Hölderlin e le “poesie scelte”

1843, Tübingen, Germania. In una stanza (chiamata la torre per la sua architettura) di casa Zimmer, dove è ospitato/accudito da oltre tre decenni, Hölderlin riceve gli ultimi, devoti visitatori cui regala brevi composizioni scritte di getto. Sono le cosiddette poesie della torre: estremi lasciti/lacerti del grande poeta. Una quieta ma incurabile follia lo abita, tuttavia appare sempre ispirato. Il motto con pseudonimo che egli pone in calce alle ultime opere, dalla datazione incongrua, è straniante: “mit Untertänigkeit (con umiltà/devozione) Scardanelli”. Ma la poesia, vergata pochi giorni prima di morire e che pone fine alla sua vastissima produzione, pare scritta oggi tanto è icastica, allusiva e soprattutto vicina alla sensibilità contemporanea: così priva di certezze ma vogliosa di trovare un senso, sia pure immanente, al qui ed ora del nostro hiersein, del nostro esserci, per dirla con un altro poeta, Rilke.

“Quando lontano va la dimora della vita,/ dove lontano splende il tempo della vite,/ là è anche il campo vuoto dell’estate,/ la selva appare d’immagini oscurate;// che la natura compia l’immagine dei tempi,/ permanga lei, loro corrano svelti,/ allora è perfezione, l’alto dei cieli splende/ all’uomo, come gli alberi di fiori si coronano”.

Dove/come inquadrare allora un simile artista? Taluni critici vedono senz’altro in questo vate, vissuto tra Sette e Ottocento, il poeta che pone fine alla classicità; altri lo ritengono il primo versificatore dell’età moderna o l’ultimo dei romantici. Di certo egli è stato uno dei più significativi lirici europei. Certamente nessun coevo ha colto, alla pari di lui, i segni di una crisi che − alla fine del secolo, solo a metà del quale Hölderlin è scomparso − porterà con Nietzsche alla morte di dio ovvero alla fine della supponenza d’un pensiero metafisico, di un logos sedicente in grado di esprimere verità definitive o principi assoluti (termine di derivazione latina che significa sciolti da ogni contingenza). Crisi dell’intero Occidente, destinato a volgersi davvero al tramonto nel Novecento: senza più dei a cui rivolgersi e senza nemmeno più grandi narrazioni, fedi ideologiche alle quali ancorarsi o punti di riferimento stabili e condivisi per orientare l’incerto cammino di una parabola esistenziale tutta terrena, ma senza stelle fisse all’orizzonte.

Hölderlin, come gran parte di noi, si sente dunque orfano degli dei; anche se − come osserva Susanna Mati nell’introduzione all’antologia hölderliniana Poesie scelte, da lei curate e tradotte per la Casa Editrice Feltrinelli – egli rimane pur sempre in attesa: “del nuovo sacro, di un dio a venire, di un riconciliatore dell’eterna tragedia umano-divina”. Quindi, al pari di tutti, il Nostro deve fare i conti col “tragico” − inteso quale espressione dello scontro tra intuizione e ragione, sentimento e dato di realtà; come puntuale scacco nel continuo gioco tra finitudine e inappagato anelito nei confronti dell’oltre-altrove per eccellenza costituito dalla sete d’infinito − che il poeta tedesco non si illude certo ingenuamente/romanticamente di esorcizzare. Se la tragedia è la caducità di un essere (l’uomo) che ambirebbe a ricongiungersi/riconciliarsi col tutto eternamente vivente del mondo universo; se il nostro dramma, come più tardi ribadirà Rilke, è l’aver preso le distanze dalla natura individuandoci come soggetti separati e destinati alla morte, allora il nostro fato è nel segno di una lacerazione difficilmente sanabile. Compito del poeta, a questo punto, non può essere che – come osserva ancora Susanna Mati − rimanere sotto le tempeste del dio a capo scoperto, in quanto egli: “sa di dover afferrare, con la sua mano pura, senza delitto, la folgore del Padre, per porgerla poi ai mortali avvolta e mitigata nel canto”.

Ma l’arciere divino Apollo, nume della poesia, colpisce troppo forte il Nostro. È lo stesso Hölderlin ad esserne consapevole e giusto questa immagine egli utilizza in una lettera del 1802, sentendosi ferito/offeso nella mente. Sarà l’inizio di una pazzia destinata a divenire devastante e che lo accomunerà ad un altro grande Friedrich, Nietzsche, incapace forse di elaborare il lutto della morte di dio. Per trentasei anni, accennavo sopra, il poeta vivrà recluso nella sua torre, tentando con sforzi sovrumani di riorganizzare i propri pensieri e i propri versi, sempre più tesi nel titanico e disperato sforzo d’afferrare/dire l’indicibile. Fino alla fine, sino alle conclusive a loro modo pacate ed al contempo abbacinanti poesie, con cui il vate cerca di consegnare un ultimo dono agli uomini che sia motivo, se non di speranza, almeno di non-disperazione rispetto alla fatica del vivere. Come questi due versi dal tono profetico e consolatorio: “Ciò che qui siamo, un dio compirà altrove/ in armonia, eterna ricompensa, pace”.

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