Ho toccato un Santo

[1. “la poesia al Cardinàl” e l’Arcivescovo-Principe]

Come, quando, dove e perché. L’allora Clinica (ora IRCCS Auxologico) «Capitanio», nella centralissima via Mercalli a Milano, fa tuttora riferimento all’ordine  religioso “di Maria Bambina”, per dirla alla milanese: le “Suore della Carità delle SS. Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa”, le quali lo fondarono, a staffetta, a Lovere nel remotissimo 1832.

Nell’a sua volta assai lontano settembre 1955, imminente scolaro di quarta elementare (nell’Italia civile di allora le scuole riaprivano il 1° ottobre) mi capitò, accompagnato da papà e mamma, di farci a sorpresa il mio ingresso. Abbastanza frastornato e tutt’altro che lieto per la causa relativa, poi anche intimidito da un tono ambientale cui non ero abituato. Come devo al cinema il privilegio –sarà poi davvero tale?- di aver ripetutamente soggiornato a titolo di gratuita ospitalità in hotels pluristellati, cui da privato potenziale pagante non avrei neppure ardito passar davanti, così anche quell’esperienza –per la necessità di subire, nel linguaggio giornalistico correct, “un delicato intervento chirurgico”- era dovuta a una “provvidenza” (scelta terminologica non casuale, si vedrà…) esterna.

Mio padre già da un trentennio abbondante era impiegato alla Cassa di Risparmio delle Province Lombarde (poi Cariplo: sempre per i milanesi, “la Cà de’ Sass”). Che manteneva ai proprio dipendenti un welfare (allora non si usava definirlo così) oggi semplicemente inconcepibile. Erano i semplici bei tempi che avviavano,  quasi senza lo si capisse, al “miracolo economico”: disponibili per i dipendenti le case per le vacanze marina (Alassio) e montana (Pontedilegno) più la colonia per i figli (Follonica) d’estate; il regalo natalizio –sontuoso: devo a Cariplo se sono stato un discreto pattinatore a rotelle…- ai bambini con gli immancabili panettoni Motta o Alemagna. Ma soprattutto, come diceva compiaciutamente lui, forse il bancario più convinto/motivato della propria attività e pago di sé che il sistema creditizio italiano abbia mai annoverato, la “Cassa Mutua” per le malattie. Non era soltanto, in una società ancora priva del Servizio Sanitario Nazionale, un punto di forza economico e psicologico incredibile: largheggiava in convenzioni, come quella che mi consentiva, in una simile, di per sé poco piacevole occasione, di essere affidato alle mani chirurgiche di un luminare dell’epoca.

Oggi tutto questo sembra appartenere a un mondo di fiaba. Nelle peraltro rare escursioni milanesi dell’infanzia, sempre mio padre, conducendomi per mano lungo via Monte di Pietà, mi indicava  quando ci passavamo davanti il possente bugnato della “Cà de’ Sass”, appunto, dicendomi con sicurezza: «Fin che starà in piedi questa qua, vuol dire che va tutto bene». Ecco perché probabilmente mi ha immalinconito, partecipando a un recente atto, apprendere dalla voce del notaio leggente che il venerato edificio al civico 8 era divenuto «sede secondaria» della fusa Banca Intesa, dove per una volta la Milano/Cariplo ha dovuto cedere luogo alla Torino/Sampaolo. Mio padre se n’è andato dodici anni prima di poter vedere la fine dell’Urss, della quale era certo in maniera matematico-tetragona («Lo dicono le leggi dell’economia, che possono avere tempi diversi ma non sbagliano mai»). Non ha fatto cioè in tempo a gustarsi la vittoria, in cui confidava ciecamente, del Consumismo sul Comunismo («A Berlino scappano dall’Est all’Ovest perché vedono le luci delle vetrine e il benessere di là»). Ma gli sono anche state risparmiate miriadi di cose che -almeno mi augurerei vivamente- non sarebbero piaciute neanche a lui e forse gli avrebbero fatto mutare qualche punto di vista.

Allo spaurito ingresso nei lussuosi corridoi della casa di cura, ci stupì non poco dopo un quasi immediato agitarsi e correre qua e là confabulando della candide suorine, con un dinamismo e un fervore che avrei rivisto soltanto, in analoghe modalità (e, in senso assai lato, circostanze) il 26 agosto 1978 a Bruges, in visita alla Madonna di Michelangelo nella chiesa di Nostra Signora. In quel caso lo scampanio improvviso e incessante, subito imitato da tutte le altre chiese e beghinaggi della stupenda cittadina di Memling, rivelavano come una votazione pomeridiana del Conclave in corso dovesse essere sfociata in fumata bianca. Avremmo poi avuto solo all’ora di cena, in un ristorante della vicina Gand, dalla tv la conferma dell’avvenuta elezione di un papa che, tra speaker fiammingo e distanza delle immagini non capimmo chi fosse: solo i giornali dell’indomani chiarirono trattarsi dell’inatteso ed effimero Luciani/Giovanni Paolo I. Per darne un’idea plastica, le corse delle suorine milanesi anni Cinquanta e dei  sacerdoti belgi di trent’anni dopo facevano venire in mente l’ingenua magnificenza della fuga di fraticelli nel San Girolamo e il leone nel convento di Carpaccio a S. Giorgio degli Schiavoni.

Tanto agitarsi per noi indecifrabile riguardava invece, incredibilmente, il nostro arrivo, e in particolare il mio, come venne pochissimo tempo dopo chiarita dalla Madre Superiora alla mia, che l’ascoltava stupefatta disfacendo la valigia. Era la Provvidenza stessa –asseriva la Reverenda- ad aver mandato lì dentro proprio allora un bambino. Il quale invece, sul momento, trovava tutt’altro che provvidenziale quella sgradito ricovero, che tra l’altro -chissà perché- aveva privato delle vacanze e fatto respirare apprensione per l’intera estate. Unico minorenne rintracciabile pro tempore tra i ricoverati, divenivo abilitabile sul campo -ecco il dono divino- due giorni dopo, «per leggere al Cardinàl, dopo che avrà celebrato, la poesia di ringraziamento per la sua visita».

.2. Un precedente pericoloso. Se ho un pentimento, nella fase della vita in cui si tracciano i bilanci, è quello di aver condotto, temo ormai irreversibilmente, un’esistenza troppo regolare e allineata. A quell’età una simile predisposizione – bimbo obbediente e “serio”, posato, bravino a scuola- ho paura dovesse essere, se possibile, ancor più manifesta di oggi. Come che fosse, la reverenda Madre e le sue consorelle optavano per un poco spontaneo fidarsi a scatola chiusa. Anche perché, per mia fortuna, all’oscuro di un poco referenziabile antefatto in consimili circostanze, intercorso poco più di un anno prima. Il 1° maggio 1954, nella natìa parrocchia di battesimo (la vogherese S. Rocco: data desunta da documento), mi venivano somministrate, come ai coetanei, contemporaneamente in due distinte fasi della stessa mattinata, all’uso di allora, Prima Comunione e Cresima. Impartita, quest’ultima, dall’eccellentissimo Vescovo di Tortona pro tempore, mons. Egisto Domenico Melchiori (arcivescovo ad personam, fu anche l’ultimo dei presuli sulla cattedra di San Marziano a potersi fregiare -ma allora non lo sapevo-  di uno storico titolo principesco). Anche lì, sorte predestinata, il santo Arciprete dell’epoca, mons. Giuseppe Ferreri, aveva incautamente optato per me quale lettore del fervorino conclusivo di gratitudine e saluto all’illustre ministrante.

Rivedo come fosse adesso la scena, anche se sono passati 64 anni. Fine della cerimonia. Il principe-vescovo è assiso sul suo tronetto al centro della balaustra. Mi avvicino come istruito da sinistra col mio foglietto, lo dispiego e in qualche maniera ne declamo il testo compilato dalle assistenti dell’Azione Cattolica in cui un po’ passivamente venivo fatto militare (e si vedeva: ricordo solo come ogni strofa si concludesse in rima con un «oh pastòr!» che può farne intuire i pregi letterari e spirituali). Al termine il segretario, in piedi alla sua sinistra, col parroco alla destra, porge a mons. Melchiori -piccolo di statura, vasto, epidermide assai lucida. sguardo penetrante dietro minuscoli occhialini dorati- una scatolina. Un minuscolo, magnifico crocifisso in argento e madreperla che il pastòr, aprendola, mi porge. Ma io sono stato educato bene, e so indefettibilmente come ad ogni profferta di dono la risposta abbia da essere (giusto mamma?), un gentile ma fermo: «No, grazie!». Così lo pronuncio, certo del mio corretto agire. Ma ecco che gli occhi del “nostro” indimenticato arciprete, in piedi a lato del superiore, nonostante il suo carattere davvero angelico, mi fulminano con un’accensione che non dimenticherò mai. Mi affretto ad afferrare l’omaggio -purtroppo andato perduto in uno dei troppi traslochi- e a sparire. Oggi rimpiango di non averlo portato al collo da allora.

Era destino che quella giornata, per quanto ufficialmente gratia plena (ancor che casualmente coincidente con la festa del Lavoro “rossa”, e pertanto a quel riguardo tassativamente ignorata in quanto tale dai miei), mi si mettesse comunque male. Il pomeriggio stesso, durante l’immancabile festicciola domestica, liquidata volentieri la torta, “evado” in cortile con gli amichetti per collaudare il pallone -finalmente di cuoio: stupendo, pesantissimo, dalla camera d’aria chiusa con le stringhe, di allora- tanto desiderato e ottenuto come dono per la circostanza. Eccoci a dargli calci al sole e sull’acciottolato dell’amato spiazzo, allora a gioco libero. Nella foga agonistica, indossavo ancora i pantaloni –lunghi!- del vestitino da cerimonia. Non era l’ipocrita ma indispensabile grembiulino candido/egualitario qualche anno dopo finalmente introdotto, ma un vero e proprio piccolo completo grigio-chiaro-elegante, il primo dei non troppi succedutisi nella mia esistenza. Mia madre l’aveva eccezionalmente affidato alla sua proverbiale sarta, nell’ottimistica speranza valesse ad accompagnare, almeno, il non ancora imminente ingresso alle medie. Per soprammercato, non mi ero neppure (orrore!) sfilato…le scarpe di vernice “belle” che mia nonna, in una delle ultime performances del suo laboratorio di calzoleria prossimo alla chiusura, aveva confezionato personalmente (come tutte le mie altre calzature fino a quel momento: good times, wonderful times!). Intuito materno in simili contesti infallibile: abbandonati gli invitati-parenti, eccola scendere all’improvviso, ruggente, dal secondo piano in cortile. Le scarpe lucidissime già sbucciate al contatto col ruvido cuoio del fùbal (il foot-ball per noi iriensi…) incredibilmente la passano liscia: in fondo roba di pregio ma fatta in casa. Ma l’aver utilizzato direttamente come… fascia da capitano il bracciale della Cresima le sembra davvero troppo! Neo-“soldato di Gesù”, come ci facevamo dire allora, va bene: ma non le risultava che il Redentore avesse fondato in Palestina squadre di calcio, neppure dagli Apocrifi. Troncamento della partita, con pronto incasso sul momento, al cospetto di ambo le compagini improvvisate, di una delle poche sberle di parte materna registrate nella mia parabola infantil/adolescenziale.                                                            

 [2. Vacanze con fumata bianca, in cornice istantanea…] 

La carezza del “cardinàl”. Tornando, se avete resistito fin qui, al tema serio di questa rievocazione, se la mia emotiva mamma alla proposta/richiesta dell’autorevole “sorella” meneghina era stata lusingata, ma posta al solito in apprensione, la reazione paterna fu subito di incontenibile entusiasmo senza se e senza ma. «E’ papabile, è papabile!» continuava a ripetere il poveruomo, ignaro del fatto che, a differenza che per l’Urss, questa sua previsione, pur dovendo aspettare un po’ più dell’ipotizzabile, l’avrebbe vista concretata, giungendo addirittura ad anticipare con la sua scomparsa per poco più di un anno quella di Paolo VI. Io leggevo diligente i giornali di casa, ascoltato la radio, sapevo più o meno chi fosse diventato Mons. Montini, ma mi fermavo lì. Non capivo bene cosa volesse significare quella “papabilità”. Il meccanismo del Conclave l’avrei colto solo tre anni dopo: allora  Pio XII era saldamente ancorato al soglio da una quindicina, come ci spiegavano le catechiste di cui sopra ogni domenica mattina all'”adunanza”, e ci confermava l’illustrato «Osservatore della Domenica» distribuito “da portare a casa”. [Inciso: mi ci sarebbero voluti trentacinque anni per recuperare in qualche modo religiosità e fede dopo lo choc di una simile “formazione”, ma questa è un’altra storia. Tengo però a precisare che la divisa, camicia gialla e pantaloncini blu con baschetto, dell’A.C. di Gedda sono riuscito a risparmiarmela, trasmigrando anzi pochissimi anni dopo in quella più militare ma decisamente gradita dei mai troppo ringraziati scout cattolici, che le “signorine” geddiane, mi auguro ormai affrancate dal Purgatorio, avevano naturalmente in gran dispitto).

Che Sua Eccellenza, a differenza dell’entusiastica designazione tributatagli dalle Sorelle “capitanee” non fosse ancora “cardinàl”, e anzi che Pio XII, dopo aver sbattuto lì il suo principale ex-collaboratore in disgrazia, si sarebbe guardato bene dall’accordargli la porpora, pur avendolo posto a capo della più grande diocesi dell’ecumene, lo avrei scoperto solo molto più avanti, e nei dettagli, leggendo la bella e vasta biografia di Andrea Tornielli (Paolo VI. L’audacia di un papa, Mondadori 2009). Montini era diventato milanese da otto mesi esatti, avendo fatto il suo ingresso in archidiocesi il giorno dell’Epifania. La porpora gliel’avrebbe poi finalmente accordata nel suo primo concistoro Giovanni XXIII, reiterando anche la facile previsione che il suo successore sarebbe stato proprio «l’arcivescovo di Milano». Ma questa è vicenda meno remota e più nota.

La disgraziata rispostina al cresimante mi torna ancora su di traverso, talvolta, come il “si figuri!”, destinato, guarda un po’, anche quello a un presule, del povero sarto di Promessi Sposi XXIV. Ma, istruito dalla fresca esperienza di neo-cresimato gaffeur affronto il nuovo cimento ben deciso comunque a non dire per nessuna ragione al mondo «no grazie» anche al neo-successore di Sant’Ambrogio: oltretutto l’aria della metropoli mi intimidiva assai di più della piccola patria provinciale in cui ero stato “tirato su”. Non potevo allora certo sapere che la mia precedente “vittima”, l’arcivescovo Melchiori, bresciano come lui, ne era stato anche docente di teologia morale presso  il locale seminario, e che per soli tre mesi e mezzo non avrebbe potuto godere la soddisfazione di vederlo asceso al soglio di Pietro.

La solennità della cappella in via di super-addobbo, nella quale fui tradotto “per la prova” la mattina successiva, vigilia dell’attesa visita, non aveva contribuito certo a rinfrancarmi. Tuttavia, dell’incontro col cardinale non ancora tale e tanto meno Papa, portata a compimento la lettura di un testo non molto più ispirato del precedente, altro non ricordo francamente che la sua assorta e affabile benevolenza, e l’informarsi sollecito, con voce quasi velata, presso lo zelante primario, mentre mi accarezzava tenendomi il capo contro la fascia episcopale, cremisi e non ancora porpora, sulla mia salute.  Ricevetti insomma la “carezza del [futuro] papa” con sette anni di anticipo sul famoso “discorso della luna” con cui il suo predecessore e mentore Giovanni XXIII avrebbe aperto il Concilio. Come sempre in queste occasioni, da bambini e da adulti, l’adrenalina della preparazione e dell’attesa finisce per soverchiare, anche nel ricordo, il momento in sé.

Per completezza di inflizione, aggiungerò che tutto il risvolto clinico si svolse, com’è ovvio, felicemente, salvo l’allora torturante, eterno divieto di bere post-anestesia in quel torrido settembre. Anzi, i numerosi giorni successivi di convalescenza presso la clinica furono un’autentica delizia. Innanzitutto perché aggiunto da un altro simpatico bambino, di provenienza triestina, a nome Claudio, operato per le “orecchie a sventola”, e perciò aggirantesi con un incredibile casco di bende attorno al capo, ma giunto con qualche giorno di ritardo per impiantarmi un’eventuale concorrenza rispetto al “dire la poesia al cardinàl”. Poi in quanto vezzeggiatissimo dalle suore  quale ex-latore dell’aurea comunicazione. Passammo “di grand’ore” (quando parlo di Milano Manzoni lo “sento”…) giocando in uno stupendo quanto vasto giardino coi soldatini “nordisti e sudisti” regalatimi per l’occasione, e già oggetto di una mia passione sulla quale ritornerò a tediare in una successiva; intervallati da letture deliziose: ricordo come fosse ora Riccardo Cuor di Leone di Walter Scott e ancora più suggestivi I racconti di Calza di Cuoio di Cooper. Mi piacque persino, mai più sospettando che quindici anni dopo la penna nera sarebbe toccata anche a me, un po’ più grandicello e in tempo di pace, anche Piccolo alpino di Gotta, regalatomi dall’anestesista che si era occupato dell’intervento. Galante (ma allora non lo capivo) consigliò anche alla mamma, che aveva 44 anni e faceva ancora la sua figura, con cui discorreva assai volentieri, di portarmi a vedere, appena liberiati da lì, Marcellino pane e vino appena uscito (consiglio poi onorato in men che non si dicesse: non sono più certo si trattasse di una buona idea, ma fu il film da lei più amato dopo quelli coi “suoi” Clark Gable e Ingrid Bergman). Ero un’autentica macchina da lettura in quegli anni: da visione lo sarei diventato un po’ più oltre, anche se purtroppo questa seconda inclinazione avrebbe finito per togliere troppo spazio alla prima. Poi la vita è strana: dell’estremamente malandato Gotta, cui si debbono anche le… parole di Giovinezza, ci saremmo addirittura ritrovati vicini di casa negli anni rapallesi 1965-70 (mia madre lo salutava con la medesima deferenza che avrebbe riservato a d’Annunzio o a Pirandello redivivi: e dire che in quella Rapallo circolava quotidianamente anche Ezra Pound!).

La pazienza del buon corniciaio.

Non finisce qui, anzi: eccoci finalmente al 21 giugno 1963. Finito il terzo anno di liceo, parte l’estate anche ufficiale e c’è tutta la leggerezza delle vacanze. E’ quasi l’ora di pranzo e mia mamma, casalinga a tutto campo per l’intera vita, spignatta.  La diligenza è quella di ogni giorno, ma oggi occhi e orecchi sono puntati sul tv “Radiomarelli” da poco finalmente acquisito dopo anni e anni di serate al bar. In attesa della fumata: che arriva ed è bianca nel modo che sappiamo.

Lei in un attimo diventa come un’altra persona. Spegne al volo i fornelli (gesto che in circostanze normali avrebbe considerato empio…) e vola a tirare fuori da un cassetto… l’antico dattiloscritto del povero e ingenuo testo pensato dalle suorine milanesi all’indirizzo del “cardinàl”! L’aveva conservato: e dire che io, indegnamente, all’epoca avevo dimenticato, sono sincero, tanto l’oggetto che lo stesso fatto. Con in mano una sterminata banconota di allora mi spedisce dal corniciaio, incurante delle mie obiezioni sulla distanza da percorrere nell’imminente ora di chiusura. Non senza aver prima vergato di suo pugno sul foglietto le due fatidiche date (6 settembre 1955 – 21 giugno 1963) aggiungendovi incredibilmente, lei che aveva troncato gli amati studi già “dopo le tecniche” per sovrana volontà maschilista dei fidanzato, con supremo stupore dell’unico in casa inviato a saper di greco e di latino, un… Paulus P.M. VI in perfetto stile curiale!

Il signor XXXXX, illustre esponente di un’antica famiglia di corniciai tuttora magnificamente operante in Pavia e amico di casa, pur conoscendomi non può che guardarmi perplesso, avendo già mezza saracinesca abbassata. Ma quando gli spiego la ragione dell’intempestivo disturbo, non ha la minima esitazione e in mezzora, bloccato il “butta la pasta”, mi rimanda a casa col prezioso se pur obliato foglietto tramutato in un quadrettino incorniciato in tinta avorio. Che mi ha seguito in una mezza dozzina di trasferimenti, prima di disperdersi, come il piccolo Cristo in croce dell’arcivescovo tortonese e troppe altre cose, nel gurgite vasto della vita.

Un’ultima appendice, che riaggancia l’attualità. Al momento delle dimissioni, le suore ospitanti mi avevano messo tra le mani un magnifico, enorme catechismo, lussuosamente impaginato e recante a ogni pagina, insieme alla domanda-risposta canonica della formulazione di Pio X (ma l’avevo giusto imparato a memoria, come allora incredibilmente riusciva ad accadere, l’anno prima “a dottrina” appunto per Comunione-Cresima unificate) una splendida riproduzione pittorica a colori illustrante il tema. Il purtroppo anch’esso disperso volumone mi è stato prezioso, al di là dell’apprendimento religioso, instillandomi vagamente l’amore per la pittura alcuni anni prima di trovare sul cammino, tra liceo e università, quattro formidabili storici dell’arte di notorietà nazionale: Ludovico Magugliani ed Ezia Gavazza, Corrado Maltese ed Eugenio Luporini.

Tra quei quadri, uno mi aveva colpito particolarmente: l’allora intitolato Santa Maria Egiziaca del Tintoretto, dall’indefinibile suggestione silenziosa, che si rinnovò quando l’anno dopo coi miei ebbi la prima volta di Venezia e potei vederlo dal vero alla Scuola di San Rocco. La corrispondenza tra illustrazione e oggetto visibile apriva un mondo. Ho aggiunto tutto questo perché abbiamo passato a Venezia l’ultimo week end al preciso scopo di infilare una dopo l’altra tutte le straordinarie mostre per il quarto centenario del pittore. Il mio timore era di non ritrovare proprio quel quadro, perché i siti ufficiali lo davano in restauro per l’imminente trasferimento Washington, alla grande esposizione conclusiva della National Gallery co-organizzatrice anche in Italia. Invece, per fortuna, il restauro era a vista, e la tela visibile come la gemella, fino a qualche anno fa indicata a tentoni a sua volta come Maddalena. Con la preziosa precisazione critica: si tratta in realtà di due composizioni ipercollegate: contemplanti non le due sante dalla vita precedente non proprio virginale, ma proprio, direttamente, la giovane Vergine Maria in meditazione, vista… in campo e controcampo. E forse è per questa coincidenza lagunare che la fluvialità autoevocativa che i coraggiosi giunti fin qui hanno subito mi sia venuta fuori proprio adesso.

A mo’ di postilla. Dopo questo inopinato raccontone, che mi è uscito quasi spontaneamente, bisognerebbe ricominciare occupandosi seriamente della figura di Montini. Magari riportandone l’attualità di riflessione politica. Quando ad esempio, appena ventiseienne, inviato senza entusiasmo a Varsavia come collaboratore della Nunziatura in Polonia, stende questo pensiero, che considerando il quadro europeo (e polacco…) attuale, potrebbe sembrare formulato ieri sera: « Questa forma di nazionalismo tratta gli stranieri come nemici, in particolare quelli con cui lo Stato ha frontiere comuni, quasi che uno cerchi l’espansione del proprio paese a spese degli immediati vicini. Le persone crescono con un sentimento in tal guisa. La pace diventa un compromesso di transizione tra le guerre». Parole che suonano profetiche, a quattro anni dalla fine della Grande Guerra e a sedici dall’inizio della successiva: auguriamoci solo che non tornino nuovamente a risuonarle.

Interessantissimo e fondamentale, tra mille altre possibili cose, anche il radicale apporto pontificio montiniano alla riforma liturgica. Ma di questo ho trattato altrove, prendendo le mosse dalla frontale opposizione mossagli da una suggestiva scrittrice, “reazionaria” sì, ma profondamente suggestiva e troppo accantonata. «Figlia della liturgia»: l’invincibile ripulsa. Cristina Campo anticonciliare, l’avevo scritto con fatica nel 2014, per il n. 4, monograficamente dedicato alla religione e purtroppo mai  più uscito, della bella rivista di Franco Livorsi “Anima & Terra”, dedicandovi indimenticabili mattine su mattine di documentazione milanese. Poi il prof. Arturo Donati ha voluto pubblicarlo sul suo magnifico e ormai più che decennale sito dedicato a una grande autrice da riscoprire, idee liturgiche a parte, cui doppiamente quindi rinvio volentieri gli eventuali incuriositi superstiti: www.cristinacampo.it

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*