In memoria di Carmela Pedone

Carmela Pedone, chi era costei?

Una donna, sofferente come tante altre ‒ come tanti altri ‒ di un profondo disagio psichico/esistenziale che la condusse a cercare asilo nella Comunità terapeutica di Torre Certalda: una struttura sanitaria residenziale per persone con problematiche di natura psichiatrica sita nelle campagne di Umbertide (Perugia). Carmela Pedone, ovvero una poetessa sconosciuta, che sarebbe rimasta tale se un’altra poetessa, Anna Maria Farabbi ‒ in veste di operatrice culturale presso la succitata Comunità tra il 2015 e il 2017 ‒, non l’avesse scoperta e stimolata a riprendere in mano testi poetici e in prosa da lei stesi durante vari anni e soggiorni in questa o quella casa di cura.

Le due donne iniziano così un proficuo lavoro di studio, che indurrà Carmela a rimeditare e (in parte) rielaborare gli scritti fino a quel momento gelosamente custoditi: nel senso letterale del termine ossia in modo guardingo, dubbioso e sofferto. Il risultato, tanto significativo quanto creativo, è un libro che si intitola Frammentario, pubblicato da LietoColle con la prefazione di Farabbi: la levatrice, potremmo dire, di quest’opera d’indubbia poesia, tenendo conto tuttavia di come i testi elaborati da Carmela Pedone si irradino ‒ precisa la maggiormente nota poetessa perugina ‒: ‟tra scrittura narrativa di favole, racconti, transiti autobiografici, e quella poetica con testi di media lunghezza e altri, dove culmina la sua arte, in haiku e brevissime folgorazioni liriche”.

Carmela, nota ancora la curatrice del volume, sapeva di dover morire presto causa un tumore invasivo e, presagendo che non avrebbe visto la pubblicazione della propria opera, (come poi in effetti è stato) la consegnò ad Anna Maria Farabbi con la certezza che quest’ultima avrebbe eseguito il compito affidatole. E così è stato; così ci è possibile leggere quello che potremmo indicare come il testamento spirituale di Carmela Pedone: un Frammentario costituito appunto da frammenti di scrittura riassemblati però con vivacità poietica e sensibilità acutissima. Il libro risulta inoltre una sorta di puzzle autobiografico, mancante sì di talune tessere, ma dalla figurazione complessiva agevolmente decifrabile e assolutamente originale.

Carmela Pedone ama i contrasti, gli ossimori, i paradossi, i parallelismi più inconsueti e audaci. Nella sua prosa ‒ ed anche nei suoi versi ‒ nulla è prevedibile, lineare o scontato. Vedi, ad esempio questa speculare coppia di frasi sulla propria condizione psichica, emblematiche di una contraddittorietà solo apparente; indice semmai di laboriosità penosa/pensosa del patire (e del reagire a) situazioni ed emozioni: ‟È come se l’anima di questa infelicità così enorme e insostenibile fosse, per assurdo, una sorta di gioia, un embrione di gioia. O, al contrario, è come se quest’infelicità fosse il nucleo centrale di una gioia che sta per nascere”.

Ambivalenza emozionale – che implica condanna e grazia al contempo ‒ legata certo alla difficoltà di vivere/sopravvivere da parte di una donna sensibilissima, però non solo riguardo alla propria afflizione ma al Weltschmerz (per dirla con Jean Paul), al dolore del mondo, nella tenace consapevolezza tuttavia che: ‟La vita / finché c’è, / è più forte della morte”; e con un preciso obiettivo da realizzare, di non sempre agevole attuazione: ‟Pensare chiaro / vedere chiaro / respirare chiaro / vivere chiaro”.

Talvolta le strofe di Carmela si tingono d’angoscia o d’allucinazione (‟E le stelle? / Non ci sono più. / Distrutte dal sangue / che esce fuori dalle viscere del cielo”), sino al mutismo, a una catatonia espressiva che implora la cessazione di ogni parola vana/superflua, come testimonia la seguente icastica poesia costituita da un verso solo che è insieme epigrafe, j’accuse, prostrazione e denuncia d’impotenza: ‟Silenzio per favore”.

Altrove la voce di Carmela si fa accorata richiesta d’aiuto, d’affetto. Un umano, troppo umano bisogno di dare e ricevere amore: nutrimento indispensabile all’anima. Oppure esplode in una assordante domanda di senso intorno al non-senso del suo inguaribile malessere psichico (‟Mi chiedo perché perché perché”); quando non imploda nel riconoscimento d’una dolorosa e straniante alienazione (‟Ho avuto / delle lunghe permanenze / negli interstizi / della realtà”); per giungere quindi ad un interrogativo cruciale: ‟Che ne è / della fetta di gioia / che mi spetta?”.

Frammentario termina infine con un ultimo tentativo di riaggregazione, tramite un indice alfabetico che cerca di orientare e biografia e scrittura; dove le lettere dell’alfabeto divengono cifre di una meditazione ‒ o filosofia ‒ poetica. Ed ecco che la parola è vista come: ‟il mezzo attraverso cui l’interiorità esce fuori diventando altro da sé”. Ecco che sull’esistenza ‒ al di là di ogni discorso retorico ‒ viene enunciata dalla nostra poetessa una grande, drammatica verità: ‟non basta essere in vita per essere vivi”.

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