È eccessivo, per il momento, parlare di una crisi dei Cinquestelle. La loro base elettorale resta solida, per due ragioni che gli opinionisti à la page tendono a sottovalutare (ma che i sondaggi puntualmente rilevano). La prima è che la grande maggioranza dei votanti grillini è disinformata. Almeno secondo i canoni tradizionali. Si forma le proprie idee prevalentemente sui siti amici, o seguendo i programmi televisivi fiancheggiatori (che sono sempre più numerosi). Questo riguarda sia il dibattito sui possibili contraccolpi economici dei provvedimenti del governo. Sia le critiche di incompetenza che arrivano dal vecchio establishment a molti dei loro ministri. È un po’ come succedeva agli elettori comunisti degli anni Cinquanta, che non battevano ciglio quando si criticavano i loro baluardi ideologici, e il loro ceto politico.
La seconda ragione è che l’emorragia riscontrata finora può essere considerata fisiologica. Nella pancia dei cinquestelle è predominante – soprattutto dopo l’esodo dal Pd alle ultime elezioni – la componente di sinistra. Ma i transfughi del centrodestra sono comunque molto numerosi. Ed è normale che – con Salvini mattatore – ci siano molti che rientrano a casa. Certo, è comprensibile il nervosismo nel vedersi scavalcati, in pochi mesi, da un alleato che a marzo valeva poco più della loro metà. Ma il peso attuale consentirebbe comunque di guardare al futuro con un moderato ottimismo. A patto, però, di conservare i nervi saldi. Ed è proprio qui che il quadro sta cambiando rapidamente.
La manifestazione romana ha registrato una scarsa partecipazione e – soprattutto – entusiasmo dei militanti. Un dato largamente prevedibile, e che avrebbe poca o nessuna conseguenza se la leadership fosse unita nell’affrontare questo primo intoppo. Ma i segnali registrati in questi giorni vanno nella direzione opposta. Ed è questo il vero problema che sta mettendo a repentaglio la tenuta dei Cinquestelle. Fin dagli esordi, il movimento ha ruotato intorno a un controllo centralistico incontestato. La diarchia Casaleggio-Grillo aveva creato un nuovo tipo di partito, in cui la personalizzazione del comico genovese si univa alla digitalizzazione gestita dall’imprenditore-guru milanese. Un giano-partito, al tempo stesso personale e digitale, che aveva colto in contropiede e sbaragliato i concorrenti, attardati su modelli obsoleti. Con il passaggio di consegne da Grillo a Di Maio, però, quel meccanismo è cambiato. La personalizzazione del comando non poggia più sul carisma del leader, ma sulla sua investitura dall’alto. Col rischio che, al primo scivolone, lo scettro che gli è stato consegnato venga contestato da quanti – e sono molti – erano stati costretti a subire quella ascesa così repentina – ed arbitraria – al rango di capo assoluto.
I cinquestelle possono sopravvivere a un modesto dimagrimento dei consensi. Ma rischierebbero di deflagrare se si aprisse una guerra di successione al loro interno. Per questo Grillo è tornato ieri sul palco così platealmente a difesa del suo delfino, pur a costo di non scaldare troppo gli animi e di vedere indebolita la sua stessa immagine di condottiero duro e puro. Il tentativo alquanto maldestro di riaprire un fronte contro il capo dello Stato riflette la necessità di distogliere l’attenzione dai problemi e dagli scontri che si stanno moltiplicando all’interno della leadership pentastellata. Per la stessa ragione Di Maio sta cercando di accrescere e blindare il proprio potere, ingoiando molti rospi che il partner di governo lo sta costringendo a trangugiare. L’unica strada per salvare la poltrona è quella che Weber chiamava la routinizzazione del carisma. Sopperire all’autorevolezza del leader con il controllo spregiudicato delle risorse. Il vicepremier non ha alternative. Se molla la presa sul governo, sa che non rimarrà in sella. Ne è ben consapevole Salvini, che continua a mettere Di Maio sempre più spesso con le spalle al muro. Prima o poi potrebbe capirlo anche la leadership del Pd. Provando ad aprire un altro forno per chi, tra i cinquestelle, volesse provare a uscire dalla morsa in cui la Lega li sta strangolando.
(“Il Mattino”, 22 ottobre 2018).
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