Un dibattito sul “Rattazzi” di Malandrino
Nei giorni scorsi (28 maggio), per iniziativa congiunta della “Scuola del popolo” legata alla Camera del Lavoro di Alessandria e di “Città Futura”, e d’intesa con il Dipartimento di Studi Giuridici Sociali e Politici dell’Università del Piemonte Orientale diretto dal professor Guido Barberis, e del Laboratorio Alessandrino di Storia Politica Istituzioni (LASPI) animato dal professor Stefano Quirico, ha avuto luogo la prima presentazione in Alessandria del bel libro di Corrado Malandrino Urbano Rattazzi. Una biografia politica[1]. Il dibattito è stato coordinato da Renzo Penna, Presidente dell’Associazione Città Futura, e vi hanno partecipato: il sottoscritto (già docente dell’Università degli studi di Milano) e Francesco Ingravalle (già docente dell’Upo). Partecipava anche l’autore, il professor Corrado Malandrino, già ordinario dell’UPO e preside ivi di Scienze Politiche, che naturalmente ha avuto il massimo spazio.
Prima del nostro dibattito c’era già stata, giorni prima, una presentazione, ma totalmente on line, organizzata dall’Associazione degli storici del pensiero politico, tramite il suo presidente (il professor Francesco Tuccari), con relazione attentissima, e assai favorevole all’opera di Malandrino, della professoressa emerita Anna Lazzarino Del Grosso, già dell’Università di Genova, in bel dialogo con l’autore.
Ma in Alessandria la prima presentazione è stata la nostra.
Il tempo, naturalmente, in dibattiti del genere è tiranno. Perciò mi piace, qui, svolgere in un modo più ampio quello che in quella serata ho dovuto dire in modo più contratto. E anche svolgere temi che mi sono venuti in mente per associazione, compresi taluni ricordi di famiglia risorgimentali. Il mio amico Corrado Malandrino, cui avevo detto qualcosa, mi ha consigliato di socializzarli, e io ora, tornando sul suo libro, lo faccio.
Io ho letto con attenzione e passione il “grosso” e “grande” libro di Malandrino su Rattazzi, che conclude in bellezza quasi vent’anni anni di studi dell’autore sul personaggio, contrappuntati da veri saggi e già da un altro libro importante (dal 2001 e specie dal 2012 in poi)[2].
Alcuni miei piccoli contributi realizzati, o mancati, agli studi sul Risorgimento
Anche se non mi considero e non sono uno storico “risorgimentale”, mi sono occupato di questi temi in tre momenti della mia vita. Una prima volta trentasette anni fa, nel 1988, in un saggio di una trentina di pagine in una grande opera collettiva sulla storia del Parlamento italiano della CEI, in cui oltre a voci “minori” scrissi un saggio su Rattazzi.[3] Allora su Rattazzi non c’era quasi nulla, nonostante i progetti e prime ricerche di Carlo Pischedda. C’era solo un bel saggio “giovanile” del compianto Guido Quazza, uscito a puntate su “Critica Sociale” del 1955[4]. Io lessi tali cose e compulsai tutti i libri sul Risorgimento italiano e sui protagonisti d’esso che potei vedere, che ovviamente contenevano pagine su Rattazzi che lessi e mi appuntai, cui risalii tramite indici dei nomi componendo un mio puzzle. La sola fonte diretta erano i discorsi parlamentari di Rattazzi, che scovai alla Biblioteca Civica di Torino e fotocopiai e lessi, benché le pagine fossero in stato già precario (quasi si sgranavano)[5]. Solo in seguito fu pubblicato il grande epistolario di Rattazzi (in tre volumi, tra 2009 e 2018), a cura di Rosanna Roccia[6], allieva di Pischedda, opera che nel I volume presentai io pure alla Biblioteca Civica di Alessandria, e tramite cui subito fui in grado di toccare con mano che almeno sul piano giuridico istituzionale Rattazzi era stato figura di prim’ordine (sul che convenne, pure allora, l’insigne giurista dell’UPO, Elisa Mongiano).
Ero stato pure relatore e curatore degli atti del convegno “Libertà e Stato nel 1848-49. Idee politiche e costituzionali”, del Dipartimento Giuridico Politico dell’Università di Milano, nel 2001[7].
Curai pure uno di due grandi saggi di Carlo Cattaneo (Notizie naturali e civili su la Lombardia, 1844), pubblicato con La città considerata come principio delle istorie italiane di Cattaneo, del 1858, curato invece da R. Ghiringhelli, in un Oscar Mondadori, nel 2001[8].
Per anni e anni coltivai pure il grande sogno di un lavoro sul pensiero politico e religioso di Mazzini, che finii per non fare perché Mazzini era molto criticato dalle scuole di pensiero da cui nell’Accademia avevo avuto a che fare dal 1974 al 2010. A parte un mio saggio in francese pubblicato dall’Università di Marsiglia nel 2003, République et types de représentation dans la théorie politique de Giuseppe Mazzini, la sola cosa che finii per fare, e che rifletteva il mio pensiero, fu il capitolo Il pensiero politico e religioso di Mazzini, in un’opera con altri due autori, “Da Platone a Rawls” del 2012, in cui, nei capitoli firmati da me, totalmente mi riconosco[9]. Ma considero i miei conti “con Mazzini” rinviati, quale sarà la forma in cui mi esprimerò, anche se potrò farli solo se vivrò cent’anni, e senza rimbambire (ora come ora, in cui sono ormai ottantaquattrenne, e con altri impegni, assai improbabile persino da immaginare). Comunque mi piacerebbe perché a mio parere il pensiero riformatore morale e religioso, liberaldemocratico e solidarista di Mazzini, sarà da riscoprire, perché guarda persino a un possibile Risorgimento neo-socialista (post-marxista), ben al di là di ogni angustia nazionalista, che non gli apparteneva se non per l’ovvia passione patriottica dei costruttori del primo Stato nazionale in Italia, cui solo con approccio necrofilo si potrebbe inchiodarlo anche nel XXI secolo.
Rattazzi nella Storia
Per tutte queste ragioni, comunque, per me il vasto libro dell’amico Corrado Malandrino è stato una lettura appassionante, come credo si veda nell’intervista che gli ho fatto, pubblicata qui su “Città Futura on line” pochi mesi fa[10]. Anche se io avrei desiderato fosse maggiormente valorizzata, nel libro di Malandrino, la dialettica tra patrioti parlamentari operanti nel Parlamento Subalpino, e movimenti democratico rivoluzionari, poiché nel libro di Malandrino i “subalpini” (del Piemonte nord e pure sud), fanno da asso piglia “quasi tutto”.
Comunque quella di Malandrino è la prima biografia vera e propria, scientifica, su uno dei protagonisti assoluti del Risorgimento italiano: direi con Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II e Garibaldi. Non c’è la minima ombra di dubbio sul fatto che di lì, nel consenso come nel dissenso, dovranno passare tutti gli studiosi del futuro, poiché a parte modesti contributi di testimonianza, oltre a tutto da verificare, come quello della moglie di Rattazzi, Maria Letizia (1881)[11], non c’era niente di anche lontanamente confrontabile con quest’opera. Di lì, sperando che non passino di nuovo centocinquant’anni per una nuova “vera” biografia, dovranno passare, nel consenso come nel dissenso, tutti gli storici “risorgimentisti” (e non è mica una cosa da poco).
Il personaggio era stato rimosso (se non rifiutato, nonostante l’indiscutibile rilievo storico), perché considerato – a torto, in base ai documenti presentati e commentati da Malandrino – il responsabile di alcuni disastri della storia del Risorgimento, come la disfatta di Novara, con cui si concluse, dopo una mal pensata ripresa della guerra contro l’Austria (che però mostrò che lo Stato sabaudo aveva davvero a cuore la liberazione nazionale); o come il famoso episodio di Aspromonte del 29 agosto 1862, in cui Garibaldi con tremila volontari voleva procedere dalla Sicilia a Roma, già ufficialmente proclamata capitale dal primo Parlamento “italiano” il 27 marzo 1861, ma fu fermato – dopo la proclamazione di stato d’assedio da parte dello Stato italiano e con effettivi diminuiti di conseguenza – dai bersaglieri, dopo breve scontro a fuoco, e con l’arresto di 1900 garibaldini poi amnistiati, e il ferimento dello stesso Garibaldi: perché la Roma “papalina” era protetta da Napoleone III (Luigi Bonaparte), che in Francia si reggeva sul consenso dei clericali sin dal 1849: un “imperatore” che per lo Stato sabaudo era stato alleato prezioso per fare l’Italia, specie nella decisiva seconda guerra d’indipendenza; o come il grave episodio di Mentana, nel Lazio, del 3 novembre 1867, in cui Garibaldi – il solo generale italiano che avesse vinto in battaglia (a Bezzecca) nella allora recente terza guerra d’indipendenza – alla testa di una legione di circa diecimila garibaldini che aveva provato a liberare ed annettere Roma, fu fermato; fu portato in diversi luoghi di permanenza forzata tra cui, per l’occasione, la Cittadella di Alessandria (il che provocò tumulti in città); fu riportato a Caprera, ma di lì fuggì di nuovo, e questa volta fu fermato dai francesi, coi loro fucili a ripetizione, oltre che dai papalini, appunto a Mentana. In tali occasioni Rattazzi era al governo e si era lasciato gabbare o aveva lasciato fare Garibaldi, anche se poi, diversamente da Cavour nel 1860 col regno delle due Sicilie liberato dai garibaldini, gli sarebbe andata male (per incapacità o doppiezza politica).
Su ciò, documenti alla mano, Malandrino chiarisce quanto c’era da chiarire, e al suo libro rinvio. Dico subito che egli con la sua analisi non solo confuta gli avversari epocali di Rattazzi, ma contraddice tanta parte della precedente storiografia, ivi compresi grandi storici come Adolfo Omodeo e Rosario Romeo. Ma su ciò porta molti dati, con cui i veri storici risorgimentali certamente si staranno confrontando e si confronteranno. Secondo me troveranno pane per i loro denti.
In ogni caso quanto Rattazzi aveva fatto tra il 1848 e il 1861 rimane molto importante: a partire dal famoso “connubio” tra centro-destro di Cavour e centro-sinistro suo, che svincolando il sabaudismo pur liberale di Cavour dall’ipoteca clericale moderata piemontese e soprattutto torinese, e la sinistra liberale dall’ipoteca del complottismo rivoluzionario, risulta essere stato la chiave di volta del Risorgimento, rendendo possibile e promuovendo pure la riforma liberale dello Stato nascente e la necessaria unità d’intenti per fare l’Italia. Probabilmente Rattazzi era il tipo del politico che è buon secondo “a bordo”, capace di dare il massimo a lato di un leader massimo, qual era Cavour (morto il 6 giugno 1861), ma di minori capacità politiche da sé solo.
Piuttosto, a questo punto, a me interessa approfondire due punti decisivi: uno relativo alla sinistra, nel Risorgimento e dopo, ed uno ai diversi modi di essere monarchici nel Risorgimento italiano.
Tre “sinistre” nel Risorgimento
Ora a me pare che nel Risorgimento italiano si confrontino tre sinistre.
Una era la sinistra di tradizione giacobina di sinistra, erede della tradizione giacobina italiana, che con Giuseppe Ferrari (pur politicamente ondivago) già conosceva bene Proudhon e con Proudhon interloquiva: una sinistra erede del giacobinismo rivoluzionario, che guardava alla Francia rivoluzionaria, facendo congiure in tal senso. Ad esempio il più importante leader carbonaro, da cui si staccherà Mazzini per fondare la sua Giovine Italia nel 1831, era Filippo Buonarroti, tra i protagonisti dell’ultima congiura robespierrista di sinistra, la Congiura degli uguali del 1796 di Gracco Babeuf, poi ghigliottinato dal governo borghese del Termidoro. Questi erano già socialisti rivoluzionari, federalisti libertari.
Filippo Buonarroti, il più importante organizzatore e teorico della Carboneria, nel 1828 pubblicò su ciò il libro Cospirazione per l’uguaglianza detta di Babeuf. La Congiura degli uguali del 1796, aveva avuto il seguente programma: “Si strappino i confini della proprietà, si riconducano tutti i beni in un unico patrimonio comune, e la patria – unica signora, madre dolcissima per tutti- somministri in misura eguale ai diletti e liberi suoi figli il vitto, l’educazione e il lavoro.” Tutto ciò fu studiato da notevoli storici, come Alessandro Galante Garrone in: Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828/1839)[12], nel 1972.
Ora tale posizione ha un forte sviluppo pure in pieno Risorgimento, nella Carboneria (ma solo nel sapere “segreto” del massimo grado), poi superata dal repubblicanesimo mazziniano; nel federalismo di Giuseppe Ferrari, ateo e proudhoniano, pur poco conseguente e tutto sommato mediocre politicamente, anche se pensatore non d’accatto; e, soprattutto, ha un forte sviluppo in Carlo Pisacane, che dopo essere stato – con Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Garibaldi – un protagonista dell’eroica liberaldemocratica Repubblica romana (9 febbraio 1849 – 4 luglio 1849), repressa dal governo di destra francese di Luigi Bonaparte, si era evoluto in senso socialista rivoluzionario, tanto da dire “Schiavitù o socialismo; altra via non v’è”, in Saggio sulla rivoluzione (1856, ma 1860[13]), sino a farsi massacrare, prima ancora che dai borbonici, da contadini campani, a Sapri, nei primi giorni di luglio del 1857. (Donde la famosa poesia di Luigi Mercantini del 1858 La spigolatrice di Sapri, che ai miei tempi si studiava o già in quinta elementare o in terza media).
Ora questa sinistra rivoluzionaria, robespierrista di sinistra, da Buonarroti a Pisacane, è la sinistra perdente, in un Paese che non solo aveva bisogno di giustizia sociale, ma di fare lo Stato nazionale cacciando lo straniero (cosa non certo possibile facendo confliggere borghesi e contadini poveri o proletari, ammesso e non concesso che questi l’avrebbero voluto). Per questo la valorizzazione di essa come sinistra che avrebbe potuto vincere mobilitando i contadini, con ottica preleninista, da parte del Gramsci dei Quaderni del carcere, non regge[14], come dimostrò il grande storico Rosario Romeo, specie in Risorgimento e capitalismo (1958-1959)[15], il quale spiegò che la rivoluzione che si poteva fare nel Risorgimento era nazionale, liberale ed anche capitalistica, come in effetti fu fatta, tutto sommato felicemente.
Molto più realistica era la sinistra del connubio (rattazziana), che in effetti dà inizio alla lunga vicenda italiana di una sinistra moderata che alleandosi col centro disloca in avanti l’Italia. Ciò non vuol dire né accusare Rattazzi di trasformismo ante litteram né confondere il connubio Rattazzi-Cavour con quello Giolitti-Bissolati (o con quello mancato Giolitti-Turati) o De Gasperi-Saragat o Moro-Nenni. Sono scenari diversissimi; e, soprattutto, una cosa sono le compromissioni in un’Italia “liberata” e sostanzialmente unita ed altra cosa quelle fatte per il superiore fine dell’unità nazionale. Semmai il compromesso indispensabile in condizioni di estrema emergenza può suo malgrado esser stato rivissuto in contesti non più assolutamente emergenziali, in cui diventò modo di essere ideologico assai discutibile.
Ma c’era pure una terza sinistra, che io chiamerei di alternativa democratica, diciamo mazziniana (ed anche cattaneana), poi garibaldina “di sinistra” (oppure ala inquieta del “garibaldinismo”, poi radicale e socialista).
Miei antenati nel Risorgimento
Su ciò vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che Franco Della Peruta dimostrò quanto questa sinistra mazziniana avesse fatto, certo soprattutto sino al 1849, ma pure in seguito. Della Peruta dimostrò che il partito repubblicano, mazziniano, era stato il primo partito nazionale italiano, fondato da Mazzini nel 1831 facendo fare un salto di qualità al mondo delle sette: non più complessi gradi iniziatici di pretesa sapienza massonicamente crescenti man mano che si sale di grado, come nella Carboneria, che ai gradi bassi si apriva ai sovrani riformisti e al vertice addirittura al collettivismo o robespierrismo di sinistra, ma fratellanza, che intendeva la vita come dovere, missione, sacrificio, con unione tra Dio e Popolo (Dio e Umanità), per fare l’Italia una e democratico repubblicana qual fine assolutamente esplicito per tutti: associazione stabile e diffusa (“partito”) in cui c’erano, infatti, solo due livelli, iniziatori ed iniziati, con scopi chiari e pubblici impegnativi per tutti. Ebbene, Mazzini tessé una rete in modo instancabile, avendo già circa duemila adepti prima del 1848, sino ai punti più oscuri della penisola. Persino l’abate Vincenzo Gioberti era passato per quella scuola, arrestato come tale nel 1833, esiliato per oltre dieci anni, in cui maturò la sua famosa visione della confederazione italiana presieduta dal papa. Convergendo con lui sin dalla sua elezione facile nel Parlamento subalpino, per conto di una sinistra ex repubblicana, nel 1848, Rattazzi sapeva quel che faceva.
La rete di Mazzini era una cosa seria, come sapeva il suo repressore Metternich, che l’ammirava, e il poeta Giusti, che ironizzava su questo Mazzini visto dappertutto.
Questo lo so pure per ricordi di famiglia, però storicamente verificabili. Ci sono cose interessantissime pure nel ramo paterno, con un nonno del mio papà, suo omonimo (di Riesi, in provincia di Caltanisetta), tipo del poeta contadino, mago e spiritista, che scrisse pure un poemetto in versi siciliani, credo intorno al 1912, che mio padre nella vecchiaia, trascorsa a San Remo, trascrisse dandone la versione interlineare, in cui campeggiava il dialogo sulla fede. Costui era pure ipnotizzatore, guaritore, considerato un poco matto (“allampato”), appassionato di spiritismo. (Il mio amico Nuccio Lodato quando glielo raccontai disse: “Ecco da dove salta fuori lo junghiano”, cioè io). Costui nel 1876 acquistò da monsigno D’Antona un convento adattato ad abitazione di famiglia: “cummentu” allora attorniato da una piantagione di mandorle e altro, e casupole da questo Filippo edificate.
Ma il legame con il Risorgimento viene dal ramo materno dei Matera. Su ciò ci sono annotazioni storiche interessantissime in un libro di Salvatore Ferro, La storia di Riesi. Dalle origini ai nostri giorni, del 1934[16]. Di lì si apprende che nel 1840 fu fondata la “Società segreta ‘La Giovane Italia”, “ a cui faceva capo il grande pensatore genovese Giuseppe Mazzini”: i “primi furono: il Dottor Don Giuseppe Matera, il Dott. Don Gaetano Giuliana, l’avvocato Don Calogero Accardi …”. Questi Don e Dottore in maiuscolo riflettono la deferenza dello storico, un autodidatta venditore di Bibbie per i Valdesi, che hanno in quel paese, dopo Torre Pellice forse, il maggior centro d’influenza. Di questo dottor Giuseppe Matera, medico del paese, in quel libro si dice che era “nato nel 1809, era figlio del maestro Vito e Saveria Sarpietro. Contrariamente alla volontà del padre che lo aveva mandato a Caltagirone a perfezionarsi nel mestiere di chiavettiere, il figlio fuggì a Catania, dove, studiando, si laureò in medicina (p. 68).” Mia madre, il cui nonno era il fratello di questo medico mazziniano dal 1840, mi diede a novant’anni una diversa spiegazione sull’essere diventato medico. Io le avevo chiesto come in una famiglia di fabbri o anche di “scarpari” (come suo padre e altri proletari) fosse saltato fuori quel medico. Lei mi disse, e anche questo è piuttosto interessante storicamente, che lì vigeva il principio “uno porta la bannera” (o bandiera). Allora le famiglie erano tutte molto numerose. Nella famiglia talora capitava che ne venisse fuori uno molto ‘buono’, cioè più intelligente di tutti; allora gli altri familiari lo aiutavano tutti insieme a studiare ed affermarsi coi loro risparmi: certi – nella logica “familista” di quelle parti – che poi lui avrebbe ricambiato, una volta ‘salito’”.
Scoppiata la rivoluzione a Palermo nel gennaio 1848, scattò la repressione pure nel paesino. Il libro descrive nomi e circostanze degli arrestati. Gli sbirri borbonici “passarono al piano del Crocifisso nel cortile dei Butera, per l’abitazione del Dott. G. Matera da una scala esterna, che ancora esiste diruta a triste ricordo di quel fatto. Bussati alla porta, svegliatosi il Dottore, questi disse di aspettare un momento, inteso il rumore delle sciabole. Uomo socratico, accesa la candela, si vestì, baciò la moglie, figlie e figli ed aprì. Egli fu condotto al carcere …” (p. 71). “Arrivati a Caltanissetta li fecero sostare nel carcere del Centrale fra i delinquenti volgari. Bella la tirata di Don Calogero Accardi con un capo mafioso. Un recoluto della mafia si presentò ai quattro nuovi arrivati dicendo che dovevano pagare il pizzu, diritto giusto il Codice della Mafia. Lo Accardi si fece spiegare in che cosa consisteva questo pizzu e questo Codice e di botto domandò:
– E se non lo vogliamo pagare?
Botta e risposta.
– Allora c’è la tirata! …
– Come? …
– Con i coltelli
– Con chi?
– Col capo! …
– Quando?
– Domani mattina all’aria.
– Ebbene accetto! disse Don Calogero risoluto.
– A domani e, li lasciò.
E difatti l’indomani, all’ora che i carcerati dovevano andare a prendere una boccata d’aria, nell’atrio, vi toveva essere la tirata. Don Calogero, uscendo dalla cella, seguito dai compagni, nel corridoio, vedendo un grosso ciottolone, lo estirpò e se lo mise sotto la giacca. Il capo mafia, si presentò con un lungo coltello di coscia acuminato, pronto alla sfida; ma il riesano fatti due passi indietro, mostrando il ciotolone, in atto di tirarlo contro il mafioso, disse Largo!!! … Ma i carcerati presenti gridarono: No! … no!! Non è così che si fa la tirata! – L’avv. Accardi: ‘Io così sono abituato a tirare ai buoi della mia Masseria’! Il mafioso rimase perplesso; i suoi amici gli fecero cadere il coltellaccio dalle mani e li fecero conciliare; laonde il liberale di Riesi esclamò: ‘Come! Noi siamo di passaggio qui, perché arrestati politici e voi ci volete far pagare il pizzu?”
I detenuti politici furono in seguito graziati. Nel 1860 ci fu poi l’impresa dei Mille di Garibaldi. Il dottor Giuseppe Matera non vi andò, forse con qualche riserva da repubblicano sul fine “Italia e Vittorio Emanuele”. Ma vi partecipò il figlio Francesco, con lo zio paterno, Luigi (il nonno di mia madre). Salvatore Ferro riporta i nomi dei volontari garibaldini del paese, tra cui appunto “Francesco Matera, figlio del dottore” e “Luigi Matera, fabbro ferraio”, suo zio (p. 79). Parteciparono pure alla battaglia di Milazzo e passato lo stretto di Messina si incamminarono “per le vie delle Calabrie” (pp. 80-81). “Dopo questo fatto d’armi, Francesco Matera scrisse al padre: ‘Caro papà, abbiamo avuto a Milazzo uno scontro coi borbonici ed abbiamo vinto, presa la fortezza della cittadella, ora dobbiamo marciare verso Napoli, con la speranza di abbattere i borboni; col generale Garibaldi non si perde mai, ma si vince sempre. I nostri compaesani stanno tutti bene. Dirai alla nonna che Luigi (zio) è stato fatto trombettiere. Io e Ferro siamo caporali; tutti salutano le famiglie. (Messina 30 luglio 1860).
Avuta questa lettera nelle mani, il Dott. Matera la comunicò prima a la gnura Antonina Ferro (…) dicendole che i nostri avevano fatto una scaramuccia coi regi, e poi, tutto contento si recò dalla madrina dicendole che Luigi era stato fatto trombettiere (p. 81).” Questi pure furono i “maggiori” miei.
Oltre che per il piacere di raccontare, ho voluto un poco documentare in piccolo il filo rosso che dal 1831 di Mazzini porta al Garibaldi del 1860.
Ancora sulla sinistra mazziniana
La sinistra mazziniana, dopo quella “buonarrotiana”, ex robespierrista radicale e pure carbonara, e infine “pisacaniana”, e dopo quella moderata (rattazziano), ha fatto dunque la sua notevole parte, dal repubblicanesimo dal 1831 al 1848 e oltre, persino con una specie di Comune tricolore da non dimenticare e invece troppo dimenticata (la Repubblica mazziniana del 1849). Questa sinistra, tanto più dopo che il 1848-1849 aveva mostrato i punti di forza e debolezza dell’azione rivoluzionaria senza Stato alle spalle, era prigioniera di una doppia contraddizione da cui in realtà non poteva uscire: non avendo una società civile così compatta nelle città (salvo forse che in poche come Milano e Genova, e in circostanze insurrezionali forti Genova e Palermo), o una classe rurale compatta, o un proletariato urbano già aggregato e compatto come in seguito, e soprattutto dovendo fare una rivoluzione prima di liberazione nazionale che sociale, aveva bisogno di un esercito vero per sconfiggere in campo e politicamente quella che dal 1815 era la prima potenza mondiale, l’impero asburgico. I riferimenti per avere una tale forza militare a supporto dell’iniziativa dal basso erano storicamente il regno “sardo”, piemontese sabaudo, e la Francia, qualora fosse tornata repubblicana. La seconda istanza era decisiva per Filippo Buonarroti e i carbonari. E in effetti quando nel febbraio 1848 viene rovesciata a Parigi la monarchia degli Orléans, già tanto apprezzata da Cavour, i rivoluzionari, carbonari come repubblicani mazziniani, si muovono (Cinque giornate di Milano, eccetera). Ma ben presto, dal giugno 1848 e poi con l’avvento di Luigi Bonaparte prima come Presidente conservatore e reazionario clericale e imperiale, la “sponda francese” viene a cadere. Restano i Savoia, cui Mazzini cerca di aprirsi più volte, ma senza rinunciare al fine repubblicano e democratico (lui sì tale pure per richiesta, e nella breve Repubblica romana del 1849 “pratica” del suffragio universale). Mazzini, sia pure con qualche minaccia se non avesse accettato, pubblicava un opuscolo già nel 1831 invitando Carlo Alberto a diventare il “Napoleone d’Italia”. Sostenne pure la seconda guerra d’indipendenza. Semplicemente, come poi la sinistra addirittura nella Resistenza, egli avrebbe voluto che tutti gli italiani, volontari come regi sabaudi, lottassero per distruggere l’Austria (“Delenda Austria”, l’Austria come impero è da distruggere), rinviando a un’assemblea costituente la scelta tra Repubblica e Monarchia. Ciò è assolutamente documentabile, ed a richiesta potrò sempre farlo.
Ma naturalmente gli Stati pronti ad aiutare l’Italia a liberarsi, il sabaudo e poi il francese neo-bonapartista, non lo facevano solo per patriottismo. E infatti la fretta di annettere territori da parte dei Savoia fu la ragione principale del fallimento del confederalismo di Gioberti (e persino del suo strano tentativo estremo, giustamente fatto fallire da Rattazzi e Cavour, di riportare i Lorena sul trono da cui i toscani li avevano cacciati. Ormai lo schema per cui chi voleva l’unità d’Italia doveva accettare il binomio Italia-Vittorio Emanuele dal febbraio 1849 era consolidato (prendere o lasciare).
Tre modi di essere “monarchici” nel Risorgimento italiano
A questo punto di apre un ultimo tema, di nuovo da approfondire sempre tenendo d’occhio il libro di Corrado Malandrino: i diversi modi di essere monarchici durante il Risorgimento italiano. Io ne individuo tre: quello di essere monarchici avant tout; quello di essere monarchici perché desiderosi soprattutto del formarsi, finalmente, dello Stato nazionale italiano e indipendente; e infine quello dei repubblicani fattisi monarchici solo per amor di patria e in certo modo loro malgrado, e infatti aperti a “ben altro”.
Il primo modo è caratteristico del Piemonte “principale”, di Torino e dintorni, da Cesare Balbo a Camillo Benso di Cavour, a Massimo d’Azeglio a Lamarmora, eccetera. Non c’è ragione di dubitare del liberalismo di Cavour, che forse su ciò era il più convinto, e anche conseguente, di tutti. In politica istituzionale era persino un poco più avanti dello Statuto di Carlo Alberto, concesso (octroyé) dall’alto l’8 febbraio 1848, che come il “vecchio liberalismo” all’articolo 3 diceva: “Al Re solo appartiene il potere esecutivo”. Configurava un assetto, che già ci sarebbe stato dopo la gloriosa rivoluzione inglese del 1689, o nella Germania da Bismarck alla caduta degli Hoenzollern del 1918, in cui il Re non sta nello schema per cui “regna ma non governa”, bensì “regna” anche se non legifera (se non firmando le leggi, che sono del potere legislativo, parlamentare). Ma Cavour fa sempre gran conto del parlamento, pur a suffragio maschile molto ristretto ovunque, per cui a “costituzione materiale” introduce la prassi per cui se il governo “va sotto” nel suo fare proposte in parlamento, si dimette, anche se poi a farne un altro ci penserà il re.
Cavour era liberale in tutto, dal primato dell’economia privatistica basata sul “libero scambio” a quello del parlamento, ma non defletteva minimamente sul suo vedere come solo Stato accettabile quello del suo re. Prima era sabaudo e poi per la liberazione nazionale. Nel binomio “Italia e Vittorio Emanuele” per lui veniva prima Vittorio Emanele, non come persona, che sia come uomo di alta nobiltà che come grande politico poteva pure contraddire o forzare, ma perché per lui era la forte monarchia la base del forte Stato. Mentre i repubblicani, cercando un forte Stato europeo che aiutasse l’Italia, in Francia, potevano solo puntare sulla Repubblica, per lui la trasformazione della Repubblica in Impero clericale borghese in senso moderno fu manna dal cielo. Del resto lo fu pure per il notevole pensatore reazionario spagnolo Donoso Cortés, poi ispiratore dell’ultrareazionario Sillabo (1864) di Pio IX e legatissimo a Napoleone III[17], ed al papa.
Ma qui quel che volevo enfatizzare era il monarchismo come scelta non di secondo, ma di primo livello. Cavour nel 1847 aveva fondato con Cesare Balbo il giornale “Il Risorgimento”. Balbo si trovò a essere capo del governo quando, sull’onda della rivoluzione democratico repubblicana esplosa a Parigi nel febbraio 1848, esplose pure in Italia il 1848 con le famose cinque giornate di Milano del marzo 1848. Allora Cavour scrisse il famoso articolo che indusse lo Stato sabaudo a attraversare il Ticino entrando in guerra con gli austriaci per soccorrere i lombardi in rivolta. La posizione, certo con liberalismo più moderato, ma sincrono con quella di Cavour, fu chiarita da Cesare Balbo, come emerge in una pagina di Diario di un economista britannico in Italia, Senior, che riferisce un colloquio con Cesare Balbo: “’La guerra [la prima d’indipendenza, dal marzo 1848], io [Senior] chiesi, poteva essere evitata?’
‘No’, rispose; ‘nessuno lo sa meglio di me, poiché fui io a dichiararla, e sapevo allora quali pericoli portasse con sé.
Allora io ero primo ministro da quattro giorni. Lo Statuto porta la data dell’8 marzo 1848: fui nominato ministro il 16. Il 20 noi sapemmo della insurrezione di Milano e D’Adda venne ad implorare il nostro aiuto, dicendo che, in caso di nostro rifiuto, essi avevano ordine di rivolgersi a Parigi [allora democratico repubblicana]. Io vidi chiaramente che la peggior conseguenza del nostro rifiuto non sarebbe stato l’intervento francese, per dannoso che potesse essere, – ma che, in una settimana, avremmo avuto una repubblica a Milano, una a Venezia, una certissima a Genova e molto probabilmente a Torino”.[18]
Il secondo modo di essere monarchico dei patrioti del Risorgimento è quello di coloro che per operare a favore dell’Unità d’Italia accettarono la monarchia sabauda. Questo era proprio l’approccio di quelli come Urbano Rattazzi, che certo erano tanti, ed espressione di una “sinistra” di governo molto pragmatica, per cui il compromesso era un modo quasi naturale di pensare. Si può pure vedervi “l’altro Piemonte”, lo spirito del Piemonte Orientale, anche se denota pure un modo di approcciarsi alle cose in cui il compromesso diventa vizio e religione. Tuttavia, al di là dello scatto moralistico che ci può prendere di fronte a un comportamente così “prosaico” in modo disarmante, va pure detto che l’aver compreso questo quasi alle origini del Risorgimento italiano, come fece Rattazzi, certo non configura un politico di poco conto, ma l’opposto.
Il terzo modo di essere monarchico dei patrioti del Risorgimento è quello dei repubblicani e radicali (da Garibaldi a Felice Cavallotti), che pure avendo non solo un’ancestrale simpatia per talune repubbliche, ma un fiero spirito repubblicano, si fecero, per la vita, monarchici per amore dell’unità della patria e dello Stato nazionale liberale e aperto alla democrazia. Il più illustre tra questi tipi è stato Garibaldi, che Isnenghi alcuni anni fa ha raccontato come il “rivoluzionario disciplinato”, ossia desideroso di repubblica, democrazia e presto pure socialismo, ma cosciente di dover operare in simbiosi col re d’Italia per “fare l’Italia”[19].
Ma quest’articolazione delle posizioni non va intesa come un limite del Risorgimento, ma come il quadro necessariamente vario e articolato, niente affatto conformista, da cui sorse l’Italia unita e liberale. Allora le diverse anime del Risorgimento, pur divergendo talora drammaticamente, seppero pure unirsi dialetticamente, quando si doveva, in molti momenti decisivi, costituendo le fondamente di un grande Stato che, nonostante tanti “folli voli” successivi di imperialisti allo sbando e di picconatori dell’unità nazionale, è “in piedi”.
di Franco Livorsi
- Corrado Malandrino Urbano Rattazzi. Una biografia politica, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 2024, pagg. 675. ↑
- C. MALANDRINO, Rattazzi nel pensiero politico del Risorgimento, in: “L’altro Piemonte e l’Italia nell’età di Urbano Rattazzi, a cura di R. Balduzzi, R, Ghiringhelli, C. Malandrino (a cura), Milano, Giuffrè, 2009, pp. 1-9; I discorsi di Urbano Rattazzi alla Camera subalpina (1848-1860). Unità nazionale, costituzione e laicità dello Stato, “temperato progresso”, “Il pensiero politico”, a. XVII, n. 2, 2014, pp. 188-223; Lineamenti del pensiero politico di Urbano Rattazzi, Giuffrè, 2014. Ho qui citato solo i suoi maggiori contributi in proposito. ↑
- F. LIVORSI, Urbano Rattazzi, in: AA.VV., “Il Parlamento italiano. I. 1861-1865. L’unificazione italiana”, Milano, CEI, 1988, pp. 324-341; La discussione sugli eccidi proletari nell’età giolittiana, vol. VII, 1988, pp. 484-486; Angelo Tasca, vol. X, 1988, pp. 270-273; Luigi Facta, ivi, pp. 345-361; Leone Ginzburg, ivi, pp. 564-565, ↑
- G. QUAZZA, La Sinistra e il Risorgimento. Urbano Rattazzi, “Critica Sociale”, n. 15, 1955, pp. 236-239; n. 16-17, 1955, pp. 252-255; n. 18, pp. 268-271. ↑
- U. RATTAZZI, Discorsi parlamentari, a cura di G. Scovazzi, Roma, Eredi Botta, 1876-1880, 8 voll. ↑
- Epistolario di Urbano Rattazzi, a cura di R. Roccia, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma, Gangemi, 2009, I; II, 2013; III, Rubbettino, 2018. ↑
- AA.VV., Libertà e Stato nel 1848-49. Idee politiche e costituzionali”, Dipartimento Giuridico Politico dell’Università degli studi di Milano, Sezione di “Storia delle dottrine politiche” Giuffré, 2001. ↑
- Il testo comparve a Milano negli Oscar Mondadori nel 2001. Il nostro lavoro era però tirato per la giacca da prefatori “federalisti lombardi”, tra i quali un notevole amico studioso dell’elitismo e del federalismo come E. A. Albertoni, ma ai testi dei curatori credo che non possa essere data alcuna etichetta politica. ↑
- F. LIVORSI, République et types de représentation dans la théorie politique de Giuseppe Mazzini, in: “Le concept de représentation dans la pensée politique. Actes du colloque d’Aix-en-Provence, Presses Universitaires d’Aix-Marseille-PUAN, Faculté de droit et de science politique, 2003, pp. 341-359; Pensiero politico e religioso di Giuseppe Mazzini, in: L. M. BASSANI, S. B. GALLI – F. LIVORSI, Da Platone a Rawls. Lineamenti di storia del pensiero politico, Torino, Giappichelli, 2012, pp. 315-328. ↑
- Dialogo con Corrado Malandrino, autore della prima compiuta e ampia biografia di un alessandrino che con Cavour e altri ha veramente fatto l’Italia: Urbano Rattazzi, “Città Futura on line”, 4 marzo 2025. ↑
- M. L. RATTAZZI, Rattazzi et son temps. Documents inédits, correspondance, souvenirs intimes, Paris, E. Dentu, 1881. ↑
- L’opera di Galante Garrone fu edita da Einaudi nel 1972. ↑
- C. PISACANE, Saggio sulla rivoluzione (1856, ma 1860), a cura di Giaime Pintor, Torino, Einaudi, 1955. ↑
- A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi. ↑
- L’opera cit. del Romeo fu edita per la prima volta a Bari nel 1958-1959. ↑
- Il piccolo prezioso libro fu pubblicato a Caltanissetta dalla Tipografia S. Di Marco nel 1934, e da esso attingo tutte le notizie. Ci saranno certo altri libri del genere, in cui i nomi che m’interessano ci saranno, ma io conosco solo questo. ↑
- C. SCHMITT, Donoso Cortés (1950), a cura di P. Dal Santo, Piccola Biblioteca Adelphi, 1996. ↑
- N. W. SENIOR, L’Italia dopo il 1848. Colloqui con uomini politici e personaggi eminenti italiani, a cura di A. Omodeo, Laterza, 1936, pp. 36-39. ↑
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M. ISNENGHI, Garibaldi fu ferito. Storia di un rivoluzionario disciplinato, Roma, Donzelli, 2007. ↑
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