Il dibattito che è stato suscitato su liberalismo e democrazia si è arricchito di altri interventi, tra cui quello del professore Rinaldi. Mi sembra positivo che si discuta su temi apparentemente così filosofici e lontani dalla realtà, eppure così intrinsecamente legati alla contingenza che, nostro malgrado, il destino ci ha dato di attraversare con le nostre vite. Rinaldi ha compreso molti passaggi essenziali di ciò che provo a porre in discussione, e ha ragione se lamenta in me un po’ di oscurità nell’esprimere le mie idee, e ciò è dovuto al fatto che quando si è ancora in ricerca di qualcosa questo qualcosa sfugge ad una definizione chiara. Il contraddittorio serve proprio a questo: costringere chi avanza tesi a precisarle e a modificarle tenendo conto delle obiezioni altrui. Tuttavia ho urgenza di chiarire due equivoci prima di procedere ad altre considerazioni. Per prima cosa non vorrei aver dato da intendere che il sottoscritto ritiene indispensabile abbandonare il pensiero razionale moderno; nulla di tutto questo! Mi ritengo vicino al pensiero dialettico e razionale di origine hegeliana e marxiana e il legame fra logos e realtà lo conservo presso di me ben saldo.
Secondo, è Carl Schmitt che criticando Hobbes e polemizzando con Kelsen, pretende di aver dimostrato con le armi della teologia politica che la modernità si fonda su un principio non razionalistico e scientifico ma che deriva, essa, dal pensiero metafisico e religioso. L’ opera ‘Teologia politica’ di Carl Schmitt, scritta nel 22’, si apre, infatti, con il famoso assunto che la politica non è niente altro che la secolarizzazione degli schemi logici della teologia cristiana. In sostanza, sostengo che se vogliamo capire che cosa accade all’ordine democratico liberale, da cosa origina il suo crescente infrangersi e ricadere nel disordine, dobbiamo fare i conti con ciò che Schmitt ha detto.
Ma fare i conti con Carl Schmitt non significa affatto accettare la tesi che l’ordine liberal-democratico , pur in crisi strutturale, sia destinato a scomparire dalla scena della storia dell’Occidente. Il liberalismo ha probabilmente ancora molto frecce al proprio arco con buona pace dei detrattori alla Steve Bannon. Su questo ci ritorneremo poi.
Pochi giorni fa, il giornalista Beppe Severgnini, ha scritto un articolo sul Corriere della Sera descrivendo il senso di smarrimento che coglie gli immigrati, italiani e non, delle classi medie relativamente agiate che vivono in Gran Bretagna, di fronte alla conseguenze della Brexit. I fatti che sono susseguiti al voto del giugno 2016 hanno determinato per gli immigrati nel Regno Unito una sostanziale sospensione giuridica del loro status, né cittadini in piena regola né irregolari in obbligo di allontanarsi dal territorio nazionale, ma semmai soggetti umani in condizione legale da definire, e potenzialmente sempre a rischio di espulsione da quel paese. Severgnini descrive ottimamente, e con tono accorato e sincero, lo sgomento borghese di fronte ad una realtà diversa da quella creduta fino a pochi mesi prima. Il mondo non è più quel mercato unico che avvolge l’intero globo, e il ‘villaggio globale’ dove tutti siamo uguali, si rivela oggi essere un inferno in cui particolarismi e discriminazioni etniche e sessuali sono la normalità e non l’accidente inconcepibile da relegare nell’angolo buio della storia. La narrazione che è andata per la maggiore per trent’anni e più, che aveva come assiomi ‘la fine della storia’ e l’uniformità di un mondo trasformato dalla economia in unica superficie materiale e giuridica inesorabilmente liscia e piatta, oggi si rivela alla realtà dei fatti solo una fragile costruzione ideologica che copriva conflitti e tensioni ben più reali e attivi.
Dunque, la terra non è piatta! I terrapiattisti dei Cinque Stelle sono ai limiti del delirio nell’esporre le loro idee, ma ben più raffinati sono stati gli strumenti utilizzati dalle élite internazionali, come ad esempio da esponenti come Mario Draghi, i quali sono stati capaci di far credere a tutti noi che il mondo attuale si reggesse su un disegno razionale e tecnico, dominante il discorso istituzionale ed economico, totalmente autosufficiente rispetto a qualsiasi elemento di pensiero proveniente dall’esterno. Tuttavia, accade sempre un imprevisto, l’indicibile che rompe uno schema razionale e tecnico, la macchina che doveva muoversi da sola dopo aver ricevuto una prima spinta per il moto improvvisamente si inceppa. Non si riesce a comprendere il motivo di questo disordine che irrompe a devastare una realtà così perfetta e intoccabile nella sua separatezza dal mondo materiale, e quando la superficie del reale si increspa, si incrina, il razionalismo algido dei tecnici che si vogliono chiamare liberali, non sanno dire altro che ciò non deve accadere, anzi, che il blocco della macchina o il suo incepparsi non ha ragione di essere perché il modello ‘matematico’ è perfetto è l’errore non può che risiedere nella realtà. Ecco, nell’articolo di Severgnini vi è la nostalgia per un mondo che scompare, ma soprattutto non vi è traccia di una capacità di capire il perché delle cose, di darsi ragione del modificarsi storico della condizione umana.
Perché un ritorno a Marx? Il discorso che ha preso piede almeno parzialmente su un rinnovato interesse a Marx non si giustifica da un dato di ritrovata forza politica del movimento operaio o perché sono ritornate ad aver forza i partiti sostenitori del ‘Sol dell’avvenire socialista’. Semmai, la ragione vera di una rinascita marxiana è contenuta nella ‘critica’, ovvero, nella capacità, che vi è in massimo grado nel pensiero dialettico, di oltrepassare l’apparenza superficiale delle cose dando ragione dei cambiamenti profondi della ‘cosa’.
Il legame fra un ritorno a Marx, almeno al Marx critico dialettico e eretico della modernità, e la crisi delle culture razionaliste, si giustifica con la scarsa tenuta del tecnicismo liberale e del liberismo. Come ha compreso Agamben in un suo breve ma mirabile saggio sulla scelta di Papa Benedetto di dimettersi, la crisi del liberalismo tecnocratico toglie legittimità allo stato democratico e apre la strada non tanto ai fascismi minoritari di oggi, ma semmai a un revanscismo religioso e nazionalistico che pare compattare meglio la società di fronte al disgregarsi dei grandi principi universali della filosofia occidentale.
La sostanza della critica della teologia politica, perché la teologia politica è a suo modo un pensiero critico non dialettico, è renderci avveduti della crisi del moderno, che da Hobbes in avanti si sforza di costruire uno stato stabile e duraturo, e inevitabilmente e al contrario, gli elementi di fondo e imprescindibili del vivere secolarizzato spingono alla instabilità perpetua. L’ordine statuale è instabile e tutto ciò che ha valore è minacciato o dal nichilismo devastante ogni fondamento, oppure dal ritorno mitico di una tradizione mai veramente esistita. Oscilliamo fra questi continui sogni che spesso si trasformano rapidamente negli incubi del particolare moderno. Come uscirne? Questo è il vero, drammatico, quesito ancora aperto.
Alessandria 10-09-2019 Filippo Orlando
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