di Vincenzo Guzzo
Un tema immenso quello dell’accoglienza di chi ha bisogno che può essere affrontato anche nel confronto con il Mito che trasfigura il reale, ma che stimola la riflessione e la presa di coscienza. Tra i molti miti a cui poter attingere ne ho scelti in tutto quattro: due di tipo classico, della tradizione greco-latina, e due che si richiamano alle religioni monoteiste del Libro. Chi considera come verità monolitiche i contenuti del proprio Libro sacro di solito ha grandi difficoltà a considerare mito ciò che viene vissuto come verità inconfutabile in cui credere a spada tratta, ma, se si considera che i miti sono stati per le religioni politeiste racconti sacri aperti, duttili e strumenti di conoscenza dell’anima/psiche, questa caratteristica rivela un dato che da circa due secoli viene studiato e osservato con attenzione e che si va sempre più fortificando in ambito di conoscenza oltre che di ricerca psicologica. Pertanto sono oggetti di osservazione e di studio anche gli innumerevoli racconti sacri dei testi delle religioni del Libro che rivelano la loro originale natura mitica e che propongono letture ermeneutiche importanti anche in ambito di conoscenza della psiche collettiva e individuale. Parlerò di miti che rimandano alla qualità dell’accoglienza, confrontandoli con le più varie sollecitazioni che ci coinvolgono, oggi, in ambito Mediterraneo, ma anche oltre, lungo le rotte di milioni di disperati in cerca di sopravvivenza, di affetti, di speranze e delle più varie occasioni di rinascita. Rifletteremo sulle diversità ma anche sulle similitudini tra i valori contenuti nei miti che esporrò e quel che riscontriamo oggi sulla disponibilità all’accoglienza e alla solidarietà.
Cominciamo con un mito di prima grandezza: Odisseo e i Feaci (nell’Odissea di Omero). In grande sintesi, una fanciulla chiamata Nausicaa, figlia di Alcinoo re dei Feaci, ispirata dalla dea Athena, si reca con le ancelle in prossimità del mare, alla foce di un corso d’acqua dolce, per pulire i panni e ci si accorge che sulla riva vi è un naufrago dal penoso aspetto. Nausicaa è l’unica ad avvicinarsi e a parlare con lo sconosciuto e lo soccorre invitandolo anche alla sua reggia e gli raccomanda, per prima cosa, di rendere omaggio ad Arete, sua madre, la virtuosa regina di quel regno. Alla corte dei Feaci avviene la lunga confessione del reduce. Odisseo narra le sue annose vicissitudini e manifesta la necessità di raggiungere al più presto il centro della sua “ricerca”. Itaca. Anche ai re e agli eroi può essere negato di raggiungere la destinazione desiderata e può capitare di ritrovarsi del tutto indigenti. Odisseo mostrava di aver bisogno di essere salvato anche da un altro naufragio, quello interiore, di essere riconosciuto più che nel suo ruolo di eroe e di re, soprattutto nella sua condizione di uomo privo di tutto, di naufrago e nella sua vitale necessità di ritornare prima possibile nella sua terra. Alcinoo, il re, comprese e privilegiò il bisogno dell’ospite che desiderava solo porre termine ad una peregrinazione senza fine. Tutto fu pronto e venne chiesto ad Odisseo di “nominare” la sua patria. Itaca! Le navi dei Feaci, dotate di qualità soprannaturali, erano guidate solo dal pensiero, non da marinai, e in mare si orientavano da sole, conoscevano le rotte, gli approdi ed era sufficiente che venisse “nominato”, alla partenza, il luogo di destinazione. Queste navi, inoltre procedevano in una dimensione protetta da insidie perché magicamente avvolte in una coltre di nebbia e, pertanto, non potevano essere viste da nessuno. Fu predisposto un comodo giaciglio affinchè Odisseo dormisse durante il viaggio. L’eroe sprofondò subito in un sonno profondo, senza sogni, e dormì per tutta la traversata vegliato da un equipaggio d’onore, costituito dai più nobili tra i giovani Feaci. Appena giunti ad Itaca, Odisseo ancora addormentato, venne adagiato con ogni delicatezza in luogo protetto, assieme ai doni ricevuti. Non solo accoglienza ma anche scorta d’onore e ricchi doni non al re ma al naufrago, una condizione diametralmente opposta rispetto a quella dei barconi dei disperati dei nostri giorni in mano a ciniche, avide ed assassine organizzazioni e a scafisti inetti e senza scrupoli. Quello dei Feaci, ci appare come un mitico regno connesso al sacro, fuori dal tempo ordinario e dal nostro in particolare, un regno in cui brillava l’archetipo dell’accoglienza come assoluta disponibilità e concreta solidarietà, un omaggio costante a Zeus, anche se ciò, nel vasto tessuto mitico dell’Odissea, risultava odioso al potente dio del mare, Posidone, che, oltre ad Odisseo, perseguitava pure chiunque gli desse sostegno, cosa che segnò, purtroppo, anche la fine del popolo dei Feaci.
Ma non meno significativo è il mito di: Filemone e Bauci. Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta che due viandanti – nella “realtà del mito” erano Giove e Mercurio – chiedevano ospitalità, vagando tra i villaggi della Frigia, ma furono respinti da tutti tranne che da una coppia di anziani coniugi, Filemone e Bauci, che misero a disposizione la loro povera capanna, quel poco di vino di cui disponevano e l’unica oca che potevano permettersi. Giove e Mercurio si rivelarono subito e non diedero scampo a chi aveva negato loro ospitalità e ne allagarono i villaggi (una sorta di Diluvio). Risparmiarono solo la collina su cui si trovava il terreno dei due anziani sposi e su cui sorgeva la misera capanna in cui erano stati ospitati e la trasformarono in un tempio dal tetto d’oro. Filemone e Bauci, per loro desiderio e per accondiscendenza degli Dei, furono elevati al ruolo sacerdotale e, secondo i loro desiderata, morirono poi insieme e la loro unione venne eternizzata nella trasformazione in due alberi: un tiglio e una quercia, che venivano su da un unico ceppo.
Il nucleo iniziale di questo mito viene ripreso nel XVIII secolo da Goethe, nel suo Faust, ma il contesto è pesantemente mutato. Un viandante, colmo di gratitudine, torna ad incontrare i due coniugi, molto vecchi, mentre vivono ancora nell’umile capanna e ritrova lo stesso clima di accoglienza ma tutt’intorno stanno accadendo cose terribili: Faust ha ceduto l’anima al demonio, ha fatto prosciugare molti terreni per costruirvi sopra e adesso desidera fare lo stesso con il terreno su cui sorge la casa dei due vecchi. Chiede, allora, una mano a Mefistofele per mandarli via, ma il diavolo, si sa, non usa mezzi termini e annienterà col fuoco sia la capanna che le persone di Filemone e Bauci. Qui non avviene l’incontro con gli Dei ma con la tremenda dia-bolicità del presente. Quanta attualità vi è in questo mito goethiano. La caduta verticale della sacralità e di valori tradizionali, come l’accoglienza, mette in evidenza il prevalere di un uomo cinico e crudele che tende all’accumulazione fine a sé stessa e ad annichilire i valori e il mondo stesso. Guardando al mondo contemporaneo in ordine alle grandi migrazioni che investono il Mediterraneo, mi viene in mente il paragone, sino ad ora ancora valido, dell’Italia e della Grecia con Filemone e Bauci e il resto d’Europa come il resto della Frigia di quel mito!
Adesso un mito biblico di grande rilievo: Abramo e i tre Angeli. Nel libro della Genesi è narrato l’episodio di un’imprevista visita ad Abramo, “… il Signore apparve a lui (Abramo) alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui”. “Appena li vide corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò sino a terra dicendo: “Mio Signore (usa il singolare) se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo”. Abramo non conosceva quelle persone ma le identificò e le unificò nel divino. Dispose subito per loro la lavanda dei piedi e poi offrì pane, focacce, carne di vitello, panna e latte fresco per ristorarli. I misteriosi ospiti, prima di andare via, annunciarono ad Abramo che sua moglie, Sara, avrebbe avuto finalmente un figlio, come ricompensa per l’accoglienza ricevuta. Nella Bibbia, Dio “emerge”, dunque, dal prossimo. I tre viandanti, uomini o angeli o lo stesso Dio trinitario che fossero, erano comunque il prossimo di Abramo, ed erano anche “lo straniero”. Il senso che se ne ricava è che quei viandanti, quegli stranieri furono mirabilmente accolti e ospitati perché assimilati al divino. Abramo viene riconosciuto come figura di riferimento dalle tre grandi religioni monoteiste presenti nel Mediterraneo. Chi avrebbe mai potuto pensare allora che i figli di Abramo, Isacco ed Ismaele, potessero divenire i rispettivi riferimenti dei due nuovi filoni contrapposti del monoteismo abramico, quello cristiano e quello islamico? Oggi, sul piano filosofico, ci troviamo di fronte alla cosiddetta eredità abramica di cui ha parlato Jacques Derrida, L’ultimo degli ebrei, come recita, appunto, lo stesso titolo del libro di Silvia Geraci (edito da Mimesis). In questo lavoro viene riconosciuto Abramo come figura di riferimento per i tre monoteismi e come esempio di un’apertura e di un’ospitalità “senza se e senza ma”. In Abramo, come si sostiene da più parti, si manifesterebbe per la prima volta l’idea radicale di un universalismo che superi ogni esclusivismo, un universalismo dell’ospitalità verso l’altro, chiunque altro, che venga a chiederla in pace. Inoltre Silvia Geraci afferma che il punto di vista di Derrida si concentra sull’idea dell’altro e di Abramo in quanto figura, egli stesso dell’altro. Nel Genesi è scritto: “Il Signore disse ad Abramo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione”. Il comando cui Abramo risponde e ubbidisce, Lekh-lekhà (vattene, esci dal tuo paese, ecc.), lo conduce, come scrive Massimo Cacciari, a «evadere da tutto: dalla terra dei padri, dal “riso” del figlio, da sé stesso. Egli appartiene all’assenza». Va via da te stesso, gli dice Dio, va via dalle esigenze di un’identità, netta esortazione al superamento delle prerogative esclusiviste dell’ego. E poi verrà Gesù, nei Vangeli, che dirà: “Molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a Mensa con Abramo” e raccomanderà d’amare il prossimo come se stessi, compresi i nemici. Seguirà san Paolo con un universalismo dell’estraneità e dell’ospitalità, ma non dell’identità. Per Paolo, nessuno è più «uno straniero privo di cittadinanza» (Ef 2, 19-20), perché tutti i cristiani ormai sono «stranieri e pellegrini» sulla terra, come lo era pure Abramo.
Nell’Islam, tra i maggiori personaggi biblici, Abramo, è il più menzionato dopo Mosè. L’intento di Maometto è, specie all’inizio e cioè nella fase meccana, quello di porsi in continuità con i padri di Israele e con la gente del Libro per una riforma monoteistica del politeismo arabo. Già gli hanif (“cercatori di Dio”), nel contesto arabo pre-islamico, predicavano la conversione alla “religione di Abramo”. Nel Corano vi sono dichiarazioni esplicite, risalenti a questa prima fase, a favore di ebrei e cristiani: «Dite: noi crediamo in ciò che è stato rivelato a noi e in ciò che è stato rivelato a voi e il nostro e il vostro Dio non sono che uno solo» (Sura 29). Solo più tardi, a Medina, avverrà l’islamizzazione di Abramo e comparirà in maniera preponderante la figura di Ismaele. Il Corano ammonisce: «O gente del libro! Perché discutete su Abramo, mentre la Torà e il Vangelo sono stati ambedue rivelati dopo di lui? […]. Abramo non era né ebreo né cristiano. Era un hanif, dedito interamente a Dio e non era idolatra» (Sura 3, 65-67). E tuttavia Al Gazahli racconta che l’unica volta che Abramo rifiutò di ospitare un uomo, un vecchio idolatra, Dio lo rimproverò e lo mandò a rincorrere il vecchio fin nel deserto, per riportarlo a tavola. E d’altronde, è addirittura per Sodoma la prima preghiera di Abramo: benché sia andata incontro a un fallimento, questa prima preghiera per la città perduta e peccatrice è stata, come ricorda Massignon, «il sorprendente punto di partenza della vocazione ecumenica». E’ ancora Massignon qui a parlare: “Sono stato a Hebron […]. Ci tengo molto ad andare in quel luogo: c’è la tomba di Abramo, il patriarca dei credenti, ebrei, cristiani e mussulmani; egli è anche l’eroe dell’ospitalità, del diritto d’asilo. Sono convinto che esista una certa curvatura del tempo e che la fine delle civiltà le riporterà alla loro origine […]. Penso che alcuni problemi dell’umanità siano gli stessi che si porranno alla fine: in particolare il carattere sacro del diritto d’asilo e quello del rispetto dello straniero”. Shahrzad Houshmand, teologa islamica, co-fondatrice e presidente dell’associazione “Donne per la dignità”, ad un convegno tra le religioni monoteiste sull’ospitalità svoltosi nel 2010, ha affermato, tra l’altro, che c’è un detto famoso, un hadith del Profeta, che dice: “Nella casa dove non entrano gli ospiti non entrano gli angeli”. Eppure: “L’ospite è colui che ti porta la benedizione, anche la moltiplicazione del cibo: se tu condividi si moltiplica”. La tradizione islamica ci parla, inoltre, di novantanove nomi di Dio. Il nome che si avvicina di più al concetto di accoglienza è ‘Karim’, colui che è generoso e che dona. Nella mistica islamica si dice che “l’uomo realizzato è colui che si veste di tutti i nomi di Dio”, tra cui anche Karim: se Dio è stato generoso con l’essere umano, l’essere umano a sua volta deve vestirsi di questo nome, essendo generoso verso il suo prossimo, senza distinzione di razza, di lingua, di nazione e nemmeno di fede. Ciò che appare evidente, è che oggi langue all’interno della cultura monoteista, quello spirito di abbraccio universale così come Abramo lo avrebbe tramandato col suo esempio. Oggi, poi, il problema si è pesantemente spostato sul tema dell’accoglienza in seguito alle attuali disperate migrazioni verso l’Europa d’intere masse umane portatrici di ogni tipo di spiritualità (monoteista o no) e bisognose di custodire oltre che la vita anche la loro specifica identità spirituale.
Nei Vangeli, molti dei “miracoli” di Cristo avvengono in contesti in cui l’accoglienza manifesta la sua centralità, come nei casi della moltiplicazione dei pani e dei pesci e della trasformazione dell’acqua in vino. Ma qui desidero concentrarmi, per ultimo, su quell’episodio del Vangelo di Luca conosciuto come “La cena di Emmaus”. Gesù era già morto e risorto e: “… due dei discepoli erano in cammino verso un villaggio di nome Èmmaus, distante quasi sessanta stadi (undici chilometri circa) da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto… Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo”. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, Gesù continuò a camminare ma entrambi i viandanti lo chiamarono e gli dissero: «Resta con noi, perché la sera si avvicina e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando furono a tavola prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo offrì, solo in quel momento i loro occhi “videro” e alfine lo riconobbero. Ma egli sparì subito dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse il nostro cuore dentro di noi mentre egli conversava con noi lungo la via”? In questo episodio sono gli ignari discepoli che invitano il misterioso viandante a fermarsi con loro perché, avvicinandosi le tenebre, potrebbe correre rischi. Offrono spontaneamente ospitalità, rifugio, protezione senza che ne avessero ricevuto alcuna richiesta e senza pretendere nulla! L’agnizione si ha quando il viandante spezza il pane! Nel momento rituale, i gesti prevalgono, d’istinto, sul dato sapienziale e su quello coscienziale, ma combinati insieme determinano il riconoscimento.
Gli insegnamenti che vengono da tempi anche molto lontani, dai miti, dalle religioni e che riguardano contesti diversi, ci illuminano sul valore del viandante che bussa alla nostra porta o che incrocia la nostra strada. Accogliere ospiti può suscitare simultaneamente timore e disponibilità. Il verbo greco “timào” rende in pieno questi sentimenti contrastanti poiché vuol dire onorare, ma pure temere. Se ne deduce che lo straniero non sempre lo si accoglie e quando si è orientati, invece, all’ospitalità, affiora comunque un timore sia pure riverenziale oppure condizionato da vari livelli di diffidenza. In ambito mediterraneo ha prevalso e prevale ancora, sia pure tra molti irrigidimenti e troppe paure, la solidarietà.
Fenomeni migratori immensi, come quelli attuali, non sono di certo assimilabili ad uno o a pochi viandanti ma, oggi, nel cammino umano, sempre più determinante per la sopravvivenza stessa della nostra specie e dei nostri maggiori livelli di civiltà, si mostra la qualità dell’incontro e la relazione solidale. Occorre soprattutto e subito divenire costruttori di pace, occorre uno scambio armonioso tra le varie realtà umane ma anche una strategia politica ed economica che blocchi sul nascere queste, sempre meno gestibili, ondate migratorie. Ogni contesto politico istituzionale deve fare la propria parte e offrire la massima disponibilità, ciò vale anche per quegli stati da cui le migrazioni muovono e verso cui, però, devono convergere gli sforzi dei paesi economicamente più solidi. Ma anche l’associazionismo di qualità può farsi promotore di iniziative che connettano i valori condivisi in ambito mediterraneo avendo cura però di garantire che tutti insieme ci si muova sul pieno del rispetto dell’altrui punto di vista e delle credenze religiose diverse dalla propria. Una superiore visione laica (e non laicista) è l’unica a poter garantire questo confronto. Non vi sono altri esempi di rilievo nella storia. Il nostro Mediterraneo, che è stato anche uno straordinario paradigma di scambi culturali ed economici, deve recuperare i valori mitici dell’accoglienza e della solidarietà per non rappresentare mai più una tremenda “fossa comune” per migliaia di disperati e un luogo di arresto, o peggio di ulteriore regressione, per le civiltà mediterranee e per il cammino umano nel suo complesso.
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