Riusciranno i nostri amici della sinistra a ritrovare l’anima “scomparsa” nelle “urne” tra il dicembre 2016 e il giugno 2018?

Dal referendum del 2016 alle elezioni politiche del marzo 2018, alle elezioni amministrative parziali recenti e dei giorni scorsi le sconfitte del PD sono state così gravi, e soprattutto continue, da indurre troppi a metterne in discussione persino l’esistenza. Vorrei perciò provare a concentrarmi su ciò che mi pare urgente fare per uscire dalla palude. Dato quest’approccio incentrato sul “che fare?”, proverò a rinunciare ad ogni discorso volto a individuare dei “colpevoli”: non per “assolvere a priori” Renzi, o i governi del PD dal 2013 al 2017, o gli scissionisti “di sinistra” di Liberi e Uguali, o chiunque altro, ma perché ora si tratta di vedere come sconfiggere il “male oscuro” della sinistra; e, ancor più, si tratta di vedere se è possibile impedire la vittoria a valanga ed epocale  – più che “annunciata” – di una nuova destra chiaramente nazionalista (sovranista) e xenofoba, oltre che populista.

   In termini “pratici” mi sembra di cogliere due esigenze fondamentali: l’una sul problema del governare e l’altra, connessa, sul rapporto tra forze politiche e soprattutto all’interno del PD (e dintorni). In realtà le due istanze sono intrecciate. In proposito bisogna tener presente un punto che a me pare quasi un principio politologico (ossia una “legge” della politica quantomeno democratica): non c’è politica “democratica” senza politica delle alleanze. Un partito rivoluzionario (o radicalmente riformatore), può anche decidere di essere “contro tutti gli altri”, come i comunisti degli anni Venti del Novecento, pur tra diverse oscillazioni tattiche; o come il Movimento Cinque Stelle com’era stato inteso da Gianroberto Casaleggio (e, ufficialmente, sino alle elezioni politiche del 4 marzo 2018). Un partito “antisistema” può, insomma, praticare una linea di “splendido isolamento” (come la chiamava Bordiga, che secondo me potrebbe aver influenzato Gianroberto Casaleggio “sulla tattica”), nella presunzione che proprio questa diversità assoluta possa rapidamente polarizzare, in fasi di grande crisi storica, il consenso delle grandi masse a suo favore, attestandone la pretesa purezza (alias la verginità etico-politica). Ma un partito che, invece, sia intrasistemico, democratico e riformatore, con vocazione “di governo”, non può mai permettersi – se non suo malgrado – lo “splendido isolamento” senza diventare sempre meno rilevante, e per ciò stesso sempre meno votato.  Di conseguenza un partito che accetti la democrazia rappresentativa o parlamentare senza se e senza ma – quantomeno sinché la storia non produrrà niente di meglio su larga scala – non può fare a meno di avere uno o più “partiti” alleati che siano decisivi nel sistema complessivo (a meno che il sistema non sia bipolare per legge, con due grandi partiti contendenti, almeno al secondo turno elettorale, come – contro il vecchio trasformismo italico – io mi auguro con tutto il cuore da quarant’anni, tanto da considerare una sciagura nazionale la sconfitta del sì al referendum del dicembre 2016). Ora noi siamo – finché durerà – in un sistema politico che ha quattro partiti importanti: Il M5S, la Lega, Forza Italia e il PD. (Più complesso è il loro riferimento alle forze sociali coeve, pur da vagliare in analisi più vaste e complesse).

    Ciò posto il PD – se voleva o vuole contare qualcosa, e non veder diminuire inesorabilmente il suo “capitale” di voti, ma semmai aumentarlo – con qualcuno dei “tre” indicati si deve o dovrà alleare, o “cercare” di allearsi, “per forza”. Non poteva e non può allearsi con Salvini, “per la contraddizion che no’l consente”. Infatti la Lega è un impetuoso movimento che fa in Italia quello che Marine Le Pen ha invano cercato di fare in Francia; quel che Trump cerca di fare in America e Putin in Russia, e così via. La Lega “di Salvini” – se non è un movimento fascista – è quantomeno post-fascista: è il fascismo senza fascismo, con la destra nazionalista e populista al comando, che il neofascismo meno rozzo sognava già dopo il ’45. Ripropone la miscela esplosiva tra nazionalismo (“sovranismo”), populismo e personalizzazione estrema della leadership centrale che del fascismo era stata propria (anche senza violenza politica né scioglimento del parlamento). Il PD dunque è alternativo alla Lega, con cui non potrebbe allearsi senza snaturarsi in cinque minuti. Ma “in teoria” potrebbe allearsi o con il M5S o con Forza Italia.

   Ora la politica, l’età e anche un certo realismo un po’ spiccio (che mi è sempre piaciuto o parso fatale), mi hanno insegnato un forte disincanto. Posso pure immaginare un PD che treschi con Forza Italia, che è poi o Berlusconi o il “berlusconismo” (il famoso “renzusconismo”: chiunque l’incarni). E taluni possono pure ritenere che Forza Italia e Berlusconi siano comunque meglio del M5S, di Grillo, di Di Maio e compagnia bella. Io però dissento da loro, per tre ragioni. La prima è che l’egemonia di Salvini sul centrodestra è ormai consolidata e irreversibile. Con la Lega che i sondaggi danno al 30%, e con il suo leader Salvini che pur avendo il 17% in base ai voti del 4 marzo, al governo opera come avesse il 60%; con un Berlusconi ultraottantenne e così via, un PD – anche se per assurdo fosse unito in modo stalinista – da Forza Italia potrà ottenere soccorsi irrilevanti, o da essa potrà rosicchiare ben poco. Anche perché in politica due debolezze non hanno mai fatto una forza.

   Inoltre – lo ribadisco – anche se fosse possibile io sarei contrario. Posso benissimo riconoscere che rappresentare Berlusconi come il Male Assoluto sia stato un grave errore (che per altro io non ho mai commesso). Ma anche nella più ottimistica delle visioni, Forza Italia è il Centro tendente a destra. L’idea di prendere un Partito come il PD, che già di suo da anni tende al centro, soprattutto dopo l’infausta uscita di Bersani e compagni, e di farlo alleare col Centro aperto a destra di Berlusconi, è irrealistica (come si è visto); ma comunque io la contrasterei. Sarebbe il vero e solo modo di morire democristiani, ossia di rifare il Grande Centro. Non mi scandalizza, e credo che piacerebbe pure al politologo un po’ conservatore, ma che stimo, Angelo Panebianco (come emerge da molti suoi articoli sul “Corriere della sera” degli ultimi mesi). Panebianco connette oggi la crisi della democrazia italiana proprio al venir meno di un Grande Centro. Il “Grande Centro”, col supporto dei socialisti, certo ha pur fatto il Welfare State non certo irrilevante che ci ritroviamo (lo riconosco volentieri). E tuttavia i Grande Centro, proprio come forza moderata che doveva e deve integrare al fianco, e dentro di sé, o la Destra oppure la Sinistra, e possibilmente entrambe, come forze di complemento (piegandole al gioco “moderato”, o conservatore, che gli è proprio), è anche stato il grande corruttore della politica italiana, come chiunque voglia mettere insieme posizioni inconciliabili, il diavolo e l’acqua santa, finisce per essere sempre. Anche perché qui non siamo protestanti tedeschi, e se andiamo con lo zoppo cominciamo subito a zoppicare. Il buon esempio, come il cattivo esempio, viene sempre dall’alto. Il trasformismo, cioè il mettere insieme le forze che dovrebbero essere alternative (moderati e riformatori, conservatori e progressisti), ha sì realizzato importanti riforme e forme avanzate di Welfare State, dai tempi di Giovanni Giolitti a quelli di Aldo Moro e oltre, ma al tempo stesso ha snaturato sia la Sinistra che il Centro stesso. Così a un certo punto i cattolici democratici non furono più cattolici se non “per modo di dire”, e i socialisti non furono più socialisti se non allo stesso modo (e capitò un po’ pure ai comunisti, quando tentarono il compromesso storico con la Democrazia Cristiana, ma forse con molti “aiutini” parlamentari dal ’68 in poi). Il trasformismo, l’alleanza tra il diavolo e l’acqua santa, chiama sempre tale corruzione, perché fa venir meno, in modo aperto o dissimulato, il ruolo di vigilanza e denuncia di chi sta fuori rispetto a chi sta dentro l’area di governo (o allargando troppo il governo oppure lasciandosi compromettere da esso). E la prima forza a snaturarsi è sempre il socio di minoranza. Andreotti aveva ragione a dire che il potere logora chi non ce l’ha. Ma si potrebbe aggiungere che il potere corrompe chi ce l’ha, soprattutto se la forza che dovrebbe opporvisi gli tiene il sacco, o come alleato aperto o come “aspirante alleato”. Poi il malcostume pubblico dilaga nel privato. E viceversa naturalmente, perché neppure chi non paga le tasse, non paga l’IVA o fa lavorare “in nero” è “per bene” (anche se tutte le mattine strilla contro i politici, che sarebbero “tutti uguali”). Il problema non si risolve con le manette, ma facendo trionfare la democrazia dell’alternativa, in cui maggioranza e opposizione si rispettano, ma restando avversari irriducibili, e non alleati o “sopra banco” o “sotto banco”. In una reale democrazia chi governa deve poter governare, senza ricatti dell’opposizione e tra una legislatura e l’altra; e chi si oppone deve opporsi e non fare “il compare”.

   Ma anche se ciò paresse astratto (e non lo credo), lo strappare alleati di un centro orientato a destra a Salvini, oggi è utopistico. Forza Italia è ormai area d’influenza della Lega, nonostante qualche innocuo scatto d’orgoglio.

   Questo contesto avrebbe reso, renderebbe e renderà indispensabile il dialogo tra PD e M5S. Ben inteso, un vero dialogo, una vera alleanza, non si fanno come facevano i socialisti coi democristiani dal 1963 al 1994 (e sotto banco un po’ pure i comunisti dal 1968 in poi, e soprattutto tra 1976 e 1979, quando resero possibile un monocolore di Andreotti, per un paio d’anni preteso inizio del compromesso storico). Un vero dialogo non è essere succube dell’alleato o dell’”alleando”. La politica delle alleanze è efficace solo se lasci sempre aperta la possibilità di scontro con l’alleato. Socialdemocratici e socialisti l’hanno dimenticato troppo spesso o col PCI o con la DC, e l’hanno pagata. Anche il M5S corre ora – con la Lega di Salvini, che pure in parlamento ha la metà dei voti (ma nei sondaggi ora sono pari) – lo stesso rischio. Questo è anzi un classico caso di egemonia nel senso gramsciano, in cui la maggior capacità di dirigere suscitando consenso premia chi ce l’ha, anche se parta svantaggiato.

    Comunque se non si è amici di alcuna “forza forte”, se si resta senza alleati, almeno in un’ottica democratica ci si condanna necessariamente all’irrilevanza politica. E quando le masse sentono che una forza non pesa più nel grande gioco, la “tradiscono”. Tanto più in un mondo con partiti fantasmatici come quello d’oggi. E’ stato un errore non provare almeno a trattare col M5S quando il governo M5S-Lega era parso bloccato dal “niet” di Forza Italia (“niet” che Berlusconi ebbe infine la dabbenaggine di togliere, forse temendo per la sua “ditta”). E ora si dovrebbe rimediare facendo quella che è la politica del cuneo, in cui la vecchia sinistra era maestra. Si tratta di porre un cuneo tra M5Se Lega, se non “non c’è gioco”, ma solo visione del gioco. Ad esempio bisognava, e bisogna, essere disponibili, come PD, all’alleanza col M5S se il M5S romperà con la Lega; e bisogna valorizzare ogni atto di rottura o di distinzione – ad esempio come quelli del presidente della Camera, Fico – tra M5S e Lega. Naturalmente mettendo sempre al primo posto i problemi della povera gente, italiana e straniera nella nostra patria. Bisogna dire, tutti i giorni, che il M5S si sta rovinando a causa della Lega, ed enfatizzare ogni differenza, dando una sponda a chi si oppone al “salvinismo”, che è la destra populista col vento della storia in poppa: ossia è il vero avversario da battere, e non solo con i “lamenti” verso le sortite più o meno xenofobe, anche se queste siano da condannare in modo fermissimo. Ma il vero e solo modo di battere Salvini consiste nell’indurre l’alleato M5S a rompere con lui per allearsi col PD (lottando insomma senza quartiere contro il “salvinismo”, ma facendo un’opposizione costruttiva, con fini di conciliazione, nei confronti del M5S).

   In alternativa – lo ribadisco – per il PD, c’è solo il puntare all’alleanza neocentrista con Forza Italia. Che è poi quello che prima delle elezioni politiche era stato detto mille volte, dal “Fatto quotidiano”, “renzusconismo”. Ma se si pensa di farlo in modo sotterraneo, con la logica del “Si fa, ma non si dice”, si sbaglia di grosso. Fare le cose senza dirlo è infantilismo politico. In politica le cose che contano si gridano sempre dai tetti.  In ogni caso io mi permetto di ritenere che il M5S, per il mondo della sinistra, sia meglio (meno peggio) di Forza Italia.

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   Il tutto, però, richiede un PD che possa avere una linea, e che quindi smetta di essere un coacervo di spinte centrifughe contrastanti. Al proposito vorrei partire dai problemi più elementari. A livello di forma-partito della sinistra, ovviamente a partire praticamente dal PD, secondo me non abbiamo bisogno di “sfasciacarrozze”, bensì di sarti (alias “tessitori”), esperti soprattutto nell’arte del rammendo, molto bravi a cucire quelle toppe che rimettevano insieme i pantaloni lacerati, come facevano quasi tutte le nostre mamme nel mio Borgo San Paolo natio a Torino quando ero un bimbo di sei o sette anni, e la seconda guerra mondiale era finita, ma solo da pochi anni. Detto più “politicamente”, qui ci vuole una dirigenza capace di unire, di rimettere insieme i cocci, e non di spezzare di nuovo la giara. Non abbiamo bisogno di superatori del PD. Su ciò dissento da Calenda (e anche da Prodi). Calenda certo sarà – ed anzi è certo stato – un eccellente ministro dello Sviluppo Economico, e per quello che ha cercato di fare per l’Ilva di Taranto, e per superare molte crisi aziendali, meriterebbe un monumento: ma come leader politico mi pare una frana. Diciamola tutta: la sua proposta politica mi sembra totalmente sbagliata. Mi sembra persino un pochino sgangherata. Saranno cambiati i tempi, sarò inattuale, ma uno non può entrare in un Partito e dopo tre mesi caldeggiarne lo scioglimento o il “superamento”. Oltre a tutto il fatto che la filiera che dal PCI ha portato al Partito Democratico della Sinistra, poi ai Democratici di Sinistra e quindi – previa unificazione tra post-comunisti e post-democristiani – al PD, non può finire con l’elezione a “capo storico” dell’ex direttore della Confindustria. Con tutta la simpatia per l’uomo e per il ministro, non mi sembra il modo di recuperare la massa di lavoratori disagiati e di giovani disoccupati o sottoccupati delle ex regioni rosse, e soprattutto del centro e sud che hanno voltato la schiena al PD e, quel che è peggio, alla sinistra tutta quanta.

   Comunque il punto chiave per me è il fatto che non si dovrebbe “sciogliere” un bel niente. Sarebbe sì una bella cosa che qualcuno rifondasse la sinistra (ad esempio facendo “da zero” un partito del tutto nuovo), ma non sulle macerie di altro Partito, come delle appendici cosiddette “libere e uguali” che ne sono uscite. Il PD non va ulteriormente spezzato, ma semmai “riparato”, con santa pazienza. (Di nuovo la metafora del sarto). Faccio alcuni esempi. Ci vuole un segretario che s’impegni a unire in massimo grado quello che nel PD c’è già e, inoltre, tutto quello che potrebbe tornare ad esserci. Persino con tutte e tre le grandi confederazioni sindacali occorre un lavoro di riconciliazione, di nuovo anche “a muso duro” (non da reggicoda del sindacato), ma serio e paziente: partendo non tanto dai problemi del lavoro che c’è, come il Sindacato tende sempre a fare, ma da quelli del non-lavoro, cioè dei disoccupati, e pure dei sottoccupati (da porre “sopra tutto”), come sinistra democratica. Il gioco interno al massacro, nel PD, comunque deve finire (o è la sinistra stessa che in caso diverso finirà, e tanti saluti a Madama la Storia di questo tempo in Italia). Recuperare l’istanza “unitaria” è la priorità tattica più urgente, a livello di forma partito. E chi non lo capisce neanche oggi andrebbe – quello lì sì – trattato da avversario irriducibile della sinistra, come quelli che nel PCI tanto tempo fa erano detti “gli antipartito”. Infatti, al punto in cui sono arrivate le cose, l’unità non è solo utile, ma indispensabile. Per questo ci vuole non tanto una direzione o segreteria collegiale (che sarebbe un patteggiare continuo e sterile), ma un vero nuovo leader, come fu Renzi o, prima di lui, Veltroni: un leader sanzionato il più presto possibile da un congresso, con tanto di primarie (altrimenti sarà ostaggio di “vecchi capi”, comunque si chiamino). A me come Segretario sarebbe infinitamente piaciuto Graziano Delrio, che mi pare il solo chiaramente convincente, spontaneamente rispettato e apprezzato da tutti i suoi compagni e dagli stessi avversari. Mi pare pure uno che sa ascoltare e persuadere, senza inutili forme di arroganza o eccessi di agonismo. Sarebbe saggio persuaderlo, per tutti. Sarebbe la continuazione del “renzismo”, con i molti pregi e senza i difetti di Renzi. Per me, invece, non potrebbe esercitare un tal ruolo il buon Martina, che non può essere leader di un PD che deve affrontare la più grande crisi della sua storia e che ha bisogno di una forte guida politica. Potrà un tale ruolo essere esercitato da Zingaretti?

   Sembra che abbia saputo lavorare bene per l’unità a sinistra, sia nel conquistare che nel gestire il Lazio. Si può ben sperare, ma solo se non sarà la risultante di altre lotte fratricide “di massa”, che quel partito non può più permettersi senza andare in pezzi.

   In ogni caso serve un sarto che ricucia tutti gli strappi, interni e prossimi. Sarebbe bene persino ricucire con Liberi e Uguali. Questi fondatori di LeU hanno fatto – oltre a tutto in prossimità delle elezioni politiche, il che è stato “molto grave” – una scelta sciagurata, che poteva solo fare il gioco della destra, e che infatti è stata punita dal popolo della sinistra: tanto più che sono persino stati capaci di liquidare un vero leader unitario, col cuore e testa da Pertini (ma della nostra epoca), quale era Giuliano Pisapia, il popolare ex sindaco di Milano, che avrebbe potuto guidarli (per loro reo di volere l’alleanza col PD, per lui da incalzare sì da sinistra, ma da posizioni unitarie). E tuttavia senza quell’ex sinistra – con cui pure i patti dovrebbero essere chiari per non ricadere nel “casino” – il PD è sbilanciato al centro. E Calenda stesso – pur essendo uno statista di sinistra stimabile in campo economico – incarna tale sbilanciamento ulteriore verso il Centro.

   In ogni caso, con o senza quei “compagni che hanno sbagliato”, l’istanza neosocialista è fondamentale. Non si può fare il partito degli amici della Costituzione, che è accettata dal 95% delle persone. E’ vero che fu proprio Renzi a far entrare il PD nel Partito Socialista Europeo  (prima se n’erano scordati); ma poi bisognava e bisogna far ri-vivere l’idea socialista. E’ certo vero che l’idea socialista è in crisi in tutto il mondo e che è alto il rischio di riproporre minestre riscaldate. E tuttavia le identità si possono rinnovare solo sul loro ceppo antico (l’aveva già ben spiegato Machiavelli). Il nazionalismo di destra lo sta facendo in tutto il mondo. Anche il socialismo ha lo stesso problema, a parti rovesciate. Ad esempio in Italia c’è una grande e originale tradizione repubblicana e liberalsocialista, sviluppatasi da Mazzini a Giustizia e Libertà di Carlo e Nello Rosselli, da Aldo Capitini a Norberto Bobbio, da Altiero Spinelli a Adriano Olivetti,  da Riccardo Lombardi a Vittorio Foa, che potrebbe essere ripresa in modo critico, non agiografico, ponendola a confronto coi problemi del mondo nuovo in cui viviamo, e provando pure ad andare al di là degli schemi marxisti, nel senso di materialisti e statalisti, usurati dalla storia. Ci vorrebbe un Risorgimento socialista. E ci vorrebbe un socialismo più verde che rosso, che tenga insieme l’istanza ecologista della buona e salubre qualità della vita e l’istanza sociale (del lavorare tutti, quanto più possibile liberi e partecipi, o comunque di avere alcuni diritti garantiti a tutti, compreso il diritto di campare dignitosamente ove non si abbia il lavoro). Anche le questioni della migrazione dei popoli verso i paesi sviluppati richiederebbero grandi idee, su cui si gioca il ruolo dell’Unione Europea e persino delle Nazioni Unite. E, infine, i problemi di garanzia di una forte governabilità, con assetti a doppio turno e premio di maggioranza, ma comunque garanti di governi di legislatura, dovrebbero essere ripresi al più presto.

   Tuttavia le vere urgenze sembrano essere soprattutto due: 1) tornare ad avere una politica di governo e per il governo, anche per il domani, che senza alleati importanti non si può fare (il che rende poi “marginali”, nel ruolo e per ciò stesso nei voti); 2) realizzare una grande pacificazione tra le anime della sinistra, a partire dal PD e intorno al PD.

    Il resto, su tali basi, si potrebbe fare, tramite lavoro assiduo di molti anni. Ma la storia della liberazione umana, per quanto drammatica e spesso persino tragica, è una faccenda che viene da lontano e va lontano. Comincia prima di noi e andrà ben oltre di noi. E va bene così.

      (franco.livorsi@alice.it)

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