Mi permetto una riflessione. In questi giorni politica e giustizia sono tornate ad intrecciarsi. Mentre la Giunta per le Immunità era chiamata a decidere sull’autorizzazione a procedere per il reato di sequestro di persona nei confronti di un Ministro della Repubblica, i genitori dell’ex Presidente del Consiglio dei Ministri venivano raggiunti dal provvedimento cautelare degli arresti domiciliari disposto nell’ambito di un’indagine per bancarotta fraudolenta e false fatturazioni. E’ un fatto (obbiettivo e inoppugnabile) che nel primo caso si chiedesse di procedere verso un esponente della destra italiana attualmente al governo, mentre nell’altro caso si è proceduto nei confronti dei genitori di un esponente del centrosinistra (forse quello che ancora gode di maggiore sostegno popolare nella fazione politica a cui appartiene). La circostanza che le diverse azioni giudiziarie (e non solo quelle verso Salvini e i genitori di Renzi) riguardino l’intero arco partitico non deve però trarre in inganno, poiché essa non è indice di terzietà della Magistratura verso la politica, bensì è il sintomo del conflitto in atto tra i poteri legislativo e amministrativo (che sono poteri squisitamente politici) da una parte e quello giudiziario dall’altra. Si tratta di un conflitto che ormai perdura (con intensità variabile) dai tempi di mani puliti e che quindi, da allora ad oggi, non si è mai sopito né risolto. Dopo “mani puliti” il potere giudiziario ingaggiò una durissima battaglia con Silvio Berlusconi, battaglia che perdurò per tutta l’epoca “berlusconiana”. Poi ci fu l’avvento di Renzi e del renzismo, che si concluse con l’indagine CONSIP.
Non è però un caso che lo scontro tra potere giudiziario e politica sia sorto all’indomani della riforma del processo penale. Il nuovo codice di procedura penale fu emanato con decreto del Presidente della Repubblica n. 447 del 22 settembre 1988 ed entrò in vigore il 24 ottobre 1989. Appena due anni dopo, segnatamente il 17 febbraio 1992, con l’arresto di Mario Chiesa (esponente del Partito Socialista Italiano), prendeva avvio l’indagine “mani pulite”. Con “Tangentopoli” veniva decretata la fine dell’intero sistema politico che aveva amministrato il Paese sin dalla fine della seconda guerra mondiale.
La riforma del codice di rito sanciva il passaggio dal modello processuale “inquisitorio” al cosiddetto modello “accusatorio”, basato sul principio “dialettico” e sull’asserito bilanciamento dei poteri tra accusa e difesa.
Non di meno, molti dei poteri che prima erano riservati agli organi di polizia venivano ora assegnati al magistrato requirente. Ma proprio questo spostamento dei poteri di polizia portava alcuni giuristi critici verso la riforma ad affermare che col nuovo codice di procedura si stava creando la figura del “super poliziotto”.
Secondo l’art. 109 della Costituzione della Repubblica Italiana, «l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria». La disponibilità diretta è intesa nel senso che la polizia giudiziaria agisce sotto la direzione e alla dipendenza funzionale del pubblico ministero.
Ogni Procura della Repubblica dispone della rispettiva sezione di polizia giudiziaria. Il personale è quello delle forze di polizia italiane (talvolta anche delle capitanerie di porto) scelto dal Procuratore della Repubblica. La Procura generale della Repubblica dispone di tutte le sezioni di polizia giudiziaria istituite nel distretto. Queste sezioni dipendono dai magistrati che dirigono gli uffici presso i quali sono istituite, e gli ufficiali ed agenti addetti non possono essere trasferiti o dispensati se non con il loro consenso e su provvedimento del Procuratore della Repubblica.
Il magistrato del Pubblico Ministero esercita le sue funzioni con piena autonomia e può essere sostituito solo con il suo consenso. Al fine di permettere l’accertamento dei reati, all’organo requirente sono riconosciuti poteri pervasivi quali quelli delle intercettazioni (telefoniche, ambientali e sui mezzi informatici), delle ispezioni, delle perquisizioni e dei sequestri. Allo stesso organo è data la possibilità di richiedere ed ottenere (seppure previo il vaglio di un Giudice per le Indagini Preliminari) misure restrittive della libertà personale in epoca antecedente il giudizio e l’eventuale sentenza di condanna.
A ciò si aggiunga l’utilizzo che si è fatto delle intercettazioni (telefoniche e ambientali) e la loro divulgazione ai mezzi di stampa.
Ma i poteri attribuiti agli organi giudiziari non sono l’unica causa della subalternità della politica ad essi. La politica paga la colpa del conflitto becero, dello scontro “a tutto campo”, in cui l’avversario è considerato nemico e qualsiasi mezzo è ritenuto lecito per batterlo. Così assistiamo ai deputati del PD che urlano “onestà” e contestano la scelta della Giunta per le Autorizzazioni di negare il processo al principale esponente del partito avversario per atti (magari censurabili ma squisitamente politici) compiuti nell’esercizio delle sue funzioni di governo. Assistiamo, dall’altra parte, al compiacimento di una parte della politica (manifestato attraverso il segno delle manette squallidamente rappresentato dal Sen. Giarrusso) per l’indagine sui genitori dei Renzi.
Insomma, se la politica (i politici) non impareranno a proteggere non le singole persone bensì la sfera che loro istituzionalmente compete dalle aggressioni di altri poteri dello stato, la politica resterà per sempre sotto il giogo di questi poteri. Il rischio, non certo voluto dai Magistrati ma comunque concreto, è quello di ritrovarsi, prima o poi, in uno stato di polizia.
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