di glorie o d’infamia sia il tempo lo testimoniano i nomignoli irridenti coi quali sono state ribattezzate in genere le sculture celebrative di illustri nullità o di insigni farabutti.

Oggi direi che la statuaria di questo tipo ha ben poco senso, anche se non celebra più despoti spietati o militari con licenza di massacro, ma uomini di spettacolo o “eroi” dello sport (e ultimamente anche i “migliori amici dell’uomo”): nel frattempo è infatti mutata radicalmente la finalità. Ciò che una volta negli intenti doveva proporre o celebrare modelli esemplari a fini patriottici o di memoria culturale, è scaduto oggi a suppellettile dell’arredo urbano, con finalità meramente turistiche (o in qualche caso, come quello di cui sto parlando, per “marcare” politicamente il territorio). Per questo la decisione di inaugurare a giorni in una piazzetta della città l’ennesima statua di papa Ghisleri non mi entusiasma. E i motivi della mia freddezza sono più d’uno.

Il primo è di ordine pratico: se proprio si aspira alla manutenzione della memoria, con la somma stanziata (150 mila euro: non da privati, ma almeno in parte da un ente pubblico) si sarebbero ad esempio potuti disboscare e risanare un po’ di tetti della Cittadella, o sistemare alcuni locali della caserma Valfrè, per tenere in piedi il complesso e ricavarne spazi utili per mostre, convegni, iniziative le più svariate, o per futuri probabili lazzaretti o centri vaccinali, prendendo due piccioni con una fava.

Il secondo riguarda il contraddittorio e oggi più che mai ambiguo rapporto tra verità, storia e memoria. So che è diventato quasi un chiodo fisso nei miei interventi, una monomania, ma in questo caso la distanza tra la prima e la terza riesce così evidente, e così disinvoltamente e artatamente giocata, da non consentirmi di passarci sopra.

L’altro motivo è infine di opportunità. Non che faccia grande differenza dedicare una statua a Francesco o a Giovanni XXIII o a Paolo VI, ma con tutti quelli che c’erano proprio un personaggio controverso come Pio V dovevano andare a scegliere? Capisco che fosse alessandrino, e che di glorie da celebrare da queste parti ne siano circolate poche, ma almeno fosse “vera gloria”, almeno offrisse una sola ragione in positivo per essere ricordato.

Proviamo invece a vedere cosa ha saputo combinare quest’uomo nel breve tempo del suo pontificato (è rimasto sul soglio per soli sei, anni). Gli va riconosciuto senz’altro di non essere rimasto con le mani in mano e di avere dato un impulso decisivo alla Controriforma. Cosa che sotto il profilo morale è molto dubbio si possa considerare un merito, ma sotto quello professionale, dell’efficienza organizzativa, lo è senz’altro.

Purtroppo quell’efficienza è costata cara a un sacco di gente. Si è esercitata infatti sia contro gli oppositori interni, eretici o dissidenti di varia natura, sia contro quelli esterni, in primis ebrei e mussulmani, e ha escogitato nuove modalità di controllo e di censura e di indottrinamento.

La carriera di Pio V si svolge infatti tutta all’insegna dell’Inquisizione.

Nel 1542, a meno di quarant’anni, è nominato commissario della Santa Inquisizione a Pavia, ma fa sentire la sua mano anche nei dintorni, ad esempio a Parma. Visti gli ottimi risultati ottenuti, nel 1550 è inquisitore a Como e a Bergamo, e l’anno successivo diventa commissario generale dell’Inquisizione romana. Nel 1556 ricopre l’incarico di inquisitore generale a Milano e in Lombardia e due anni dopo tocca il vertice, diventando Grande Inquisitore presso la sede romana. Ricoprirà quella carica per otto anni, fino alla elezione a pontefice.

Anche in questo ruolo il buon Ghisleri non perde il suo tempo. Durante il suo pontificato vengono processati e mandati a morte gli umanisti Pietro Carnesecchi e Aonio Paleario, oltre al letterato Niccolò Franco. E questi sono naturalmente solo i più famosi. Già in precedenza si era però distinto come difensore della fede in qualità di capo del Sant’Uffizio, facendo massacrare nel giugno 1561 centinaia di valdesi a Guardia Piemontese, in Calabria, dopo aver mandato al rogo la loro guida spirituale, Gian Luigi Pascale. Qualche altro migliaio li fa cacciare in prigione e li costringe, non certo con le prediche, ad abiurare. Chi rifiuta viene scannato o bruciato vivo. Il numero totale delle vittime è incerto, ma è stimato dagli storici da un minimo di 600 a un massimo di 6.000. Queste cose quando le hanno fatte, e tuttora le fanno, altri, sono definite genocidio. Nel caso di Pio V a quanto pare sono considerate prove di santità, e sono oggetto di reverente memoria.

Non da parte degli ebrei, comunque: non è particolarmente tenero neppure con loro. Intanto li fa rinchiudere a Roma nel ghetto istituito per l’ occasione, sul modello veneziano, dopo averli obbligati a vendere tutte le loro proprietà: poi li costringe a subire una pressante campagna di indottrinamento.

Infine ne sancisce l’espulsione dallo Stato Pontificio, ad esclusione di coloro che accettano di risiedere nei ghetti cittadini.

Le pulizie le fa però anche in casa. Mette in riga i vari ordini religiosi, sopprimendone alcuni (tra cui quello degli Umiliati, presente sino quel momento anche in Alessandria), cancellando varie congregazioni eremitiche e costringendo gli adepti a rientrare nei ranghi associandosi agli ordini riconosciuti (preferibilmente a quello domenicano, dal quale lui stesso proviene).

Infine istituisce l’Indice dei Libri Proibiti, ovvero l’elenco dei testi sottoposti alla censura ecclesiastica, dal quale mancano magari inizialmente le opere dell’Aretino, ma non quelle di Copernico e di Keplero, e di lì a poco quelle di Galiei.

Mi fermo qui, ma direi che i meriti per vedersi dedicata una statua se li è guadagnati abbondantemente, e anche se in vita aveva già provveduto a non lesinare la propria immagine a pittori e scultori, un ritratto in più non guasta.

Nel caso alessandrino penso che l’errore stia solo nella scelta della collocazione. Anziché piazzare la statua di fronte al carcere si sarebbe potuto, con uno spostamento di pochi metri, collocarla dentro le sue mura. Sarebbe stata una sede più consona al personaggio, che magari anche lì avrebbe potuto operare miracoli.

Invece abbiamo assistito (si, perché c’ero anch’io, volevo vedere a che livello si poteva scendere, e sono stato ampiamente accontentato) ad una farsesca cerimonia di disvelamento dell’opera, con tanto di onorevoli e presidenti di banche e alti prelati che si sono succeduti a cantare per un’ora le lodi del celebrando, edificatore di ospedali (altro che la sanità attuale!) e di scuole (altro che la pubblica istruzione!) e di alleanze continentali anti-barbariche (altro che l’Unione europea!), senza fare il minimo accenno al suo tutt’altro che trascurabile curriculum di “disinfestatore” e di costruttore di ghetti. Una perfetta “lectio magistralis” di ipocrisia e di post-verità, un po’ guastata ad essere sinceri dalla “rivelazione” della pochezza dell’opera: l’ultimo simulacro di Pio V ha la postura e l’espressione di un cercatore di funghi che abbia appena adocchiato un porcino.

Peccato. Fosse ancora vivo Umberto Eco si sarebbe data l’occasione di mettere in piedi un bell’evento, non al teatro comunale perché ancora non si sono trovati i soldi per risanarlo, e nemmeno alla Cittadella o alla Valfré, ma insomma, uno spazio si poteva trovarlo. Eco con l’Inquisizione ci sarebbe andato a nozze. E magari avrebbe giocato sul fatto che una statua prospiciente da un lato l’ospedale e dall’altro il carcere una qualche inquietudine può suscitarla, e suffragato questa inquietudine con gli incidenti nei quali i passanti impegnati a toccarsi o a fare altri gesti scaramantici senz’altro incorreranno.

Forse tra due o tre mesi, alla chetichella, il Grande Inquisitore sarebbe stato indotto a migrare. Non voglio però chiudere così questo intervento, senza qualche estemporanea (e desolante) notazione. Si dà il caso che qualche giorno avanti l’ inaugurazione della statua sia capitato proprio nel complesso monumentale di Bosco Marengo, e abbia visitato la chiesa voluta dal santo e a lui intitolata. Ho potuto visitare la cripta, dove per secoli un gran numero di domenicani sono stati sepolti, si dice in posizione seduta, così che potessero idealmente continuare a svolgere il loro lavoro: ma ho anche visto l’enorme monumento funebre, quasi un mausoleo, che Pio V si era fatto erigere nel transetto (e nel quale non riposa la sua salma, che sta invece a Roma, in Santa Maria Maggiore, in un altro monumento altrettanto offensivamente sfarzoso). Già quello è testimonianza sufficiente di una vanità e di una megalomania spropositate, e consente di prendere immediatamente le misure al personaggio, senza neppure disturbarsi a ricostruirne la storia.

Infine. Durante la cerimonia alessandrina di “svelamento” guardavo la piccola folla dei celebranti, tutti bardati negli smilzi completi blu elettrico, stile Di Maio o agente Tecnocasa, con la giacchetta che non arriva al sedere e il pantalone stretto alla caviglia, abbinati a calzature improbabili e ad ancora più improbabili fenotipie, che anziché trasmettere una immagine di solennità sacrale davano l’idea di buzzurri travestiti; ho pensato che erano un campione perfettamente rappresentativo di chi ci amministra, di chi rastrella i nostri soldi, di chi dovrebbe garantirci l’informazione, di chi vigila sulla nostra sicurezza e sulla nostra salute, e ho avuto più che mai netta la percezione dello sfascio, ma quel che è peggio soprattutto quella della mia assoluta impotenza. Mi sono infatti chiesto se valesse la pena provare a guastare un po’ la festa, intervenendo ad aggiungere la parte di storia che avevano dimenticato, o che nemmeno conoscono, perché dubito che per questa occasione qualcuno si sia dato pena di andarsela a vedere: ma ho dovuto rispondermi che no, che sarebbe stato del tutto inutile, che avrei anzi contribuito allo squallido spettacolo messo in piedi, aggiungendogli un po’ di sale, senza intaccare minimamente le coscienze.

E mi sono cascate le braccia.

Paolo Repetto

1 Commento

  1. Condivido pienamente il contenuto di questo articolo. Il monumento a un guerrafondaio, .e mi fermo qui, non ha nessun senso se non quello di sprecare un’ enorme quantità di denaro pubblico. Grazie all’ autore

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