Le strategie di Bruxelles tra attacchi e finzioni

La Commissione europea ha bocciato il 23 di ottobre la manovra di bilancio. Questo esito era scontato ed è stato preannunciato da entrambi i leader dell’attuale maggioranza di governo. Entrambi hanno dichiarato la propria indisponibilità a prendere in considerazione un piano B: il deficit per il 2019 è stato fissato al 2,4% e tale resterà, anche se Giuseppe Conte ha tentato di rassicurare la Commissione con la promessa che questo limite sarebbe diventato una frontiera invalicabile.

Venerdì scorso l’agenzia Standard & Poor’s ha comunicato l’aggiornamento del rating per i nostri Btp, non vi è stato declassamento ma è stato portato a negativo l’outlook, valutazione migliore di quella formulata precedentemente da Moody’s, che tutto sommato si spera non farà esplodere una drammatica reazione dei mercati che l’hanno già scontata e permetterà all’esecutivo di affrontare senza affanno il suo contenzioso con Bruxelles. Gli scenari possibili sono due, tenere duro senza cedimenti oppure impegnarsi a sfumare alcune posizioni con proposte del tipo revisione della spesa circa il reddito di cittadinanza e legge Fornero, magari ritoccando in senso più riduttivo le condizioni per aderire ai benefici di entrambi o di una delle due misure. Tutto dipende se esiste una reale volontà da parte dei due contendenti di venirsi incontro.

Ora anche i più sprovveduti di noi hanno capito che in questa contesa non giocano un ruolo fondamentale i decimali del deficit ma stiamo assistendo ad uno scontro campale tra l’establishment politico-burocratico europeo e il primo governo populista determinato a soppiantarlo con l’abbattimento. Questo spiega i toni aspri e ultimativi da parte da parte di Bruxelles che non può permettere che a pochi mesi dalle elezioni europee i “sovranisti” chiedano buone condizioni per avviare una crescita economica quando la parola d’ordine risuonata in questi anni è stata “risanamento”. Tuttavia l’Italia non chiede di sforare il tetto del deficit del 3% e ma di fissare per il prossimo anno il limite del 2,4%, inferiore a quello del 2,8% della Francia e del 3,1% del Portogallo, per cui “eccessivo” sembra un termine poco adatto a definire il peso della nostra richiesta. Ricordiamo che il nostro paese vanta un avanzo primario al 2% del Pil al netto degli interessi sul debito e che potremmo chiudere il nostro bilancio con un extragettito di due punti percentuali, mentre la Francia presenta un cronico disavanzo dell’1%. Si risponderà che l’Italia ha un debito del 130% del Pil, notevole indubbiamente, ma solo del 30% superiore a quello della Francia per il quale paghiamo interessi maggiori del 100% rispetto a quelli francesi. La spiegazione? Carenza di fiducia nelle nostre istituzioni, governi instabili e poco integrati nella cabina di comando dell’Eurozona. Insomma non si fidano di noi, godiamo di poca considerazione come testimoniano anche le battute pesanti che i commissari Ue si permettono di fare, paragonandoci addirittura alla Grecia, che ha un Pil pari a quello della provincia di Treviso. La Commissione rischia di avere compiuto un errore cedendo ad un pregiudizio ideologico nei confronti del nostro governo ai loro occhi ribelle. E’indubbio che la contesa aumenta il clima di tensione dei mercati nei confronti del nostro paese, ma non siamo più nel 2011 quando sotto i colpi dello spread si squagliava il governo Berlusconi tra le risate di Merkel e Sarkosy. L’attuale governo gode della fiducia della maggioranza degli italiani che viene confermata ad ogni prova elettorale. Se lo spread esplodesse, i problemi dell’Italia diventerebbero in un attimo i problemi di tutta l’Eurozona, ricordiamoci che siamo too big to fail ma anche troppo grandi per essere salvati. Se cade Roma ci sarà l’effetto domino su tutte le altre capitali europee, ad eccezione forse di Berlino, e in un amen l’Euro si dissolverebbe. Se Bruxelles pensa di poter fare ogni volta la voce grossa contro l’Italia senza conseguenze, è possibile che possa ritrovarsi alle prese con una seconda Brexit quando le pratiche del divorzio dalla prima non sono ancora concluse. Ma poi che benefici trarrebbe l’Europa mandando l’Italia a sbattere?  Più logico trattare col nostro governo un punto di convergenza.

Esistono inoltre in questa vicenda alcuni fattori da prendere in considerazione, tra questi il fattore Mattarella che, all’inizio della settimana scorsa, ha invitato i partiti di governo al rispetto degli equilibri di bilancio in ossequio agli impegni internazionali assunti dall’Italia e in funzione della stabilità che protegge i diritti dei più deboli. Mattarella dirà l’ultima parola apponendo la sua firma sul testo della manovra approvata dal Parlamento per renderla esecutiva. E se non firmasse appellandosi all’art. 81 della Costituzione che dal 2012 prevede il pareggio di bilancio?

Il fattore Mario Draghi, governatore della Bce, che oggi emerge quale unico grande leader tra gli attuali europei. Già a Bali, al meeting del Fondo Monetario Internazionale, aveva affermato che non è la prima volta che in Europa un governo divaga dai suoi obiettivi fiscali, che il nostro spread è esploso, più che per gli zero virgola del deficit, per i timori che i mercati hanno circa la presa in considerazione ad un ritorno alla lira, alludendo a dichiarazioni sull’uscita dall’euro fatte da esponenti della maggioranza (Borghi), e ha invitato tutti ad abbassare i toni, in particolare ha fatto capire ai commissari di Bruxelles che, nel caso la situazione sfuggisse loro di mano, di non arrischiarsi a pensare che la Bce possa togliere loro le castagne dal fuoco. Nell’Ultima riunione del Consiglio Direttivo della Bce di martedì scorso, a Francoforte, Draghi ha aggiunto che non può fare nulla per finanziare il deficit di un paese dell’Unione e che a lui è affidata la politica monetaria e non quella fiscale.

Infine il fattore tapering. Da inizio ottobre la Bce ha cominciato a dimezzare gli stimoli monetari cioè si passa a 15 miliardi di euro al mese per arrivare all’azzeramento del Qe con la fine dell’anno. L’Italia, inutile nasconderselo, non è preparata a farne a meno e a rivolgersi a investitori privati per rifinanziare il debito. Ad esserne però preoccupati ci sono anche altri governi, la Francia, la cui economia è in rallentamento e il debito in crescita. E’stato scritto, mentre infuriavano le polemiche sullo spread italiano, che la Germania, non l’Italia, oggi si troverebbe sotto assedio, con la Cancelliera ormai ridotta ad anatra zoppa per i suoi molti errori e sul viale del tramonto dopo i risultati delle recenti elezioni in Baviera e Assia, con lo spettro dei dazi di Trump sulle auto tedesche e il problema di Deutsche Bank che ha in pancia 22 miliardi di euro di derivati e capitalizza 21 miliardi rischiando quindi la fine di Lehman. Senza le politiche espansive della Bce non sono solo a rischio la tenuta delle nostre banche ma anche di società e banche francesi e tedesche che traggono beneficio dal Qe per rifinanziare i loro debiti a costi pressochè nulli.

Tutto questo sicuramente lo sa anche Draghi che però da tempo ha dichiarato ai mercati che a partire dalla fine dell’anno non acquisterà più asset e manterrà i tassi fermi sino alla metà del 2019. Una banca centrale non può venire a meno alla parola data altrimenti perderebbe di credibilità, a meno che il quadro economico finanziario non muti drammaticamente. Occorre un pretesto da servire a Draghi per offrirgli una scusa credibile da pronunciare dopo l’indimenticabile whatever it takes che ha funzionato nel 2012, una scusa che i mercati attendono con ansia, magari un semplice “spiacenti, ci siamo sbagliati”, per far decollare un nuovo Qe, magari con un altro nome o forma, perché l’euro è a rischio. Si rivela dunque la strategia che forse ci sarebbe dietro i furenti attacchi contro Roma e il governo dei due “nuovi fratelli De Rege” populisti e incompetenti. La crisi dello spread, così aspra e tumultuosa, forse è stata scatenata dalla Commissione per costringere la Bce a proseguire con gli stimoli monetari. Si tratta di vedere se funzionerà. Lo sapremo solo dopo le elezioni americane di metà mandato, se Trump le vincerà e riuscirà ad ottenere un allentamento della politica dei tassi restrittivi che una Fed “fuori di testa”, secondo il presidente Usa, ha messo in atto dopo i risultati di piena occupazione e di forte crescita dell’economia americana, allora, solo dopo che l’America inizierà ad arretrare con le politiche restrittive, potrà seguirla anche l’Europa.

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