La bella foto sottostante, pubblicata dal “Piccolo”, ritrae insieme Roberto Pierallini e Rosetta Pasino impegnati nel finale di quella che è stata forse la loro più alta e coinvolgente esperienza interpretativa: Memorie del Gelso, lo spettacolo prodotto dall’allora A.T.A. e diretto da Marco Baliani (la cui aiuto-regista era Grazia Robotti Pierallini).
E’ davvero incredibile: neppure il tempo di scrivere e pubblicare il ricordo/addio a Rosetta, e dover tornare con ulteriore mestizia nella stessa area di pensiero e di memoria per salutare al suo congedarsi anche da Roberto. Un’autentica presenza centrale nella vita teatrale, culturale e anche politica alessandrina del mezzo secolo intercorrente tra gli anni Sessanta e i primi Duemila (col 2006, la prematura scomparsa della compagna di vita e attività, l’indimenticabile/indimenticata Grazia, e insieme i primi seri problemi di salute l’avevano purtroppo silenziato anzitempo).
In questo purtroppo ennesimo ricordo, può darsi mi confonda l’amicizia stretta e la prolungata collaborazione che mi hanno legato a “i Pierallini”, com’erano inscindibilmente designati, da quella lontana sera della primavera 1974 in cui ci conoscemmo. Adelio Ferrero presentava a “Entrata Libera” di via Trotti 78 la sua nuova rivista “Cinema & Cinema”: ne sarebbero scaturiti oltre trent’anni di stretta cooperazione -praticamente giornaliera- all’ombra dell’a sua volta defunto Teatro Comunale e non solo. (Per non dire dei risvolti privati: viaggi e spettacoli, chiacchierate interminabili in diurna e notturna, film e pizze insieme, in numero difficilmente calcolabile).
La prima dimensione cui la figura di Roberto riconduce è proprio quella teatrale, vissuta in prima persona con inestinguibile entusiasmo e passione pari alla bravura e alla competenza. Da spettatore, innanzitutto, assiduo in quell’inesausta fucina di rigore culturale, formazione civile e inarrivabile esempio di tecnica registica e recitativa che fu il Piccolo milanese di Grassi e Strehler, frequentato con sistematicità nel decennio intercorrente tra la fine degli anni Cinquanta e l’esplosione sessantottina, che ne rimodulò per qualche anno incisività e senso. Ignoro se Roberto abbia potuto fare in tempo, da poco più che adolescente (era nato nel 1938) a vedere di Strehler El nost Milan e L’opera da tre soldi del ’56, come I Giacobini e il Coriolano del ’57. Ma so che visse per intero, da sue caldissime narrazioni, l’immediatamente successiva linea brechtiana, a cominciare dalla prima Anima buona di Sezuan del ’58 allo Schweyk del ’61 all’Eccezione e la regola del ’62, ovviamente al Galileo del ’63, e via dicendo.
Non è un rimando gratuito, questo, perché di quelle esperienze eccezionali e del lavoro di Strehler -un modello vissuto criticamente, con piena coscienza dell’assolutezza come dei limiti- sono sempre state una ricorrenza dialettica frequente nei discorsi di Roberto come nella sua pratica teatrale. Dell’Eccezione e la regola si fece lui stesso promotore e interprete di un’edizione locale che chi la vide definisce esemplare. Col suo davvero determinante e disinteratissimo concorso “tecnico”, anche di mimo, fui io stesso testimone partecipe del nascere giorno per giorno, con una mia ahimè remotissima quanto assai amata terza media, della preparazione e messinscena di un altro dramma didattico brechtiano, l’”opera per le scuole” Orazi e Curiazi, nel corso delle quali, incredibilmente, la pazienza e l’assiduità di Roberto seppero portare una ventina di quattordicenni a un livello di espressività consapevole che avrebbe potuto reggere il calcare qualsiasi ribalta al di là di quella scolastica.
Nella pratica teatrale “totale” di Roberto -e con lui, inscindibilmente, di Grazia- l’allievo e il formatore, il “drammaturgo” e l’attore, l’organizzatore e lo spettatore si presentavano come un’entità costante e inscindibile. Da allievo aveva cominciato, per costituire quasi da subito una presenza determinante, oltre che nella scuola, nella compagnia dei “Pochi” di Ennio Dollfus, che avrebbe costituito per tutta la vita l’insieme amato, riconosciuto ma anche disincantato e dolente punto di riferimento della sua visione e della relativa attuazione. E per molti anni quell’esperienza -di loro due e dei numerosi seguaci- si è dipanata a un livello del quale forse noi alessandrini, indigeni o acquisiti che fossimo, non ci siamo resi pienamente conto. Con tutta probabilità, quando Roberto ventenne vedeva, sul palcoscenico di via Rovello, Valentina Fortunato nei duplici panni di Scen Te e Sciui Ta dell’Anima buona brechtiana, non ignorava come la pur eccezionale attrice fosse risultata solo seconda nel concorso per aspiranti professioniste bandito dallo Stabile di Genova. Preceduta dalla punta di diamante dei “Pochi” nel primo periodo della loro esistenza, quell’Alva Cellerino che “contratto in mano, dopo forti dubbi scelse di non lasciare la sua città e continuare ad insegnare, aprendo la porta alla seconda classificata”. Tuttavia rimanendo “protagonista per lunghi anni della scene alessandrine, davvero una grande attrice, la più grande che il gruppo ricordi” come ha scritto Lucio Bassi nel suo Teatri e teatro in Alessandria (2009). E la Cellerino, tra i “Pochi” più dotati, rappresentava probabilmente la regola piuttosto che non l’eccezione.
La fucina era dunque di assai elevato tenore (lo stesso Dollfus avrebbe potuto essere un professionista coi controfiocchi) e Roberto, oltre ad esserne profondamente consapevole -confortato anche dal passare al professionismo, sotto i suoi occhi, del suo amico e compagno di corsi Secondo De Giorgi- ne avrebbe saputo trarre tutti i frutti e gli insegnamenti possibili, pur continuando a esercitare magistralmente, con sapiente autoironia, il suo mestiere “vero” di carrozziere auto in quel di Spinetta. Passando rapidamente da allievo a interprete sempre più centrale nella compagnia, a formatore d’eccezione lui stesso. Gli anni, le generazioni, le fasi s’intrecciano molto, ed è difficile ricostruire con certezza -nel breve tempo che la sua morte improvvisa lascia a disposizione- chi e in quali anni sia stato allievo di chi. “I Pochi” nascono nel 1949, dopo il triennio di convivenza nell’associazione goliardica AGA, dove c’è anche Enrico Foà: con Ennio ci sono a costituirli personaggi quali Dante Raiteri (su cui si dovrà tornare, lo anticipavo già parlando di Rosetta), Enzo Bocca e Ugo Zandrino. La generazione di Roberto vide come compagni di banchi e di palcoscenici, oltre alla grande collega-amica purtroppo appena ieri ricordata, Ferruccio Reposi e Bruno Piccoli, Lucio Bassi e Mimma Scarrone, Gianfranco Calorio e Gianni Ghé, Giorgio Boccassi e Franco Ferrari. Oltre naturalmente a Grazia, che dalla condivisione di quell’ambiente sarebbe passata con lui alla costruzione della famiglia in cui avrebbe visto poi la luce Roberta, e in anni più recenti, dal suo matrimonio con Graziano, i nipoti Alice e Matteo. Nell’immediatamente successiva sarebbero emersi, tra gli altri, Francesco Parise (che ha continuato fino ad oggi con impeccabile determinazione e coerenza l’esperienza della sigla) e Lilly Bollino, Bruna Buonadonna e Silvana Marcozzi, e prima ancora la maga di trucco-e-parrucco Alba Gallese e futuri interpreti-registi come Luigi Todarello, o fantasisti del calibro di Giorgio Penotti od Ombretta Zaglio. Per non dimenticare che hanno attraversato la parabola dei pochi personaggi che sono stati o sono tuttora in posizioni-chiave nell’organizzazione artistica del teatro italiano, da Franco Ferrari a Valerio Binasco, o più giovani attori poi professionisti che sono oggi tra le più sicure risorse della scena italiana, da Aldo Ottobrino a Debora Zuin, per citare i due primi nomi che vengono alla mente. E tra i più giovani ma non meno dotati, per la maggior consuetudine quotidiana mi viene da ricordare almeno la bravissima Daniela Tusa e l’assai brillante Claudio Pirolo. Negli anni più recenti, Roberto avrebbe a sua volta dato luogo in prima persona ad attività formative e di conseguenti nuove, dotate compagnie. Tra i molti nomi che a sua volta questo flusso più recente ha prodotto, mi viene spontaneo rammentare tra tutti almeno Ilaria Ercole, che l’ha anche caldamente ricordato in questa circostanza tristissima.
A questo punto, sul filo dell’accavallarsi dei ricordi e della commozione, questo pezzo steso a tambur battente potrebbe o troncarsi così o continuare virtualmente all’infinito, tali e tanti sarebbero i possibili dettagli e risvolti da ricordare. Scelgo una via di mezzo, indicando almeno i principali tra gli altri sentieri percorribili nella certo non povera esistenza di Roberto (di cui è rimasto, a quanto ne so, almeno anche un copione stampato (quel Caro Pellizza, “atto unico in dieci scene”, che scrisse nel 2004 per gli amici dell’Associazione omonima di Volpedo, impegnati nelle consuete celebrazioni annuali del Maestro). La partecipazione attiva al gruppo che nei decenni Sessanta-Settanta si batté vigorosamente per la promozione di Palazzo Cuttica a Casa della Cultura e per la realizzazione del Teatro Comunale (dove Grazia si sarebbe dedicata alla costruzione dell’Ufficio Stampa, ai rapporti col pubblico e a mille altre cose, e Roberto vi avrebbe impiantato attività didattiche e di diffusione culturale, a cominciare dalla realizzazione del primo Centro di Cultura al suo interno). Quella alla nuova incarnazione, dal 1975, del Circolo “De Sanctis” con Delmo Maestri, Enrico Foà. Il giovanissimo Ezio Quarantelli e altri, che seppe autorevolmente dire in termini concreti la propria, nella ben diversa Alessandria di quegli anni. La passione per il cinema, animata dalla stretta amicizia con Adelio Ferrero e Roberto Prigione, e dall’immancabile partecipazione con loro e Grazia, ogni anno, all’allora fondamentale Festival del Nuovo Cinema di Pesaro. E ancora più addentro alla vocazione teatrale, il varo, presso la SOMS del Cristo, in suggestivo parallelo, in scala, con la secessione strehleriana sessantottina dal Piccolo (il “Gruppo Teatro e Azione”, effimero ma non secondario) di quel “Gruppo Teatro e Realtà”, cui si deve anche quell’Eccezione e la regola ricordato in apertura, e che vide al fianco de “i Pierallini” anche altre coppie di amici-complici, e che avrebbe prodotto, in anni assai più vicini a noi, la rinascita de “I Nuovi Trovieri”, dove Grazia e Roberto sarebbero tornati a recitare e a cantare, fino al termine degli anni buoni, coi sodali di un tempo, Calorio e Ghé in testa. Ma faremmo un torto finale a lui e a noi stessi non menzionando anche la calda e convinta partecipazione, come militante e anche dirigente, all’attività politica del Partito Comunista Italiano, negli anni in cui impegnarsi in quel settore aveva ancora senso e scopo nitidi e indubitati. Ne sarebbero seguiti altri, più problematici, che Roberto avrebbe saputo seguire e commentare dall’esterno, con quella sua bonaria causticità che non sarà l’ultima delle sue doti a mancarci. Poi, guardandomi intorno oggi, come mi è già successo per altri amici partiti prima di lui per le terre misteriose che nessuno ha mai voluto tornare a raccontarci, mi viene quasi un sollievo consolatorio pensando a quanto non abbia più visto e ancora di più, temo, a quanto non vedrà…
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