Lucio Caracciolo e il “danno americano”

 

Questa volta proviamo, con Lucio Caracciolo e il suo bel pezzo uscito da poco su “Repubblica” (1), a capire cosa sta succedendo negli States, centrali in tutto, checchè se ne dica. Abbiamo tutti nella memoria l’insofferenza per le soap opera made in Usa di un meraviglioso (allora) Nanni Moretti, quelle che erano, secondo lui, destinate a stare su “ovaie e   gabbasisi” delle italiane e degli italiani ancora per pochi anni…. Perché la gente ha bisogno di aria nuova, è creativa, ama i contenuti e odia il conformismo (cito a memoria da una delle tante interviste di Nanni).

Bene, anzi male. Ciò che è successo da allora, all’incirca dalla metà degli anni Novanta è esattamente l’opposto. Il “conformismo” è chic, le serate da sera vicino alle piscine e in villoni del Rinascimento con tanto di ricevimenti sontuosi, valletti e cameriere sono il “must”. Il resto è da “relitti del Sessantotto”. Di lì lo sdoganamento delle soap opera de noantri, oppure il rilancio di spettacoli di dubbio gusto con Gerry Calà e soubrettine scollacciate. Si scoprì che quel tipo di proposta “piaceva” che il “nazional-popolare” era la scelta giusta e che tutta una serie di riti defunti (dalle processioni di paese, alle mangiate luculliane da Zi’ Teresa, fino al “neomelodico” in musica….) erano la chiave per prendersi il cervello e le abitudini dei cittadini. Allora erano Reagan e Berlusconi a fare da modello, da apripista danarosi e ben organizzati con tanto di televisioni private, poi diventate pubblicissime, con poche parole d’ordine di sicuro effetto. Si abbatterono così le socialdemocrazie in Europa e in Israele, si fece in modo che l’ “american way of life” ancor più che negli anni Cinquanta del Novecento, tornasse al centro dell’interesse. “Si fa così e basta ….e se non hai i soldi per macchina di lusso, yacht, case vacanze “in”, tre o quattro Rolex… stai a casa”.   Una dottrina dell’ “immagine di forza” o, se volete della “forza dell’immagine” che aveva una sua naturale declinazione nel crescente potere delle multinazionali, del WTO e di tutti i centri finanziari e bancari del mondo. Una forte crescita che doveva portare a termine il collasso in corso dell’Unione Sovietica degli anni Ottanta (sempre dello scorso secolo) ancora riottosa al nuovo, alla “new way of life”. Le infiltrazioni tramite repubbliche baltiche, Polonia, un po’ qui e un po’ là nell’impero del colbacco, imperniate su trasmissioni popolari alla televisione di Stato (quasi obbligatori, specie se “occidentali”, per dimostrare che “non si era antiquati”, ecc. riuscirono perfettamente. Così l’opera di smantellamento dal 1989 a tutto il 1994 fu un susseguirsi di problemi e contraddizioni da affrontare per i politici (russi o russo-collegati) coraggiosi che tentavano di mettere insieme i pezzi del puzzle. Nel frattempo si ebbe una crescita esponenziale del potere dei petrodollari, con i vari sceicchi del Medio Oriente (specie della penisola arabica) che potevano finalmente sventolare ai quattro venti le loro ricchezze. Le città – disneyland della costa orientale dell’Arabia ne sono la diretta conseguenza. Con nuovi accordi con americani, un tempo avversati e ormai – nonostante bin Laden e famiglia – diventati parte di un grande gioco. Quello dei lustrini, degli spritz e del potere assoluto. Israele, piano piano, si è integrato anch’esso nell’ingranaggio, forte degli stretti legami con gli Stati Uniti, stesso discorso per la Giordania, alle prese con l’estremismo di “Settembre Nero” fin dal 1970. Una operazione che ha visto più primavere arabe in opera e, talvolta riflussi difficili da interpretare. Una di queste risposte forti, sostanzialmente moderniste, con un occhio all’Occidente, fu quella che portò alla defemnestrazione dello shah Pahlevi, solo che l’antidoto si dimostro’ peggiore del male. E così ebbe inizio l’era Khomeinista.  Sono passati più di quarant’anni  e non è cambiato molto. Stesse manifestazioni fatte per le recriminazioni di sempre, libertà di spostamento, libertà di vita e di scelta, solo con protagonisti più giovani, i figli o i nipoti di quegli stessi che si rivoltarono e tentarono di rivoltarsi ai Pahlevi e alla Savak.

Gli iraniani, sia all’interno del Paese che all’Estero , mantengono un aplomb  particolare, un riserbo innato, un amore per lo studio, per le lingue, per la musica e per tutto ciò che è arte e “bellezza”. Un popolo colto e con diecimila anni di storia, periodicamente invischiato in guerre assurde (due milioni di morti in quella lunghissima contro l’Irak) e perennemente alle prese con vicini non sempre amichevoli. Parlate con una o uno di loro…vi diranno… “ma perché ce l’avete con noi?”, “ma lo sapete che a Teheran c’è una delle più grandi comunità di religione ebraica del Medio Oriente? Lo sapete? E poi, entrando in confidenza….,  “ma lo sapete che India e Pakistan, nostri vicini hanno qualche centinaio di bombe atomiche ciascuno? E che nel dirimpettaio Stato dell’Arabia Saudita, sono “di stanza naturale” una sessantina di bombe termonucleari con tanto di addetti americani ai caricamenti e alle particolari aeromobili? “ “Lo sapete?”.  Pensiamoci su prima di portare una guerra totale su un territorio immenso, quattro volte l’Italia, di quasi cento milioni di abitanti. Pensiamoci.  Ed ora con Lucio Caracciolo torniamo a noi ed entriamo nelle contraddizioni che nessuno riesce o vuole mascherare. ….

Il danno americano   (1)

Con l’attacco all’Iran Donald Trump avrà forse inflitto gravi danni ai siti atomici persiani ma ha certamente danneggiato la residua credibilità degli Stati Uniti nel mondo. Insieme, ha innescato una crisi nella sua opinione pubblica, da cui è stato votato perché si occupasse del suo paese invece di dedicarsi ad abbattere mostri lontani. E ha palesato le faglie nella sua stessa amministrazione e negli apparati dello Stato, non proprio unanimi nel plaudire alla sua scelta e nel valutarne le conseguenze. Infine, ciò che lui stesso spaccia in privato come “poker strategico”, ovvero l’alone di permanente incertezza creato intorno alle sue intenzioni e che pare molto divertirlo, si sta rovesciando contro il suo brillante ideatore e il paese che deve governare.

Il bluff vale se raro.

Amici e nemici hanno preso nota che il presidente degli Stati Uniti può decretare due settimane di riflessione sul da farsi, riaprire a un negoziato con l’Iran, salvo lanciare due giorni dopo portentosi missili sul bersaglio grosso, con esiti che il suo stesso Stato maggiore non è in grado di stabilire. Chi volesse stipulare un qualsiasi accordo con questa amministrazione sa che un momento dopo la firma quell’inchiostro potrebbe svelarsi simpatico.

L’impressione diffusa è che Trump sia stato agilmente usato da Netanyahu. Il gregario guida il capo? Quale autorevolezza può esibire il numero uno mondiale se si fa dirigere da una potenza regionale? O anche se solo dà l’impressione di esserlo? Della Cina, che per questa America è ossessione strategica, a Israele interessa poco. Resta da capire perché l’Iran sia considerato a Washington degno di dirottare risorse e attenzione dalla sfida con Pechino.

Certo, l’intimità della relazione israelo-americana è senza pari. Di qui a stabilire che siano lo stesso Stato, la stessa cosa, con i medesimi interessi, moltissimo ne corre. Né in passato sono mancati gli scontri non solo diplomatici fra Washington e Gerusalemme — indimenticato l’attacco israeliano alla USS Liberty l’8 giugno 1967, che provocò 34 vittime. Preistoria per il pubblico, non per apparati dalla memoria elefantina.

Oggi Bibi pare prendere l’amico americano per mano, a indicargli il cammino da percorrere insieme. Nel legittimo interesse del suo paese. Ma qual è l’interesse degli Stati Uniti a invischiarsi nell’ennesima partita mediorientale, quasi le lezioni di Afghanistan e Iraq non fossero sufficienti? Peraltro, contro un avversario di ben altra dimensione.

Teheran è chiamata a scegliere fra due opzioni. La prima è rilanciare con tutte le risorse che restano. In vista di una lunga guerra di logoramento, contando sull’indisponibilità americana a impantanarsi nella regione e sull’impossibilità per Israele di combattere a tempo indeterminato sui fronti che ha deciso di aprire. Scelta molto rischiosa, non impossibile. La seconda è limitare la rappresaglia per riaprire al negoziato, sia pure da basi sicuramente più fragili. Logica. Troppo logica? Ma è su questo esito che Trump scommette.

E se invece il regime crollasse? Possibile, anche se l’offensiva israelo-americana sembra rinsaldare l’unità nazionale. Riflesso patriottico. Ma soprattutto, chi potrebbe installarsi sul trono che fu dello scià? E che legittimità avrebbe se la sua ascesa derivasse dalla vittoria di chi ha aggredito il suo paese?

Mentre ci interroghiamo sul famoso regime change che tanti danni addusse agli americani e ad altri occidentali — tra cui noi — in precedenti tentativi di imporlo, dobbiamo prendere atto che il cambio di regime sta finora investendo chi vorrebbe promuoverlo altrove. Lo sconvolgimento che sta minando i regimi di Stati Uniti e Israele è sotto i nostri occhi. Con tutto il rispetto per i persiani, queste derive ci riguardano molto più da vicino.

O dovrebbero riguardarci, se non fossimo affogati nel nostro provincialismo, coraggiosamente denunciato dal ministro Crosetto nel recente discorso di Padova, raro caso di adesione al principio di realtà oggi sommerso dalle propagande. Prima usciremo dall’illusione di essere immuni dalla rivoluzione mondiale in corso, meglio sarà per noi e i nostri discendenti. Se non è già troppo tardi.

Immagine di lancio: Rene’ Magritte: La via di Damasco.

.1. https://www.repubblica.it/commenti/2025/06/23/news/america_trump_guerra_iran_caracciolo-424685683/

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