Lo sguardo in bianco e nero del Guareschi fotografo

Può capitare, casualmente e senza merito, di ritrovarsi in giro per Cervia in vacanza una qualsiasi domenica: ad esempio il 22 luglio scorso. E di leggere sulla stampa locale dell’inaugurazione di una mostra fotografica («Uno sguardo in bianco e nero. Giovannino Guareschi fotografo») non dedicata a, ma appunto direttamente di Giovannino Guareschi. E di ritrovarsela, intelligentemente offerta in appositi pannelli, addirittura quasi senza doverla cercare, direttamente sul bel lungomare intitolato a Gabriele d’Annunzio (da un lato; dall’altro a Grazia Deledda: tutta l’accogliente cittadina adriatica rivolta a valorizzare con intelligenza e finezza l’antan). E di scoprirvi, fin dalla prima didascalia, che la prematura scomparsa dello scrittore avvenne proprio lì, a Cervia, nella sua seconda casa per le vacanze, esattamente cinquant’anni prima, il 22 luglio 1968 (cadeva però di lunedì…). Ma soprattutto di coglierne al volo (non senza sorpresa: la forza del pregiudizio?) l’oggettiva importanza e la dimensione rivelatrice.

Pur essendomi goduto, come tutti, fin da bambino al cinema dell’oratorio i Don Camilli, non sono mai stato, è facile confessione, un fan di Guareschi. Le ragioni sono complesse, probabilmente anche un po’ psicanalizzabili. Cresciuto in una famiglia di orientamenti clerico-fascisti, compulsavo avidamente, con curiosità, scevra da prevenzioni ma anche da messe in guardia, le letture politiche paterne. Misto ad altra stampa di analogo orientamento («Il Nazionale» dell’idolatrato Ezio Maria Gray, lo stesso «Secolo d’Italia») entrava settimanalmente in casa anche «Candido», negli anni in cui regolarmente polemizzava con De Gasperi per la detenzione (in corso: condanna per la di lui diffamazione) del suo fondatore e direttore: deduco che i ricordi risalgano al 1954-55. Lo stesso tratto delle sue vignette mi era divenuto, senza che me ne rendessi conto, familiare. Poi si sa come vanno queste cose: i figli degli anarchici si fanno gesuiti e gli allievi dei gesuiti diventano anarchici. Credo di dovere la mia “conversione” politica, quanto mai opportuna e liberatoria, in parte a una straordinaria professoressa di lettere alle medie, cattolico-liberal-antifascista (ma sul serio: Emilia Provenzal, figlia dello scrittore ebreo perseguitato Dino). Ma in più immediata, diretta e decisiva proporzione al cinema: segnatamente a Roma città aperta, visto per la prima volta attorno ai quindici-sedici anni, grazie proprio alla Federazione Circoli del Cinema per la quale adesso scrivo qui (questa storia l’ho già… inflitta pubblicamente con Mi ha salvato Rossellini: «Quaderno di Storia Contemporanea», 57, 2015, www.isral.it).

Guareschi mi era rimasto collegato a quel clima: a quella temperie moderatamente oppressiva dalla quale ero venuto liberandomi. Non ebbe certo una funzione positiva in senso rivalutante, l’apporto della sua metà -francamente incredibile, al di là delle notorie posizioni di partenza…- alla stranissima operazione, voluta da Gastone Ferranti, de La rabbia. Dove altrettanto singolare e infelice fu l’adesione di Pasolini, per essere chiari: né fu particolarmente confortante, poi, l’incidente che avvenne in proposito fra i figli dello scrittore e Giuseppe Bertolucci nel 2008 (con le singolari messe a punto che dettò in merito, giusto dieci anni di questi giorni, il mio amico e compagno di università Tatti Sanguineti…).

Poi però sono successe altre cose. Tanto per cominciare, con la lealtà talora ai limiti dell’autolesionismo che lo contraddistingueva, in quell’occasione Giuseppe, dimettendosi di buon grado dal comitato celebrativo del centenario, ma continuando a garantire la collaborazione della Cineteca di Bologna che presiedeva,  riconobbe soprattutto l’importanza e la dignità complessiva dell’autore. Da parte mia sopravvenne la riscoperta, grazie all’ennesima ristampa rizzoliana, del Diario clandestino 1943-45 [oggi anche in libera lettura: https://libri.me], e l’apprendere che era stato catturato dopo l’8 settembre mentre si trovava (da tenente della batteria 1060, 11° artiglieria), nella Cittadella di Alessandria, la città in cui allora risiedevo. Vi era stato destinato dopo il richiamo punitivo alle armi per aver insultato Mussolini.

Un altro punto di avvicinamento lo determinarono due tesi di laurea pavesi: una, solo compulsata e veramente esemplare, di Olga Fasola, sul rapporto Guareschi-Duvivier per i primi due Don Camillo film, discussa con Lino Peroni nell’ormai remoto anno accademico 1996-97 (l’autrice sarebbe poi tornata sull’argomento nella rivista “Scenario”). L’altra, interessante e per me rivelatrice, accordata con iniziale perplessità sulle insistenze della laureanda Martina Grassi -che strada facendo avrebbe invece saputo risultare assai produttiva e convincente- sulle modalità realizzativo-territoriali di quei film, e sull’indotto anche economico che la loro valorizzazione postuma avrebbe saputo apportare a Brescello, Viadana e al territorio padano circostante.

Il centenario guareschiano dello stesso 2008 avrebbe fatto il resto, coinvolgendomi direttamente, come peraltro la stessa Grassi, nel convegno organizzato a Pavia col Collegio S. Caterina da Siena e la sua Rettrice di allora, Maria Pia Sacchi Mussini, da Giuseppe Polimeni il 1° dicembre (disponibili ora i relativi atti: “Camminare su e giù per l’alfabeto”. L’italiano tra Peppone e don Camillo, Ed. S. Caterina, Pavia 2010).

Ogni passione spenta… s’intitolava quel mio remoto intervento, e già rivelava la progressione personale compiuta (completata anche, nell’occasione, dalla conoscenza personale degli infaticabili figli di Giovannino, Carlotta e Alberto, due assolutamente squisite persone). Sono passati dieci anni, ma la porta è rimasta aperta alla visione e all’ascolto, e il fortuito quanto gradito incontro con la mostra di Cervia me l’ha dimostrato con gli interessi.

Diciamolo subito: dall’esposizione esce con nettezza un signor fotografo, che avrebbe potuto diventare un grande professionista senza se e senza me ove si fosse dedicato espressamente in via esclusiva a questa attività, rimasta invece forzosamente secondaria tra le infinite altre, che l’interessato non poteva non condurre in irresistibile parallelismo. E tra i molteplici aspetti della sua personalità e produzione, quello fotografico è rimasto tra i meno indagati, pur nella mostruosa bibliografia complessiva che sulla sua opera è venuta ormai accumulandosi a livello mondiale, in ragione della circolazione ormai planetaria dei suoi due più celebri personaggi. Al di là del materiale giornalistico da ufficio stampa prodotto da e per questa occasione, ritrovo al momento solo un bell’articolo di Eva Bonitatibus (www.goccedautore.it) in occasione della precedente mostra che l’omonimo circolo culturale organizzò a Potenza tre anni or sono, concentrandosi in particolare sugli esordi di Giovannino con all’occhio la sua Voighländer, svoltisi quando frequentava, nel capoluogo lucano (1934-35) quel corso allievi ufficiali d’artiglieria che l’avrebbe condotto, nel giro di neppure un decennio, prima alla cittadella alessandrina e poi alla prigionìa.

Quando ancora Sanguineti, parlando de La rabbia, sostiene che se Rizzoli fosse riuscito a persuadere De Sica (che temeva le reazioni negative dei comunisti) ad assumere la regìa di Don Camillo, oggi parleremmo di Guareschi come di un autore neorealista, dice una cosa meno azzardata di quanto lui stesso non anticipi: e questa fotomostra ne dà conferma.

In un’epoca nella quale la tendenza fotografica si orientava, anche in ragione del quadro politico di regime, su di una chiave a cavallo tra realtà naturalisticamente intesa e ricercatezza formalista (si pensi a un capolavoro come la raccolta “Occhio quadrato” di Lattuada), Guareschi privilegia innanzitutto un’istintiva semplicità, che peraltro non gli impedisce di raggiungere, praticamente ad ogni scatto, una stilizzata e precisa nettezza di risultato.

Particolarmente clamorosa, al centro anche ideale della mostra, la grande foto in cui ritrae -non era ancora tempo, non si dice di selfies, per fortuna, ma neppure di autoscatti!- parte della restante  famiglia Guareschi (la consorte Ennia con Alberto bambino) davanti al cinema parigino dove è in programma la prima di Le petite monde de Don Camillo (era il 4 giugno 1952). Alle foto della vita intima, spesso originali e sorprendenti, insieme per secchezza di dettato e originalità di angolazione, se ne accompagnano altre di “prise de vue” di luoghi e situazioni: formidabili ad esempio una silenziosa filza bici appoggiate al parapetto proprio di un lungomare, senza figura umane, o vari, ampi ambienti urbani esterni ripresi dall’angustia interna di una stanza, o direttamente, a perdita d’occhio su desolazioni di periferia che possono ricordare la pittura di Sironi.

Insomma, lo si sarà capito, l’esposizione è piaciuta e ha fatto riflettere. Anche se uno ci pensa un momento, prima di ammetterlo, con la pessima temperie che il paese sta attraversando (nel visitarla, era difficile dimenticare il fatto che, a un paio di chilometri da lì, Milano Marittima, era atteso in vacanza da un giorno all’altro il… ministro Salvini). Certo, il discorso “ideologico” complessivo di Guareschi, che era davvero proprio “in bianco e nero” che più di così non si può, ripensando a La rabbia, e quello su di lui, e proiettandolo sull’oggi, si rifà attuale, ma anche particolarmente complesso e insidioso, in tempi di trumpismo diffuso oltre gli stessi Usa. «L’ipotesi più probabile è che il film lo abbiano cancellato dalle sale perché la parte di Guareschi era violentemente antiamericana. Non dimentichiamo che a distribuirlo era la Warner» rilevò all’epoca Tatti («Gazzetta di Parma» del 31 agosto 2008): «Mentre viene suonato l’inno della Marina americana, ci sono le immagini di neri che ballano, e Guareschi afferma che c’era stato il processo di Norimberga, ma gli americani avrebbero dovuto stare sul banco degli imputati. Da monarchico-anarchico qual era, si poteva definire colonialista. Rimpiangeva i tempi in cui l’Algeria era francese: la sua era una visione del mondo ottocentesca: sosteneva che lo sbaraccamento dell’Europa dall’Africa avrebbe prodotto una serie di problemi».Oltretutto, ed è un’indagine che potrebbe essere progettata e condotta, si è sfiorati da qualche dubbio sull’ipotesi che, alle origini del formarsi del populismo italiano nella sua forma odierna, il “mondo piccolo” di don Camillo e Peppone, e la sua abbondante e fortunata proiezione cinematografica, una qualche funzione possano averla svolta.

Poi, beninteso, davvero “ogni passione spenta”: si può essere un grande scrittore (e non è stato il caso di Giovannino…) anche da reazionario; si sarebbe potuto diventare un fotografo da storia della fotografia (ed è stato, francamente, il suo caso) indipendentemente da come la si pensassse.

                                                                    (“Diari di Cineclub”, 64, settembre 2018)

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