Zygmunt Bauman, nel suo “Stranieri alle porte” ( lo trovate in edicola per i libri del Corriere – euro 7.90), citando Paul Colier: siamo alle porte di uno squilibrio di proporzioni epiche, ci vuole risvegliare da un sonno niente affatto ristoratore, ma mortifero e mortificante per le possibilità che l’essere umano ha in sè e che ostinatamente, quotidianamente, paranoicamente, esilia.
Baumann, nel libro, parla eminentemente delle migrazioni a cui non possiamo più sottrarci, ma direi che il libro è anche un’interrogazione su quel che siamo diventati: muri di gomma dove tutto rimbalza e cade. L’indifferenza – a mio sentire – nasce anche dal troppo che ci tocca e che, se continuamente rafforzato come tv e media ogni giorno fanno, s’annulla da solo, lasciandoci testimoni istupiditi davanti a quella che crediamo l’inevitabilità della catastrofe.
Il dramma – come sempre annunciato – del ponte di Genova ne è l’ennesima testimonianza. Parole e parole dalla mattina alla sera di professionisti, opinionisti, giornalisti, specialisti…per dire che cosa se non per cercare colpevoli, per trovare nuovi cavilli legali per nuove denunce, per ripetere parole vane che mai andranno a creare nella realtà quel che dicono ( ed è di questo che saremo chiamati a dare resoconto, dice la buona novella, per ogni parola detta che non ha creato quel che dice ).
Cerchiamo sempre fuori quel che dobbiamo cercare dentro: il bisogno di certezza ( umano ) è diventato patologia di sicurezza.
Siamo umani e mortali, destinati a morire: MORIRE, parola che subito buttiamo dietro alle spalle e subito diciamo e scriviamo e sentenziamo che non si può morire mentre si va al mare. Ma chi l’ha detto ? Dove sta scritto ?!
Non è meglio forse fermarsi e pensare e – dopo un bel po di silenzio – dirci: ma come guido io ? Come parto, come mi comporto, che rispetto ho della mia vita e dell’altrui vita ?
Se ognuno di noi si facesse quel che una volta si chiamava “esame di coscienza” forse non daremmo l’appalto a chi ci da la bustrarella e usa materiali non consoni all’opera, un’opera che racchiude la vita umana nella sua interezza, dove dignità, rispetto, etica sono parte integrante di piloni e tiranti, sono il cemento armato della nostra vita comune. TU ed IO siamo ponte, un ponte sacro, da onorare ogni volta con quella reverenza che ci rende persone gentili, pronte al banchetto che la Vita ci offre e ci dona ogni giorno.
Ma noi siam pieni di parole ad effetto ( troppo spesso volgari ) , di propositi mai messi – non dico in pratica – ma nemmeno nel pensiero; quando riusciremo a persuadere la volontà a seguire i dettami della ragione della mente e del cuore (inseparabili) ? Quando torneremo a farci domande invece che a volere sempre e solo risposte, subito, senza nemmeno darci il tempo di riflettere su quel che sta accadendo intorno a noi, che ci spostiamo solo di un passo più in là, più in là da dove cadrà l’ennesimo ponte.
Sembra quasi irriverente in questo momento triste la mia riflessione, in un momento dove siamo – volenti o nolenti- chiamati a costruire ponti e non muri, i ponti crollano, che ci stiano chiamando al risveglio ?! E’ una nuova innocenza che necessita a noi tutti.
Un cambio atropologico e teologico.
La sfida del terzo millennio – scrive Donatella di Cesare nella prefazione del libro di Bauman – è coabitare.
Questa è la sola “alternativa “, in caso contrario non resterebbe che la guerra, o addirittura- come scrive Raimon Panikkar, la fine della nostra stessa civiltà.
Coabitare non significa, però, un rigido stare l’uno accanto all’altro. Piuttosto si tratta di condividere il passato in vista di un futuro comune. Il che è possibile grazie al dialogo, quel dialogo che è riuscito quando trasformerà gli interlocutori. Questa è la via maestra per la solidarietà
E di questo dialogo Raimon Panikkar ci ha lasciato pagine illuminanti, parole non vane da far rotolare in noi perchè possano nuovamente umanizzarci, possano robustamente farci avvicinare a quella zone di profondità dove vive la solidarietà e la capacità di empatia verso l’altra parte di noi stessi: l’alterità radicale, la sola che ci permette di non essere “riflesso condizionato “, ma segnale di luce nel cono d’ombra che ci circonda.
E mi viene alla mente – come augurio per la nostra personale luce – la poesia che dedicai a Mandela:
Un fiore nero in un campo di fiori bianchi. E il bianco era la luce che lui faceva.
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