La sfida delle metropoli

Con le dimissioni di Martina, si apre la stagione congressuale del Pd. Che potrà prendere due strade. Diversissime. La prima è il gioco al massacro tra i candidati alla segreteria, e relative correnti. Visti i precedenti recenti, si tratta dello sbocco più probabile. Una guerra di tutti contro tutti che segnerebbe il definitivo tramonto di quello che – appena quattro anni fa – era il maggiore partito europeo. L’altra strada – quella della sopravvivenza – consisterebbe nel mettere da parte lo scontro fratricida. Concentrando la discussione sui nodi che sono alle radici dello scacco subito dai democratici alle ultime elezioni. Ma che sono, al tempo stesso, sintomatici del malessere profondo in cui versa l’Italia, e la sua – sempre più fragile – democrazia.

A cominciare dalle grandi città. Sono state le principali metropoli, un quarto di secolo fa, a lanciare il post-PCI alla conquista di un ruolo egemone nel governo del paese. La cosiddetta primavera dei sindaci coniugò due fenomeni importanti. Una svolta istituzionale radicale nell’impianto amministrativo, che mise i sindaci al posto di comando. Sottraendoli ai veti e ai ricatti dei notabili di partito. E – strettamente intrecciata – una svolta epocale nella leadership, messa in contatto diretto con il voto – e il gradimento – dei cittadini. Questo modello, che è stato il simbolo della forza e radicamento del Pd, oggi ne mette a nudo la crisi. La sconfitta nelle grandi città – da Roma a Napoli, da Torino a Venezia – coincide con il tracollo più ampio dei democratici in tutto il paese. La stessa ascesa di Matteo Renzi, che era sembrata inarrestabile, invertì bruscamente la rotta con la disfatta alle amministrative nella primavera del 2016.

Non si è trattato però di una semplice alternanza. Il ricambio di classe politica alla guida delle metropoli ha aggravato la loro condizione di decadimento e degrado. Gli esempi più eclatanti sono al Sud, con Napoli e Roma in preda a un vero e proprio collasso etico e gestionale. Ma anche Genova e Torino versano in condizioni non molto migliori. Segno che c’è uno scollamento più profondo tra politica e cittadinanza, che coinvolge anche gli altri partiti oggi sulla cresta dell’onda. Sul fiasco di Roma capitale i cinquestelle si stanno giocando buona parte del loro appeal innovativo. La stessa Lega – paradossalmente – può ancora vantare un efficiente pedigree amministrativo anche perché non si è ancora misurata con le sfide metropolitane. Il Pd potrebbe, dunque, consolarsi con il «mal comune mezzo gaudio». Rassegnandosi a non prendere di petto il problema. O potrebbe ripartire dall’unica, rilevantissima eccezione a questo quadro. L’esperienza di Milano, assurta in pochi anni – sotto la guida di Pisapia e di Sala – alla ribalta del buongoverno europeo. Facendone una bandiera di riscatto, e un laboratorio strategico.

Il modello Milano contiene, infatti, numerosi messaggi – pratici e simbolici – per la stagione congressuale. Il primo è quello di un campo largo di forze del centrosinistra, forze anche molto diverse ma animate da alcuni capisaldi valoriali comuni. Andrebbe in questa direzione il listone di cui hanno cominciato a parlare alcuni leader Pd ed anche il segretario uscente – ieri al Forum Pd – in vista della prossima tornata per Strasburgo. Ampliare i confini serve, però, solo a condizione che la politica faccia un passo indietro. Non si tratta di rinverdire i fasti più che usurati del governo dei tecnici. Ma va preso atto che a portare Milano sulla cresta di questa nuova stagione non sono stati i vecchi partiti. Ma un risveglio di classe dirigente e di spirito civico diffuso che restano gli ingredienti irrinunciabili di qualsiasi rinascita che vada oltre la superficie – e la durata – di un selfie.

Un Pd modello Milano sarebbe anche il modo migliore per riposizionare la sfida con la Lega e coi Cinquestelle su un terreno più costruttivo. Fino ad oggi, l’opinione pubblica più informata ha avuto buon gioco nel fare le pulci alle molte contraddizioni – ed improvvisazioni – della compagine gialloverde, poco organica e pochissimo collaudata. Ma, all’elettorato di massa, questa critica appare soltanto distruttiva. Ancor più perché proviene da chi non è riuscito – nei cinque anni passati – a proporre soluzioni convincenti. Un confronto che parta dai meriti guadagnati sul campo, e dalla formula di alleanze per realizzarli, aiuterebbe il Pd a liberarsi dalla tabe che lo sta autodistruggendo. Parlare solo di chi ha sbagliato più forte. All’interno come verso l’esterno. Mentre ai militanti – e agli elettori – servirebbe una ventata di ottimismo.

(“Il Mattino”, 28 ottobre 2018)

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*