Nella giornata di oggi si terrà l’atteso incontro proposto da “e.r.i.c.a. – i 2 fiumi – Pro Natura – ODV” insieme a Liberamente e ARTES sulle tematiche proposte dal libro di Umberto Eco “Fascismo eterno”. Un’occasione di riflessione sulla maturità della democrazia in italia e sui reali margini di cambiamento possibili. Si tratta del secondo di una serie di appuntamenti a carattere storico-culturale che vanno ad esaurire le competenze delle prime tre lettere dell’acronimo dell’associazione. “educazione”, “ricerca”, “informazione”, da poco diventata una ODV ai sensi della L. 117 / 2017.
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- Nella selva del fascismo
Rassegne interpretative sul fascismo non mancano: James Gregor, Interpretations of Fascism, (1974), Renzo de Felice, Le interpretazioni del fascismo (terza edizione, Roma–Bari Laterza, 1989, prima edizione: 1969), Marco Tarchi, Fascismo: interpretazioni e teorie (Roma–Bari, Laterza, 2003), Emilio Fascismo storia e interpretazione, Roma–Bari, Laterza, 2005; Guido Melis, La macchina imperfetta, Immagine e realtà dello stato fascista, Bologna, il Mulino, 2018 ha particolare importanza per la storia amministrativa del fascismo. .Rispetto alle intepretazioni socio-economiche e alle interpretazioni politologiche (comprese le interpretazioni che tentano di cogliere una categoria più ampia, quella di “totalitarismo”: Arendt, 1951, Friedrich-Brzezinsky, 1956, Aron, 1965), il saggio di Umberto Eco presenta una peculiarità: è un’interpretazione essenzialistica, di taglio filosofico, di matrice aristotelico-scolastica. Il saggio si propone di individuare ciò per cui il fascismo è fascismo e non un’altra forma di regime. La quidditas del fascismo. Non del fascismo italiano: ma anche del nazionalsocialismo tedesco e di tutte le imitazioni proliferate negli anni Trenta del secolo scorso (sulle quali rinvio a Maurice Bardèche, I fascismi sconosciuti, tr. it. Milano, Edizioni del Borghese, 1969). Il fascismo, dunque, sarebbe soltanto incidentalmente un prodotto italiano, o, nella sua versione tedesca, il nazionalsocialismo, un prodotto tedesco, o ancora, un prodotto romeno (il fenomeno della “Guardia di Ferro” di Codreanu). Sembra, dunque, che una medesima “essenza” si manifesti in modo diverso, a seconda dei luoghi e dei tempi. Una eterna possibilità umana e non soltanto europea o italiana.
Che il fascismo sia una realtà ontologicamente unitaria, tuttavia, è tesi che deriva storicamente dall’effetto ‘mediatico’ dell’asse Roma-Tokyo-Berlino (in effetti, si parlerà anche di un ‘fascismo giapponese’), un effetto determinato dall’impressione di un attacco unitario al mondo delle democrazie liberali. Uno scenario che, nel corso della “guerra fredda” si arricchirà di una ulteriore componente, il comunismo sovietico, occasionando una ridefinizione del fenomeno come totalitarianism, volto a identificare, al di là della ‘destra’ e della ‘sinistra’, la minaccia al vissuto liberal-democratico al mondo autodefinitosi “mondo libero”. Quando Herbert Marcuse studia il nazionalsocialismo (scritti 1941-1948) e quando, poi, studia il soviet marxism (1954), egli si guarda bene dal sostenere che entrambi appartengano a un’unica essenza (il totalitarismo); Marcuse utilizza la tesi di James Burnham (The managerial Revolution, 1941) sulla convergenza dei regimi manageriali (fascista, nazista, sovietico) come governo dei gestori dei mezzi di produzione, non più dei proprietari dei mezzi di produzione. Ma quando Gyoergy Lukacs, a Mosca, nel corso degli anni trenta del secolo scorso, studia la storia dell’irrazionalismo filosofico (Die Zerstoerung der Vernunft, La distruzione della ragione), egli non esita a definire protofascista la filosofia di Nietzsche e la stessa teoria delle élites del liberale Vilfredo Pareto. Quando André Glucksman, di lì a poco nouveau philosophe, pubblica Fascismo vecchio e nuovo (1974, Libreria Feltrinelli) egli utilizza la categoria essenzialistica di “fascismo”, divulgata dai movimenti studenteschi come opposto del socialismo libertario (la formula ricercata al di là del capitalismo monopolistico americano e del capitalismo burocratico russo) egli utilizza una tipologia essenzialistica e, pertanto, unitaria; con mille volti, ma c’è un solo fascismo. Non diversamente il filosofo alessandrino Armando Plebe non ha esitazioni nel definire ‘fascistica’ la posizione filosofica di Nietzsche nel 1967 (Che cos’è l’Illuminismo), prima di compiere il tanto discusso (all’epoca: 1970) passaggio dalle fila del P.C.I. a quelle del M.S.I., ma con un programma sostanzialmente liberale (e, per questo, anticomunista…), in nome dell’opposizione all’estremismo della contestazione studentesca (che Juergen Habermas aveva definito, non a caso “fascismo rosso).
Possiamo dire che è fascista tutto quello che è antiliberale e che è totalitario tutto quello che è antiliberale. Perfetto: ma che differenza c’è fra “totalitario” e “fascista”? In questo giro di concetti, il fascismo risulta come un modo di essere antiliberali, (così come il comunismo). Il regime meno imperfetto per tutelare la libertà individuale e per realizzare un minimo di giustizia sociale, nel clima delle economia post-belliche keynesiane è considerato il regime liberal-democratico, nelle sue declinazioni federali e non-federali: lo “stato minimo” della tradizione dell’economia politica classica (Adam Smith, John Stuart Mill e John Maynard Keynes). Meno lo Stato interviene a disciplinare la vita economica e sociale, meglio è, diranno, quasi a una voce, Friedrich von Hayeck e Isaiah Berlin. ‘Destra’ e ‘Sinistra’ si rimodellano fra chi segue Hayeck e Berlin e chi segue Stuart Mill e Keynes. E’ il quadro degli anni Novanta anche in Italia: libera concorrenza assoluta e gli effetti perversi a carico dei singoli attori sociali, oppure libera concorrenza, ma con una serie di garanzie offerte dallo Stato democratico-liberale (peraltro sempre più ridotte via via che si approssima il XXI secolo.
A questa temperie appartiene il volumetto di Umberto Eco.
- Fascismo eterno
Umberto Eco non è mai stato un politologo, i suoi interessi erano concentrati sull’estetica, sulla critica letteraria e, soprattutto sulla semiotica, ma sempre con un forte radicamento nei contesti sociali in cui le forme estetiche germinano. Lo attesta la sua bibliografia, certo; ma lo attesta soprattutto, il fortunato volume Il superuomo di massa: nella introduzione al quale leggiamo, non a caso un brano di Gramsci: “il romanzo d’appendice sostituisce e favorisce al tempo stesso9 il fantasticare dell’uomo del popolo, è un vero sognare a occhi aperti…lunghe fantasticherie sull’idea di vendetta, della punizione dei colpevoli dei mali sopportati…” (p. 14 edizione La nave di Teseo, 2016); quanto del superuomo redentore dei poveri e degli oppressi ci fosse nell’oleografia fascista del duce (e, in generale, del capo-popolo) sappiamo tutti. E lo attesta anche il romanzo Numero Zero (Bompiani, 2016) dedicato alla manipolazione giornalistica come fonte di potere politico. Questi pochi cenni ci mostrano l’estetologo Umberto Eco sempre in ‘presa diretta’ con la realtà storico-politica. Anche se, forse, Fascismo eterno è l’unico suo saggio politico in senso proprio.
Il volume inizia con uno spaccato autobiografico: classe 1932, Eco ha conosciuto direttamente il fascismo (italiano) e con una “Nota dell’autore” sulla quale vale la pena di soffermarsi. Il volume, ci informa Eco, nasce da una conferenza tenuta in un simposio organizzato dai Dipartimenti di italiano e di francese della Columbia University (New York) il 25 aprile 1995. Il fascismo vi è definito come “totalitarismo fuzzy”. Fuzzy, ci informa l’autore, significa “sfuocato”, “sfumato”, “confuso”, “impreciso”. Il termine di paragone è il nazionalsocialismo tedesco: il nazionalsocialismo tedesco aveva una base programmatica precisa (il Mein Kampf di Hitler), un preciso orientamento estetico (ricordiamo la mostra dell’arte “degenerata”). Il fascismo, invece, “non era ua ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni” (p. 25). Dunque il fascismo non ha una ‘quintessenza”, una quidditas? Ideologicamente, no, di certo. Ma “dal punto di vista emotivo era fermamente incernierato ad alcuni archetipi”(p. 31). Lì va cercata la sua ‘essenza’ e la spiegazione del perché Eco possa parlare di “Ur-fascismo” (alla maniera in cui Goethe poteva parlare di Ur-Pflanz, la pianta originaria, l’archetipo di ogni vita vegetale) o di “fascismo eterno”: eterno – non immortale- nel senso di una possibilità sempre presente, per lo meno nelle società di massa (precisazione non fatta da Eco, ma implicita nel suo discorso).
Quali sono le caratteristiche essenziali del fascismo, dunque, secondo Eco?
Innanzitutto il “culto della tradizione” (p. 34), ma una tradizione sincretistica, in grado di unire più contenuti anti-moderni, anche contraddittori tra loro.
Seconda caratteristica è il rifiuto della modernità e, quindi l’orientamento anti-illuministico e irrazionalistico (con conseguente esaltazione della “azione per l’azione” e atteggiamento anti-intellettualistico).
Terza caratteristica: la paura della diversità (legata al mito dell’appartenenza nazionale).
Quarta caratteristica: l’élitismo (nello stile di Robert Michels e del Fuehrerprinzip di Carl Schmitt) nel senso di legittimazione dal basso, di massa del ‘gruppo dirigente’.
Quinta caratteristica: il “populismo qualitativo”: per l’ Ur-fascismo “gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il “popolo” è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la “volontà comune”
Sesta caratteristica: la creazione di una “neolingua” (nello stile della neolingua di cui parla George Orwell in 1984), un lessico povero, semplificativo, adatto a slogan in grado di condizionare il comportamento collettivo e funzionale a quella che lo psicologo russo Ciakotin (Tecnica della propaganda politica, 1951) denominava “l’ingegneria di anime”.
Tutto questo, nota Eco (nel 1995!!), sta ritornando, anche via internet. Nella società di classe non è infrequente che gli esclusi colgano come un blocco unitario culto della tradizione, paura della diversità, fede in figure ‘carismatiche’ e identificazione collettiva, il tutto espresso in un linguaggio povero, semplificativo; e si volgano in questo modo contro altri esclusi – l’esclusione genera di rado, spontaneamente, solidarietà; essa stimola, invece, concorrenza. L’Ur-fascismo è, dunque, a portata di mano, come una specie di risposta allo stimolo delle crescenti difficoltà sociali: emerge un “noi” contro un “loro” soprattutto nei rapporti fra poveri e più poveri. Uno schema ben noto alla psicologia comportamentistica.
- Inopinate convergenze
Nel 1969 lo scrittore francese Maurice Bardèche (1907-1998) pubblicava per i tipi della casa editrice Les Sept Couleurs un libro, Sparte et les Sudistes che ‘completava’ un’opera di qualche anno prima, Qu’est–ce que le fascisme? (1961).
L’autore, direttore della rivista “Defense de l’Occident”, era dichiaratamente fascista (fu tra i fondatori del Movimento Sociale Europeo, nel 1951), sodale dello scrittore Robert Brasillach (1909-1945, fucilato per collaborazionismo). Nulla a che vedere, dunque, sotto il profilo biografico, con Umberto Eco. Ma, sotto il profilo dello sforzo intellettuale di comprendere il fascismo, gli elementi comuni non sono pochi.
Anche Sparte et les Sudistes inizia con un resoconto autobiografico: come un giovane degli anni Trenta, francese, avesse scoperto che le virtù del nazionalismo giacobino, base dell’educazione politica francese, si attagliavano più al fascismo italiano che non al radical-socialismo delle classi dirigenti francesi dell’epoca. Del resto, l’alternativa era un’altra lettura giacobina del mito della nazione: quello della repubblica dei soviet (si veda il celebre discorso di Stalin, 1941, per stimolare i soldati russi alla difesa della patria socialista). Ma in Francia non c’era il fascismo; e, a differenza di Umberto Eco, Maurice Bardèche non dovette compilare alcun tema sul “duce”; si limitò a guardarlo da lontano.
Nell’introduzione Bardéche conviene, senza poterlo immaginare, con Eco, là dove afferma che il fascismo non fu dottrina, ma una serie di comportamenti (prescritti, se non praticati): “il senso dell’onore, il coraggio, il vigore, il rispetto della parola data, la pubblica responsabilità” (tr. it. p. 27). Tali comportamenti costituiscono una precisa identità: una identità nazionale. Rispetto a essa non sono ammissibili differenziazioni che non siano anche degenerazioni. Né si può ammettere che una simile identità sia l’esito di un processo di indagine razionale. Si tratta, piuttosto, di un modo di essere nel mondo. Che, secondo Bardéche è trans-storico: egli ritrova quel modo di essere nell’antica Sparta (il mito di Rousseau e di Robespierre) dove la libertà non è quella della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, nettamente individualistica, ma esclusivamente nel chiuso della comunità politica. E lo ritrova anche nello stile di vita della Confederazione degli Stati del Sud, al tempo della guerra nord-americana di secessione; uno stile di vita, per così dire, “castrense”, militare, con le relative virtù. Rispetto a questo complesso comportamentale, il fascismo (italiano e non solo) è una realizzazione storicamente determinata di un archetipo non-temporale.
Ne consegue che come Eco paventa una possibile nuova realizzazione del fascismo (in forma diversa, certamente, da quella degli anni Venti e Trenta del secolo scorso), Bardèche, ideologo dell’estrema destra francese degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, si sforza di stimolarne (senza particolare successo) una nuova realizzazione. Comune a entrambi è la convinzione che il fascismo rappresenti una possibilità sempre attuale. Non manca, ancora oggi, chi condivide l’angolo visuale di Eco e di Bardèche, rispettivamente, a ‘sinistra’ e a ‘destra’.
- Ascendenze
Al vertice delle ascendenze della teoria echiana del ‘fascismo eterno’ (e della teoria di Bardèche) c’è Platone, in particolare Repubblica libro VIII nel quale il filosofo ateniese del IV secolo a. C. traccia l’ eterna sequenza della degenerazione dell’idea di Stato nelle sue attuazioni storiche. Tra le diverse forme archetipali ce n’è una assai affine al fascismo: la tirannide che sorge dallo sviluppo impetuoso della democrazia: dalla demagogia, dai capi-popolo al ‘governo di uno solo’ (o di pochissimi). La tirannide è un’eterna possibilità – se non necessità del governo della massa- secondo Platone. Aristotele stesso considera la tirannide come una eterna possibilità di qualsiasi regime non appena esso diventi regime condizionato dalla ‘massa’. La massa, che la teoria politico-giuridica del XVI secolo chiama “il mostro dalle cento teste”, è stata rinserrata dal costituzionalismo del XVII e XVIII secolo nel limiti del “governo della legge” e, poi vincolata dalle teoriche liberal-democratiche con i nessi costituzionali. Il fascismo, secondo la teoria ufficiale della Terza Internazionale, fu una “mobilitazione reazionaria di massa.”
Ma il limite della filosofia politica sta nel mettere in ombra le circostanze storico-concrete che conferiscono, esse sole, il senso alle parole; anche alla parola ‘fascismo’. Il fascismo in Italia nacque dalla degenerazione sciovinistica di una componente del socialismo; il nazionalsocialismo dalla manipolazione propagandistica dei dati della crisi finanziaria che investì la Germania nel 1929. Circostanze indipendenti dalle ideologie portarono l’Italia nell’orbita della Germania (le sanzioni conseguenti alla guerra di Etiopia), ma cementarono una nuova realtà (il nazi-fascismo) con la guerra iniziata nel 1939.
L’unica logica immanente che si vede agire nella storia del fascismo è quella dello sviluppo della ‘democrazia totalitaria’ (Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, 1951), sia in Italia, sia in Germania, la dialettica della democrazia liberale quando essa tende alla democrazia diretta. Se leggiamo in questa chiave Fascismo eterno, esso può fornire non pochi spunti per l’analisi delle tensioni che innervano il nostro presente.
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