Ancora non si sa se Minniti scenderà in campo per le primarie. I toni ascoltati ieri alla convention di Zingaretti e quelli – non meno importanti – dell’intervista di Renzi al Corriere, fanno intravedere un clima più disteso. Il farsi strada della consapevolezza che il muro contro muro porterebbe comunque il vincitore – chiunque fosse – a sbattere. Il vero obiettivo del Pd, in questa fase, non è infatti – ancora – quello di trovare una nuova leadership. Ma di riuscire a restare unito. Senza, al tempo stesso, rimanere ancorato al proprio passato.
In questo senso, se impostata in modo costruttivo, la candidatura di Minniti eviterebbe il pericolo che incombe sulla campagna del governatore del Lazio. Diventare il carro sul quale saltano tutti i vecchi capicorrente, trasformando il condottiero in ostaggio. E vanificando ogni sforzo di rinnovamento su cui, ancora nel discorso di ieri, Zingaretti ha insistito con convinzione. Avere, invece, un portabandiera del renzismo – senza essere una diretta emanazione dell’ex premier e segretario – consentirebbe al Pd di salvaguardare – almeno in parte – il patrimonio di una stagione di governo che ha dato molto al paese. E che ieri Gentiloni ha giustamente rivendicato. Facendo, per contrasto, emergere più nettamente in cosa – e come – Zingaretti si propone di voltare pagina.
Certo, conoscendo la vis autodistruttiva del Pd, non c’è da farsi troppe illusioni sul fatto che, lasciate ai propri istinti suicidi, le truppe dell’una e dell’altra parte non proverebbero comunque a scannarsi. Per evitarlo, i due aspiranti segretari dovrebbero siglare un patto. Lo chiamerò, con il dovuto senso dell’ironia storica, il Patto della pallacorta. Si, proprio con la «t». Il cui obiettivo comune sarebbe di evitare di fare pallacorta, e di finire entrambi sconfitti con un clamoroso autogol. Come nel celebre precedente francese, il patto consisterebbe in una dichiarazione di intenti condivisa, ed un insieme di regole che resterebbero a fondamento delle scelte future del Segretario vincitore. Nel linguaggio gialloverde oggi in auge, lo si potrebbe anche chiamare contratto. Ma trattandosi di due galantuomini, i due sfidanti potrebbero fermarsi a un manifesto di valori. Dopotutto, la vera legacy dei democratici di cui convenga ancora occuparsi.
Quanto invece alle piattaforme programmatiche, dovrebbero – come è giusto – differenziarsi, rispecchiando le diverse propensioni dei due leader e – cosa ancora più importante – i target elettorali ben distinti cui si rivolgono. Non è certo un mistero che il governatore del Lazio aspira soprattutto a recuperare i molti milioni di voti transfugati dal Pd ai Cinquestelle, sulla costola di sinistra. Mentre l’ex-Ministro dell’Interno pensa – giustamente – che Salvini gli abbia scippato sul fianco destro quei consensi verso i quali aveva così tenacemente lavorato con la sua opera al Viminale. Valorizzando la complementarietà esterna piuttosto che la competitività interna, Zingaretti e Minniti adempierebbero a tre importantissime funzioni.
La prima sarebbe quella di abbassare i toni dello scontro, rimettendo – come in ogni partito è doveroso – la salvaguardia dell’unità al primo posto. La seconda consisterebbe nell’affrontare quello – che sul piano delle policy – rimane il nodo più spinoso. Come si possono conciliare le due istanze – partecipazione e governabilità – che sono al cuore della crisi delle democrazie contemporanee? I gialloverdi stanno provando a farlo unificando con il cemento del potere due partiti che più diversi – su questo fronte – non potrebbero essere. La sfida per il Pd è di riuscire a tenere insieme queste anime al proprio interno. Senza implodere. Ma anche senza illudersi di poter fare a meno di affrontare, e sciogliere, il nodo.
La terza funzione del patto è, forse, la più importante. Riguarda l’organizzazione. Quale che sia il leader e il programma, il Pd non ha futuro se non mette mano a una radicale riforma del proprio assetto organizzativo. Questo dovrebbe essere il vero tema al centro del prossimo congresso. Ma in una logica di muro contro muro, nessuno dei due candidati lo affronterà. Impegnato soprattutto a raccattare i voti dei capicorrente e dei micronotabili. Se diventasse, invece, l’architrave del patto, il nuovo assetto organizzativo potrebbe essere messo subito all’ordine del giorno. A partire dal ritardo accumulato nella presenza e gestione della Rete, l’ecosistema in cui vivono – h24 – tutti i giovani. E nel quale Lega e Cinquestelle hanno messo al tappeto i democratici. Purtroppo, un ottimo premier – come è stato Paolo Gentiloni – è riuscito a ironizzare su questo ancora ieri. A conferma che l’establishment uscito rovinosamente sconfitto dalle urne non riesce ad accettare – a comprendere – che governare bene è indispensabile. Ma, nell’era della popolocrazia, senza la comunicazione e la partecipazione veicolate dal web non basta a evitare la disfatta.
(“Il Mattino”, 15 ottobre 2018)
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