Pensierini inattuali – II – Crisi dello Stato e governabilità del Paese

Pensierini inattuali
II
Crisi dello Stato e governabilità del Paese

La crisi del potere sull’economia da parte degli Stati nazionali, in specie piccoli o medi, nell’era dell’informatica e della globalizzazione, naturalmente non va esagerata. Lo Stato non ha perso ogni potere sull’economia (se no, “staremmo freschi”). Ne ha solo perso parecchio. Se, ad esempio, a livelli più o meno pari di qualità del prodotto sul mercato mondiale, i costi di produzione – nei paesi capitalisticamente arretrati dell’est europeo oppure in Cina o in India – più o meno a parità di qualità – sono molto bassi perché lì il lavoro costa ben poco rispetto all’Europa occidentale, è ovvio che chi investe cerchi di insediarvi imprese (tanto più nell’era delle comunicazioni tramite computer, via skype o attraverso qualche rapido viaggio in aereo, che prepara l’insediamento di dirigenti di fiducia); oppure è logico che l’investitore cerchi di costringere chi lavora, nel Paese in cui sta da sempre, ad accettare condizioni che quando io avevo vent’anni subivano solo i salariati agricoli, mentre ora sono spesso accolte, per necessità, da giovani diplomati o laureati. Questo nuovo disagio diffuso dei nuovi lavoratori non è frutto di chissà quale lotta di classe del capitale contro il lavoro, o della borghesia contro il proletariato (come diceva l’ultimo Gallino1), o dell’occulto e diabolico “capitale finanziario”, ma della ricerca del “maggior profitto” da parte del capitale investitore. Tale ricerca è la molla dell’economia di mercato da che mondo è mondo, tanto più che chi investe deve reggere alla concorrenza interna-internazionale di chi può produrre a costi di produzione tanto più bassi, e non già ascoltare il suo “buon cuore”, ammesso e non concesso che l’”uomo economico”, salvo eccezioni, ne abbia mai avuto uno, o meglio che sia stato a sentirlo quando ciò contraddicesse nettamente i suoi “affari”, dal grande capitalista all’imbianchino che evada le tasse non facendoti la fattura. Che dopo Marx possiamo prendere sul serio discorsi sui padroni “cattivi” che sfruttano i lavoratori per una sorta di malanimo, sbalordisce. Marx diceva che il padrone sfrutta il proletario non perché sia cattivo, ma perché è un padrone. Ciò posto, i lavoratori fanno benissimo a resistere al loro deprezzamento, o alla diminuzione di diritti sociali acquisiti, ed a provare anzi ad accrescerli quanto possano; e per ciò, ad esempio, in Italia hanno fatto benissimo, nel maggior loro sindacato, a scegliersi uno come Maurizio Landini come leader; e i movimenti socialisti e di sinistra hanno o “avrebbero” sempre il dovere di sostenerli, anche per non sparire dalla scena sociale o dissanguarsi persino elettoralmente. Non c’è niente di male a voler decelerare la “crescita infelice”, come a diminuire il dolore anche quando il male non possa essere debellato. Ma si deve contemporaneamente sapere che è una battaglia difensiva, anche molto difficile da vincere “veramente”, come ogni resistenza a rivoluzioni industriali nuove “en marche”. Lo Stato, che è sempre stato il mezzo più immediato per bilanciare gli eccessi di schiacciamento dei deboli sul “libero mercato” (oltre che nella vita sociale), ha infatti perso – come si è detto – una parte comunque rilevante del controllo sullo scambio delle merci, a partire da quello sulla forza lavoro (prezzo dell’energia umana sul mercato e garanzie sociali connesse); e nessun giuramento della Pallacorda di sindacalisti o leader della “nuova” sinistra, né tantomeno le elucubrazioni di apologeti, anche molto acuti, del keynesismo, della programmazione economica e del Welfare State faranno riacquistare ad esso quel che il mercato mondiale, in misura significativa, gli ha ormai tolto. I grandi Stati, come oggi l’America di Trump, possono cercare di pararsi il bottom tramite il protezionismo, ma questo fa riemergere con forza lo scontro doganale, e poi nazionale, tra le potenze, per cui anche se può talora pagare nell’immediato, è nocivo nei tempi medi e lunghi, e comunque a livello globale. L’idea che un’economia nazionale, tanto più in uno Stato non certo grande come un continente, in un mondo globalizzato, possa essere modificata tramite decreti legge “giusti”, come se il mercato mondiale non incidesse profondamente sul Paese, è a dir poco ingenua; ma quella che possa farlo, anche in modo semplicemente significativo, nei tempi lunghi, uno Stato che non funziona in tanti punti del suo dispiegarsi, è un’assurdità. E lo Stato fondato sulla proporzionale, tanto più se più o meno pura, è sempre connotato da una debole governabilità. Traetene le conseguenze.

Sarà pur vero che il sistema proporzionale – matrice o derivato dello spirito di “mediazione” del nostro popolo – ha i suoi vantaggi, com’è stato “per paradosso” notato il 2 maggio ultimo scorso all’Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria, in una splendida conferenza che ha insegnato molte cose anche ai più preparati tra noi, tenuta dal grande politologo Marc Lazare2, il quale al proposito ha connesso anche a questa nostra tendenza “italica” alla “mediazione” o condivisione tra gli opposti la vittoria contro un terrorismo che qui aveva prodotto, da destra e da sinistra, 400 morti; ma io credo che se da noi si era arrivati a quei punti di gravità senza uguali in Europa Occidentale, ciò fosse accaduto proprio perché lo Stato italiano, prima di riuscire a reagire aveva lasciato che le cose diventassero tanto innaturalmente gravi. Lo Stato aveva agito così per un misto di opportunismo marcio, inefficienza cronica e irresponsabilità morale spinta sino all’uso propagandistico dei delitti politici per screditare la parte politica avversaria. Infine lo Stato fu costretto, dopo l’assassinio di Moro del 1978, a una reazione tardiva e perciò brutale, e ad un’unione sacra sproporzionata all’obiettivo del battere una pattuglia di squinternati pur sostenuta da piccole frazioni di proletari disadattati o di piccolissimi borghesi furibondi, certo inferiore al 5% della popolazione totale contando tutti i pretesi “combattenti” delle opposte microfrazioni in lotta violenta. Con uno Stato minimamente efficiente, i morti sarebbero stati, anche in Italia, 40 e non 400, e gli assassini sarebbero ben presto finiti tutti in galera, come nel resto dell’Europa, in cui – come ha ben spiegato pure Lazare – l’Italia non è affatto “eccezione”, ma è – in tutto – uno dei tre Paesi grandi tra i ventisette dell’Unione Europea (o dei quattro, contando ancora la Gran Bretagna). Inoltre ritengo che se l’Italia in tanti decenni, specie dal 1968 in poi, ha via via accumulato il terzo debito pubblico del mondo (2350 miliardi di euro), ciò sia connesso a una spesa pubblica allegra alla cui moltiplicazione tutti hanno partecipato e partecipano (politicamente e sindacalmente). I governi hanno centinaia di volte favorito tutto ciò per la loro cronica debolezza. Oggi, poi, tutto ciò è ormai intollerabile. Eppure siamo già, cheti cheti, alla rinazionalizzazione dell’Alitalia, addirittura con i soldi delle Ferrovie, appena un po’ migliorate negli ultimi anni. Sembra di sognare, ma è la “sapienza” del governo giallo-verde di Di Maio e Salvini.

Se in una fase storica di concorrenza selvaggia universale (globalizzazione), poco gestibile da qualunque Stato, si pensa che uno Stato “da operetta” – persino di piccola o media dimensione come il nostro – possa difendere o sviluppare il Welfare State, vuol dire che del mondo reale si capisce poco o nulla. Se è vero che qualunque Stato – specie se non sia vasto e ricco come un continente (e persino in quel caso non senza difficoltà come ci mostra l’America del nord) – in economia ha le mani legate (o “una mano legata”), più uno Stato è debole e più risulterà servo del “libero mercato” globale (mondiale, europeo e persino interno). Più lo Stato è debole, più la “finanza mondiale”, le multinazionali e gli Stati che sono più forti lo metteranno in difficoltà, ossia sussumeranno la sua economia in mille modi. Ma la stessa economia criminale ne approfitterà grandemente. Perciò chi non è pronto – ben inteso in un contesto totalmente democratico – a rafforzare fortemente il potere governativo, che deve per forza navigare contro vento in tempi di globalizzazione, e persino di relativa anomia internazionale – indebolisce il ruolo anticiclico, cioè anticrisi, dello Stato; e lo fa proprio a danno dei lavoratori. Mettere in condizione, con riforme opportune, il potere esecutivo, cioè il governo, di durare tutta la legislatura e, inoltre, di non essere meno forte, ma almeno altrettanto forte, degli altri due poteri fondamentali dello Stato liberale (legislativo e giudiziario), non è un lusso di tipo centralista o “gollista”, ma è il minimo che la storia impone nell’era della globalizzazione: è la vera e quasi sola riforma di struttura epocale, o quantomeno quella che mette in sicurezza le altre riforme sociali operanti o necessarie; e di lì si dovrà sempre ripartire per far funzionare decentemente il sistema, proprio a favore della povera gente, anche se questa seguitasse a dire di no dieci volte (finché si sarà convinta), perché non c’è altra strada più efficace di questa per aiutarla: si tratta semplicemente di far funzionare in modo rapido ed efficace quel che sta a monte o a valle del processo economico, cioè lo Stato stesso.

Per questo ho ritenuto la sconfitta della riforma – pur imperfetta3 – dello Stato proposta da Renzi e dal suo PD, nel dicembre 2016, una sciagura nazionale, specie per quel che a me è sempre stato più a cuore: il grande movimento dei lavoratori. Ma “tirèmm innàns” perché sul versamento del latte riformatore versato nel dicembre 2016 qui ho pianto abbastanza.

Siccome mi considero un battitore libero, un “compagno di strada”, una cosa un poco controcorrente rispetto al mio sentire solito la voglio dire, in maniera chiara e forte: il modo in cui il PD, che era ancora renziano anche dopo la grave sconfitta del referendum del dicembre 2016, ha reagito alla botta di allora l’ho trovato deplorevole. L’ha detto un po’ di sorvolo, dato il suo ruolo, anche Roberto Giachetti, ad esempio illustrando la sua mozione (per cui ho votato nelle primarie del PD), alla SOMS del Cristo di Alessandria il 28 dicembre 2018, accennando in termini negativi alla legge elettorale detta Rosatellum (dal nome Ettore Rosati del renziano che l’ha proposta), con cui si è votato nel marzo 2018. Lì, come dice un proverbio veneto, “peso il tacòn del buso” (la ricucitura ha peggiorato lo sbrego). In sostanza con quella legge si è tornati alla proporzionale, caratteristica della prima Repubblica, e perciò ai suoi governicchi deboli e trasformisti, sempre sul punto di cadere e per ciò sempre ricattabili dall’esterno, e ciò nel nuovo quadro storico di cui si è detto. Si era pensato che il matrimonio contro natura che si sarebbe imposto per forza maggiore dopo le urne, tramite il Rosatellum (cioè la proporzionale), sarebbe stato quello tra PD e Forza Italia (“che ci volete fare? Siamo obbligati”), mentre poi è stato tra altri due avversari pretesi l’un l’altro irriducibili, il M5S e la Lega. Questo modo di fare politica mi conferma nella mia vocazione ad essere “inattuale”: uno che può pure – se dire la verità lo porti a ciò, e in base a una vocazione che per altro in lui viene da molto lontano – pisciare contro vento, tanto più che a nulla mira. Infatti uno non può passare dall’essere il campione del maggioritario all’esserlo della proporzionale pura perché così vuole la “ggente” come diceva Tina Pica nel film del nonno di Calenda, Luigi Comencini, “Pane, amore e fantasia” (1953). Il vecchio Lenin – totalmente e giustamente inattuale dati i frutti marci della dittatura rivoluzionaria da Stalin in poi, ma sempre da meditare come politologo a mio parere grande, più o meno come facciamo con Machiavelli – diceva che non si deve essere “codisti”, ossia porsi “alla coda” delle masse “guardandone il sedere”4, ma che bisogna, piuttosto, essere sempre alla loro testa, precedendole, “seppure solo di un passo”. E allora se la Costituzione dice che la legge elettorale non è soggetta a referendum, il maggioritario a due turni era da conservare (pur accogliendo il verdetto popolare circa l’immodificabilità del Senato “in quel modo”). E se la Corte costituzionale metteva il dito sulla piaga della legge respinta dalla “ggente” – cui i nostri saggi costituenti, per tenersi stretta la Repubblica, non avevano neanche sottoposto a referendum approvativo la Costituzione nel 1948, che pure sin dal principio diceva che la “sovranità appartiene al popolo” – bisognava recepire le correzioni chieste dalla Corte in materia elettorale (e basta). La riforma detta di Renzi (“Italicum”) diceva che se una lista di maggioranza prendeva almeno il 25% essa poteva andare al secondo turno con la lista che le stava subito dietro al primo, e se la maggioranza l’approvava avere il 55% dei seggi alla Camera. Era ovvio che in una partita tra le due liste più votate, quella vincente avrebbe avuto più o meno il 40% almeno, ma andava precisato. Sarebbe stato sufficiente dire – per rispettare la volontà dei costituenti – che la lista che fosse prevalsa al secondo turno avrebbe preso il 55% se avesse avuto almeno il 40% dei voti, oppure che la lista maggioritaria al secondo turno avrebbe avuto un premio del 15% (o poco meno). Invece si preferì svoltare di 180°, tramite l’attuale Rosatellum, restaurando la proporzionale della prima Repubblica, con un pragmatismo senza principi che la dice lunga sullo “Spirito del tempo” (in cui mi sento e voglio essere straniero, “inattuale”). Sono tempi così, come questo M5S, che può mettersi con il PD o con l’estrema destra, come convenga al momento, perché ormai “così fan tutte”, come dicono le puttane. Non è che de Gaulle, quando i francesi bocciarono la sua Repubblica al di sopra dei partiti, e lui era capo del governo (1944/1946), avesse abbracciato quella altrui (partitocratica, come la nostra sino al 1958, con uguali effetti di scarsa governabilità): se n’era andato nell’ombra aspettando il suo turno storico con i suoi (turno arrivato nel 1958, quando fondò la Quinta Repubblica). E così aveva fatto già quando persino molti socialisti e i comunisti (c’era ancora il patto Molotov-Ribbentrop), dopo la vittoria di Hitler del 1940 sulla Francia avevano dapprima sostenuto in tanti, o subito senza problemi sino all’attacco “nazi” all’URSS del 1941, il governo collaborazionista coi nazisti di Pétain, come meno peggio: lui se n’era andato in Algeria, dove c’era ancora un po’ di esercito francese “libero”, e il 18 giugno 1940 da Radio Londra, a nome della “France”, aveva giurato che i francesi avrebbero combattuto contro il Terzo Reich “sino all’immancabile vittoria finale”. Così hanno sempre fatto, per così dire da Gramsci a Terracini, o da Matteotti a Pertini, quelli che hanno delle idee forti, che poi essendo in esse “credenti” possono essere a tempo debito “creduti”. Ma nel mondo della “società liquida”5 si tende a torto a credere che non sia più così. Si è diventati “liquidi”, ma non sarebbe necessario. Anzi, la crisi della sinistra comincerà ad essere superata quando verrà superata l’idea che a parte un generico legame con la Costituzione, tutti i programmi siano più o meno intercambiabili. Sul terreno per cui “tutto è relativo”, vince sempre la legge della jungla, che è quella della pura potenza, propria del conservatorismo e della reazione, che del cinismo hanno il copyright sicché su quel terreno sono più creduti e credibili, essendo senza scrupoli. Abbiamo invece bisogno, come sinistra nel senso più ampio, di punti di programma forti, e non mutabili a ogni cambiamento di vento: punti programmatici di portata storica, profondamente condivisi per tutta un’epoca dalla nostra parte politica, e al tempo stesso totalmente realistici. Quando lo capiremo come sinistra? – Sarà quello l’indizio della rinascita della sinistrastessa: in Italia e nell’Unione Europea, se non addirittura nel mondo.

(Segue)

1 L, GALLINO, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Intervista a cura di P. Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012.

2 Presentava in particolare: I. DIAMANTI – M. LAZARE, Popolocrazia. La metamorfosi della nostra democrazia, Tempi moderni, 2019.

3 La riforma dello Stato bocciata nel dicembre 2016, cosiddetta di Renzi, introduceva un sistema elettorale maggioritario a due turni, ma non precisava la percentuale minima da conquistare al secondo turno, dalla lista vincente, per accedere al 55% dei seggi. Inoltre non introduceva il monocameralismo, pur dando alla sola Camera il compito di dare il voto di fiducia; e ridimensionava il Senato, nel numero e nelle materie, invece di abolirlo. Évero che ciò era connesso a contrasti nella Commissione preposta, ma una “vera battaglia” del PD per abolire il Senato, sia in aula che in Commissione, non credo sia mai stata fatta. Credo che ci siano state sia una non sufficiente capacità e audacia riformatrice dei maggiori esponenti in commissione (Anna Finocchiaro e Elena Boschi), sia un’insufficiente convinzione e decisione in aula.

4 LENIN, Un passo avanti e due indietro (1904), Le Frecce, Milano, 2016.

5 Z. BAUMAN, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari, 2008; Modernità liquida, ivi, 2011.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*