“Anima e Mondo”: Risorgimento e Socialismo in Sicilia

Ho già detto qui (15 gennaio 2019) alcune cose sul mio recente libro “Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni. L’idea della rinascita nel XXI secolo (Golem Editore, Torino, 2018, pagg. 443, E. 32), che sarà in libreria il 31 gennaio. Ho pure espresso, in tale contesto, il mio proposito di darne alcune anticipazioni in pezzi ulteriori. Ho ricordato che il libro – scritto in gran parte in prosa poetica – dopo un impegnativo “Prologo” filosofico e storico, si compone di tre parti:” L’Anima nel Mondo” (ossia la psiche, mia e collettiva, nella storia e politica); “Il Mondo nell’Anima” (la mia psiche in senso più interiore e personale, in specie di tipo onirico) e “Anima e Mondo” (la psiche alla ricerca di una nuova armonia e “vision”, motivate sia interiormente che politicamente: ultima parte, in forma saggistica). La prima parte – che direi psicostorica – va dal 1892 a oggi. Ma il punto di partenza – ben inteso dopo il “Prologo” – è il Risorgimento, da cui dopo un ventennio procedette pure, anno dopo anno, il socialismo italiano, che prima si confuse e sin dal 1892 si divise dal movimento libertario, ossia anarchico. Infatti il capitolo in cui ne parlo s’intitola: “Socialisti e libertari”. Ma siccome i miei antenati sono stati per molti secoli siciliani, e tra essi c’è stato un bisnonno che nel 1860 era garibaldino, con lo zio, partito con lui (trombettiere a Calatafimi), e suo padre – il solo che si fosse laureato prima di mio padre e del sottoscritto – medico mazziniano del paesello, arrestato nel 1848 (come risulta dalla “Storia di Riesi”, di Salvatore Ferro, Caltanissetta, 1933), e il figlio del garibaldino, col nome del nonno, che era il mio nonno materno (un calzolaio, naturalmente un po’ miscredente e anticlericale); e siccome nel 1892/1893 ci furono i fasci siciliani, ossia la prima rivolta della “povera gente”, repubblicana e socialista, della storia d’Italia, nel fare i conti con il socialismo e comunismo – così decisivi nella mia vita di cittadino e di studioso – mi è piaciuto partire di lì (e “di là”). Ma la mia famiglia – nel ramo materno dal 1918, e in quello paterno dal 1922 – emigrò presto a Torino, abitando nel grande Borgo San Paolo (della classe operaia) sino al 1949, tanto che proprio lì nacqui io (nonché altri tre fratelli e una sorella, tutti all’Ospedale Maria Vittoria), anche se poi – quando mio padre divenne direttore dell’INAM – girai varie città, arrivando nel 1961 in Alessandria – però tornando sempre ogni anno nel Borgo San Paolo natio di Torino da zii varii e sentendone parlare per tutta la vita – mi è piaciuto ambientare in tali luoghi – ossia nell’”isola” e nel Borgo San Paolo – le vicende del socialismo nascente tra 1892 e Grande Guerra: mettendo insieme studi storici, racconti di genitori parenti e amici, e riflessione, nella deliberata mescolanza di generi che connota l’opera. In tal caso vado qui appunto al capitolo “Socialisti e libertari”, in cui si parla di socialisti e anarchici (pp. 37/67). Trascelgo i brani fondamentali di tale capitolo, indicando al modo classico – (…) – la parte non piccola di testo che per semplicità salterò. La parte che segue concerne la Sicilia tra Risorgimento e primo socialismo. Seguirà quella su socialisti e libertari nella Valle Padana, e in specie nel Borgo San Paolo natio, la prossima settimana.

“Con rosee dita sorge l’aurora, la dea del tempo come durata, il sogno di un mondo diverso in cui il tempo non sia denaro sicchè ciascuno viva per tutti, ma perché tutti son per ciascuno.

  Da noi arriva dal Risorgimento, dai volontari in camicia rossa, alquanto inquieti dopo il Settanta contro il governo dei liberali conservatori. Vogliono andare ognora “al popolo”, sempre anelando alla battaglia per la giustizia e la libertà se mai li chiami il loro Eroe. E intanto sorge il “sol dell’avvenire” in seno alle Società operaie, tosto evocato da Garibaldi, nel quale queste si riconoscono. Per lui è lo spirito del socialismo, pure confuso col radicalismo.

  L’astro risplende dalla Sicilia, per quanto arcaico fosse quel mondo, con pochi tratti di capitalismo (la base stessa per superarlo). Cambiar le cose non fu mai facile in quella grande isola bella perché ivi latita l’essere stesso del Capitale, il quale certo vuole godere mentre s’impegna per guadagnare, ma soprattutto vuol reinvestire – per quanto possa – il suo denaro per comperare materie prime, tecnologia, e soprattutto forza lavoro (l’energia psichica e insieme fisica che muove tutte le sue intraprese, fatta di quanti di salariato). Altro è il sentire del siciliano, non propriamente capitalistico: non per un limite della sua gens, ma per lo spirito che viene da lontano, quasi un millennio prima del Cristo, quando i padani erano al Neolitico mentre gli elleni già s’insediavano sopra le coste della Trinacria. (…) Mito di Mida è nei precordi, è un vero archetipo e greco e siculo, ma sol per quello che voleva dire nella sua forma originaria: che il feticismo della merce – spirito stesso del Capitale – in nessun caso deve incantare. (…)

  Sileno arcaico, ‘sì caro a Dioniso, aveva perso la propria strada, con dispiacere del grande dio. Il satiro aveva troppo bevuto, e pur scopato sotto la luna con qualche ninfa delle sorgenti. Mida l’aveva bene guidato sino agli amici ed al suo dio. Dioniso, grato, gli aveva dimandato di esprimere il suo maggiore desiderio, che immantinente egli avrebbe realizzato. Il re rispose che avrebbe voluto che quel che toccava si mutasse in oro. Rise quel dio e tosto sparve. Il re rimase senza mangiare: rendeva d’oro persino il cibo (ché “mai la merce sfamerà l’uomo”, come dirà un dì Bordiga). E molto presto Mida sarebbe morto se il grande dio, immantinente, la grande grazia non gli avesse tolto, dopo essersi fatto molto pregare: così insegnandogli a godersi il mondo senza lo spirito d’attaccamento, che ognor ruina la vita umana. (…)

   L’uomo del popolo non è Renzo Tramaglino, eroe operoso sul lago di Como, il faber pius del grande Nord, al sud presente, ma come caso limite del paganesimo mediterraneo (sia lui Gesualdo o Mazzarò, i “vincitori” che quivi sono “i vinti”). Il siciliano non vive per accumulare, o pel connesso continuo lavorare (come ha ognor fatto l’uomo padano). Appena può vuole godere, e vuole farlo quanto si può: spesso infrangendo qualsiasi norma. Dentro il suo cuore rimane un bacchico. Prima di tutto vuole gioire perché domani dobbiamo morire, e lui lo sa persino troppo bene, tanto che forse non lo scorda mai. Nella sua psiche sonnecchia Dioniso. É ormai dio inconscio, ma è sempre “lui”: il dio figliolo di una mortale, la bella e dolce madre Semele, che il grande Zeus, ognora in fregola, intensamente aveva amato; e poi, temendo pel nascituro l’ira funesta della sua Era, aveva celato il feto nella coscia, da cui a suo tempo sarebbe stato generato (a meno che non fosse il pene, un po’ occultato dal mito antico per reticenza del narratore, pure in un culto ‘sì trasgressivo, nel quale l’eros era religione, ben praticata dal primo dio). Quel culto in sé tanto libertario, in cui le menadi seguivano Bacco e Arianna – in cui pareva esserci Cibele (o fosse pure la libidinosa Venere) invece della castigata Atena – sarebbe stato poi detestato dal truce nazi Alfred Rosenberg, nel Mito del XX secolo, ma invece amato da Wilhelm Reich, nella Psicologia di massa del fascismo, che dello spirito detto dionisiaco in fondo fece la sua scienza nuova:  per non parlare del caro Nietzsche, che dall’oblio aveva tratto Dioniso sin dal lontano 1872, nella sua Nascita della tragedia: arte teatrale e vita come arte, il cui segreto sarebbe stato lo spirito stesso del dio remoto, per lui archetipo del greco spirito, che nella vita coglieva la morte, e nella morte la vita risorgente, che però è buona e bella eternamente, come si evince da Omero a Sofocle: anche se ivi l’armonico Apollo, come un antidoto assai benefico, equilibrava il vivere per godere, e pure il vivere che se ne scappa via, ma per rinascere un’altra volta, come se fosse vita da vita, di cui il dionisiaco è sempre alla ricerca, tanto nell’attimo che eternamente: persino tramite la morte ria. (…)

Stratificazioni dopo gli elleni – fossero arabe come normanne, francesi e poi molto spagnole – non han dissolto quel primo humus; talora anzi l’han rafforzato, col fatalismo dei musulmani, non inferiore a quel di Omero, e l’arroganza dei ricchi iberici con loro mani spesso bucate (però giammai per il lavoro, per essi degno del “vile meccanico”). Ivi chi è ricco vuol viver bene. È la “morale” del siciliano. Più che investire, vuole godere. Per la miseria non si scompone. Ritiene che sia naturale come l’abisso nel grande mare, in cui si può pure affogare, ma che è da prendere così com’è se uno un poco sa “stare al mondo”, il quale va come si sa, “e devi fartene una ragione se non vuoi essere come Giufà, il tipo arcaico dell’uomo fesso (ché ‘chi si fa pecora, il lupo se lo mangia’”).

  Questo sarebbe il destino nostro, fragrante e amaro in ogni tempo, specie allorquando sprizza la vita, proprio nel mezzo degli anni verdi. L’uomo indigente è rassegnato, almeno dentro la propria isola: si dice e è detto un uomo “sfortunato”, o addirittura “un poverino” perseguitato dalla “malasorte”: “ogni animale va ognora al pascolo condotto dalla frusta del dio”, come affermava Eraclito antico nel VI secolo avanti Cristo. Il lavorare non è riscatto dentro i precordi dei siciliani; ma senza quello latita il seme delle “fiorite” nuove “primavere” caratteristiche “del Capitale”, che sorge sempre da un darsi da fare il quale venga spinto allo spasimo, ai piani bassi come negli alti di tutta la vita sociale: per trasformare il sudore in soldi com’è accaduto in tutto il Nord, in cui persino il proletario – pure a dispetto del nostro Marx – spesso è “un borghese che non è riuscito”, come diceva un dì Céline, forse sbagliando e forse no (tanto smentito che confermato dentro la storia del proletariato, che al nostro tempo è alquanto simile all’opinione del gran maudit). Dentro quell’isola il lavorare sembra a moltissimi destino amaro, anche allorquando viene accettato “perché si deve pure mangiare” e, “senza niente”, non si può godere, e si può andare pure in prigione, anche se questo “può capitare”, e a molti non pare da deplorare (però, potendo, se ne fa a meno). Sentono la vita che scappa via, la voglion bere pure dal fiasco, come se fosse l’ultimo sorso. Non c’è lo spirito di Giovanni Calvino, per cui il lavoro è un tratto forte del buon cristiano e cittadino, che per lui erano due in uno qual ideale dentro il sociale: benché un’élite lo apprezzi assai pure all’interno della Sicilia, come facevano gli antenati miei, e pure alcuni lor discendenti, prima del fascio tutti valdesi, anche se alcuni erano miscredenti, in specie i figli dei garibaldini, che detestavano da sempre i preti, da quelle parti detti parrini. “Miracoli e santità se ne credono sempre la metà della metà”, diceva infatti un mio bisnonno; “e un piezzu”, poi aggiungeva il figlio suo – da cui derivo nome e cognome – perché per lui era ancor troppo. Un altro nonno, sul suo deschetto – anche a Torino dopo la Grande Guerra, da lui passata alla Cernaia a fare scarpe per i soldati, e pure selle pei lor cavalli, e poi rimasto sempre quassù, al pari dei genitori miei, venuti quando erano infanti – mentre batteva su una tomaia, quand’era allegro così cantava: “Sant’Antuninu, quann’eru malatu, fici lu vutu d’annare in Turchia. Ora cha sugnu, santu, sia ludatu. Che ci’aggia a fari sino in Turchia?” Valori forti là son diversi da quelli dell’accumulazione per la gran parte della popolazione. Stella polare, gioia di vivere, imperativo del siciliano: fuori di essa vita non vale per ogni uomo di quelle parti. Ma resta ognora la malinconia, persino mentre si fa all’amore, ed oggi forse dentro lo sballo, talora con la letale eroina: perché la morte comunque incombe, sicché ogni eros che si scatena è insieme vita che si sfarina. Vidi la crozza e me lo disse, antico canto dei siciliani, pur adattato in anni recenti, che si può dire lor “Va pensiero” in quanto esprime l’anima loro come quell’altro per “i lombardi”.

  Ma dopo i Mille qualcosa cambia, e ancora più decenni dopo, dentro quel secolo XIX: benché il gran moto fosse eruzione, ma di un vulcano poi non più spento, almeno in modo integrale (per un anelito proprio dell’uomo, quando una volta sia fuori emerso). (…)

  Camicia rossa ha scosso i cuori, ha scatenato la fantasia d’innumerevoli tra i siciliani, che sempre sognano i paladini mentre contemplano i pupi loro, ancora amati da un nonno mio. Ma pure se non se ne curano, tanto che ignorano persino Orlando, i lor modelli son sempre quelli equipollenti a Ettore e Ulisse, poi incarnati dai cavalieri in movimento con lancia in resta, alla ricerca della bella Angelica: tutta la vita come avventura per ogni “eroe dai mille volti”, che è poi lo stesso di Joseph Campbell, o solitario vendicatore, come nel cinema di Sergio Leone e nella musica di Morricone; pure Giuliano di Montelepre, un mito vivo per molta gente, laggiù per tanti tra gli isolani, almeno al tempo del tempo suo, qual Robin Hood (“prendeva ai ricchi e dava ai poveri”), o sino ai due nemici veri del triste Giorno della civetta, il capitano contro il padrino, testimoniati da Leonardo Sciascia.

  Un uomo vero vuol “farsi onore” – in quella grande isola bella – con le intraprese le più rischiose: non solo quando si fa bandito, ma pur se è onesto quant’altri mai; bene comune è conseguenza persino per l’uomo morale, per questo Io inflazionato, che mira in primis ad affermare la volontà della potenza pure se lotti per l’ideale. Neppur primario è il farsi ricco, salvo per pochi borghesi veri, che voglion solo investire il loro; piuttosto conta il farsi ricco o appartenere alla gens de bien. per “far vedere” la propria “roba”, evidenziando la propria gloria, che il buon cristiano e laborioso in tutto il nord vuole occultare (…): là invece conta solo l’“essere qualcuno”, ché “cumnnari è megghiu dellu futtere”, come diceva il mio nonno omonimo. Vero obiettivo di chi là arricchisce, o che tal resta difendendo “il suo”, è dimostrare d’”essere qualcuno”: perciò esibendo soldi e potere. (…) Il primeggiare è il primo pensiero, in specie dentro quell’ampio ghénos; o quantomeno il prevalere, “o con le buone o le cattive”. Un uomo vero deve lottare per affermare il proprio “onore”: perciò ciascuno vuol far l’eroe, o almeno vuole sembrare tale, anche soltanto “miles gloriosus”, uno smargiasso di tipo dozzinale. Vuole affermare il suo potere persino quando lotti per tutti. Gli altri ci sono, si può difenderli, e pure amarli, ma sono un passo dopo il proprio Ego, persino quando si muoia per loro. Il narcisismo laggiù è nel conto, persino all’ombra dei grandi cuori. L’ego sovrasta ogni pensiero, pure nell’uomo più generoso.

  Ciascuno ama i propri eroi, talor gli eroi del banditismo, ma pure quelli di tutto il popolo, qual Garibaldi nell’Ottocento, che con i Mille scacciò i Borboni. Tra i volontari c’era un mio bisnonno, che da Riesi giungeva a Napoli, corso a combattere col proprio zio, il trombettiere di Calatafimi, mentre suo padre, Emanuele Matera, medico dentro la little town, nel 1848 stava con Mazzini, finiva in carcere a Caltanissetta, portato ivi dal suo paesello, come narrava Salvatore Ferro,

nella sua Storia di Riesi nel 1934. Laggiù a Riesi un agricoltore, padre del padre del padre mio,

pure Filippo com’era lui, dentro le mura del “conventino” – il nostro antico mitico cummentu,

da lui comprato nel 1876 (come narrava lo stesso Ferro) dopo che i frati eran fuggiti proprio nei giorni di Garibaldi come dicevami il padre mio mentre parlava del babbo suo – invece scettico impenitente – faceva ballare i tavolini, pure suonare da sé un violino con il pastore valdese amico per penetrare il gran mistero oltre la morte che ovunque incombe come un vicino che ti odi assai, ma che dal sito non puoi scacciare anche se lui ti può ammazzare in qualsivoglia giorno dell’anno.

Anzi, la morte lo farà comunque: come nel nostro Settimo sigillo del sempre amato mio vecchio Bergman: potrebbe farlo pure tra un secondo, sicché il sapere quel che c’è dopo – pure se dopo non ci fosse niente – è vocazione di chi è “sapiente”, di chi si chiede perché sta al mondo, da dove viene e dove va; e se lo chiede pure ogni giorno, mentre l’insipiente rimuove il pensiero, lo dice “roba da intellettuali”, benché connoti gli esseri umani proprio perché essi son tali: non sol “gettati” di qua o di là come i fratelli nostri animali. Quel buon Filippo là molto amato – che un suo poemetto ci ha pur lasciato, ancora inedito ai giorni miei, in cui discute col pastore valdese amico su questo nostro destino estremo nell’ancestrale suo siciliano quale poeta e contadino, e che gli spiriti ha interrogato con questo suo pastore amico, e ipnotizzava i compaesani – persino il suo piccolo Francesco, che non riusciva a risvegliare pure per ore in un certo giorno, sicché la moglie lo voleva ammazzare – forse in me stesso si fa sentire, forse in me stesso è trasmigrato: il mio “junghismo” viene da lontano, forse persino il mio poetare, confuso ognora col filosofare, che in cento anni si è raffinato, ma in fondo resta sempre lo stesso: pàthos ognora pregno di lògos e lògos sempre pregno di pàthos, che nell’umano son due in uno. Il suo podere era “l’allampato”, e pure in questo io mi ritrovo, ché l’homme qui cherche può pur parer svanito come Talete di Mileto antica, che concentrato sul cielo stellato, di cui sapeva molti misteri, un giorno cadde dentro ad un pozzo, e ne rideva la servetta tracia – come Platone narra nel Teetéto – dicendo che mentre scrutava i cieli poi non sapeva dove metteva i piedi; ma questo aveva un senso profondo, che pur Platone ha ben spiegato, poiché la psiche vuol superare il mondo nel fìlos della propria sofìa, che spesso vede il raggio di Dio, o un infinito che lo equivale, illuminare la sua fosca notte, il fondo stesso della caverna umana, mentre s’interroga sopra il mistero che tutto avvolge l’essere nostro. L’uomo qualunque non lo può vedere. Non può nemmeno crederlo vero. Pensa di avere avuto le traveggole. L’essere cela bene il mistero a chi non viva oltre il mondo vano; “l’altro” lo vuole sempre oltrepassare, talora a costo di finire male, oppur rischiando la propria ruina, ma in una vita come ricerca, cui non rinuncia l’uomo più umano.

  Ma c’era pure un ambito sociale quale sentiero per una vita nuova, persino dentro la contingenza (per quanto sempre in “controtendenza”), a pochi anni dall’Unità, anche nel cuore della Conca d’oro, o dove brontola ancora l’Etna, o intorno ai templi d’antica Girgenti. Echi di Napoli e di Firenze, Roma, Torino e pur Milano, infatti arrivano anche laggiù, non solo al tempo di Garibaldi, ma a dieci anni dal Novecento. Allor miseria non è più accettata, non è tenuta come “normale”, dopo il ‘60 e pure oltre, sino alle soglie del Novecento: è quantomeno spesso contestata da un’avanguardia della popolazione: la minoranza qualificata di proletari e intellettuali che si rinnova a ogni generazione, ristretta come la borghesia allor presente tra gli isolani. Sono due élite con poco popolo, almeno nei tempi “normali”: però talora le masse “si fanno persuase”, allorché tutto sembra mutare. Sorgono i “Fasci dei lavoratori”, i memorabili “Fasci siciliani”, che presto accolgono tanti compagni, una legione di gente povera, che vuol giustizia e libertà, pur non sapendo come si fa. Sono presenti persino a Genova, coi loro capi di primo piano quando la sinistra fa la sua unione, il suo “Partito dei lavoratori”, nel 1892. Sicilia è allora tutta in fermento. (…)

Quella che era camicia rossa ora diventa rossa bandiera, “sol d’avvenire” di Garibaldi, che riconobbe i suoi compagni nella Comune e nelle SOMS. Son zolfatari, sono viggiani, son calzolai, son falegnami, sono pastori e carrettieri, nullatenenti morti di fame, tutti raccolti in questi Fasci dei lavoratori organizzati con Garibaldi accanto a Marx. Non manca mai pure Mazzini. I libertari, i socialisti, repubblicani presto diventano fraterna unione; son tutti insieme in queste “comuni”, bene narrate da Franco Renda in Fasci siciliani. Ma il nuovo Stato tutti li schiaccia, d’intesa con la gente ricca, spesso avanguardia dei liberali, con truppe armate e la prigione. È la tragedia del 1893: una Comune dimenticata, che però lascia succo vitale nella Sicilia anche oggidì in tutte quante le parti in lotta.  Sempre Caino uccide Abele: però i fratelli si sanno tali pure nell’ora del sangue sparso (grande segreto dei siciliani). Lo cogli ancora nei Cento passi. Forse è il segreto dei meridionali, in cui riecheggiano le antiche  pòleis, e il fato di morte del nostro Achille, se tu ricordi l’antica Iliade, quando l’eroe era ancor giovine: benché sua madre fosse una dea, la morte prossima era più forte; ma pure typos di un mondo arabo, in cui il destino tutti sovrasta, “ciascun per sé e Dio per tutti”: “Quanno la fortuna vuo’, curcate e duormi”, come diceva un nonno mio, figlio del giovane garibaldino, lo  stesso del “Sant’Antuninu”, Giuseppe Emanuele Matera. Torna e ritorna la jacquerie, ma poi le fila si ricompongono come ci fosse l’eterno ritorno: l’individualismo vi è infatti atavico, specie nel sole della Trinacria. La gente povera è variegata; da troppi secoli è rassegnata a quel che crede un fato amaro che annienta l’uomo in quanto tale e pone ognuno sotto il destino come già Edipo in quel di Tebe, grande tragedia tra padri e figli già quattro secoli prima di Cristo dentro l’Atene dell’immenso Sofocle: s’amano tanto che poi si ammazzano, e dramma atroce dei consanguinei, in cui l’incesto resta latente (“pigghiati la spazzatura di casa toa”), nel mondo mitico, ma pure arcaico, e mezzo greco e mezzo arabo della Trinacria la più profonda. I greci, gli arabi ed i normanni, ma pur francesi, specie spagnoli, hanno segnato molti millenni, han dato impulsi di civiltà trasmessi tra generazioni come in un gioco della staffetta: sicché è immanente tempo assai lungo, che sparge grande saggezza amara in qualsivoglia meridionale, si chiami Verga o Pirandello, o sia Eduardo come Totò. Pur Pulcinella pare così. Tragedia segna persino il riso, che resta sempre un riso amaro, in quanto incombe il male di vivere pure nell’ora dell’allegria, come se fosse inestinguibile: rimane un fondo di malinconia persino tra pazze risate. Ed anche questo è dionisiaco. L’uomo del sud ha poca fede. Persino chi muoia per tutti quanti, crede soltanto nell’uomo singolo: in questo vive per sempre il greco.

                                                                                  (Segue)

1 Commento

  1. Caro o carissimo compaesano, ho conosciuto un Livorsi, che abitava nella zona del convento, e un mio vicino di casa (da bambino)calzolaio, Matera, in Via Balilla, dove sono nato e vissuto per anni, vicino alla famiglia Malerba.
    Ti ho letto casualmente. Sono prete dal 1961… ho pubblicato diversi libri su Riesi. Complimenti per i tuoi. Buone feste natalizie.

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*