Quando Star Wars: Andor ha debuttato nel 2022, nessuno si aspettava che uno spin-off di un prequel (Rogue One: A Star Wars Story, 2016) potesse rappresentare una delle vette più alte dell’universo narrativo creato da George Lucas. A distanza di due stagioni – la seconda conclusa da poco nel 2025, possiamo affermare con convinzione che Andor non è soltanto una serie riuscita: è un esempio di come si possa raccontare una storia complessa, umana e politicamente intensa all’interno di un franchise spesso associato a battaglie spaziali e duelli con spade laser.
Tony Gilroy, creatore e showrunner, ha scelto fin dall’inizio di non fare concessioni al tono giocattolesco o nostalgico tipico di altre produzioni Disney Plus. Andor è una serie cruda, realistica, dove la galassia non è divisa tra buoni e cattivi ma è attraversata da ambiguità morali, compromessi, sacrifici personali. La resistenza non è un’entità mitica, ma una rete clandestina costruita su piccole rivolte, spie, sabotaggi e soprattutto sull’intolleranza crescente verso un sistema oppressivo.
La prima stagione (2022) segue l’arco di trasformazione di Cassian Andor (interpretato da Diego Luna) da disilluso opportunista a resistente consapevole. Il racconto si sviluppa attraverso blocchi narrativi: Ferrix, Aldhani, la prigione di Narkina 5. Ogni arco si lega al tema della lotta per la libertà, mostrando le conseguenze intime e collettive dell’oppressione imperiale.
La seconda stagione (2025), invece, amplia il respiro della narrazione. Si avvicina sempre di più agli eventi immediatamente precedenti a Rogue One, offrendo una costruzione quasi documentaristica della ribellione. Non si tratta di epica, ma di politica e logistica: l’Alleanza Ribelle emerge non come un unico fronte, ma come un mosaico di cellule, dissidi interni, rivalità tra leader. Luthen Rael (Stellan Skarsgård), Mon Mothma (Genevieve O’Reilly), Dedra Meero (Denise Gough), Saw Gerrera (Forest Whitaker) sono personaggi che incarnano le tensioni ideologiche e strategiche di un mondo in bilico tra speranza e violenza; La seconda stagione chiude l’arco di Cassian Andor conducendolo con coerenza al suo destino in Rogue One. Il passaggio da fuggiasco a martire è lento, doloroso, profondamente umano. Anche i comprimari seguono traiettorie sorprendenti: Mon Mothma deve barattare la sua moralità con scelte dolorose per il bene della causa, Luthen Rael si rivela un personaggio tragico, prigioniero della sua stessa visione.
Lontana dalla CGI invadente e dai set digitali, Andor ha fatto un uso massiccio di location reali, con un design produttivo che restituisce una galassia “vissuta”, industriale, decadente. La regia, firmata da nomi come Toby Haynes, Benjamin Caron e Susanna White, adotta spesso uno stile sobrio, quasi europeo, con una fotografia dai toni grigi e ocra, lontani dai colori saturi della saga madre.
La colonna sonora, firmata da Nicholas Britell (Brandon Roberts per la stagione 2), è un’altra scelta vincente: elettronica, atmosferica, spesso straniante. Non ricalca i temi classici di John Williams, ma crea un’identità sonora autonoma, perfettamente aderente all’universo diegetico della serie.
Andor è Star Wars senza la mitologia, ma non senza l’anima. È la dimostrazione che l’universo narrativo più famoso del cinema può maturare, spingersi oltre la sua comfort zone e raccontare storie adulte, drammatiche e universali. In un panorama dominato dal fan service e dalla nostalgia, Andor sceglie la strada meno battuta: quella della verità.
Uno degli aspetti più sorprendenti della serie è la sua struttura narrativa: un lento crescendo, quasi letterario, in cui ogni arco di tre episodi costruisce un microcosmo drammaturgico — dall’oscura quotidianità delle colonie imperiali alla brutalità delle prigioni, fino ai giochi di potere nel Senato. Il realismo politico, raramente esplorato in Star Wars a questo livello, trova qui il suo compimento, grazie anche a personaggi secondari straordinari come i già citati Mon Mothma, Luthen Rael e Syril Karn (Kyle Soller). Uno dei personaggi più complessi è appunto quello di Luthen, il quale incarna la parte più ambigua della lotta contro l’Impero. In un celebre monologo, Luthen rivela di aver sacrificato la propria anima per costruire un futuro migliore: “I burn my life to make a sunrise I know I’ll never see.” – Brucio la mia vita per far sorgere un’alba che so che non vedrò mai. La sua visione suggerisce che la lotta al totalitarismo non è mai pura, e che ogni resistenza reale comporta compromessi morali, menzogne e sacrifici invisibili.
Ma il cuore di Andor è il discorso politico: si parla di autoritarismo, sorveglianza, compromesso morale e della necessità di combattere anche quando tutto sembra perduto. È una serie che restituisce dignità alla parola “Ribellione” e mette in luce i costi personali della lotta contro l’oppressione, con dialoghi memorabili e monologhi intensi (impossibile dimenticare quello di Kino Loy (Andy Serkis) o la dichiarazione finale di Maarva Andor (Fiona Shaw)).
Andor è dunque una serie politica. Non nel senso banale del termine, ma perché riflette sulla costruzione del potere e della ribellione. Ogni personaggio è posto di fronte alla scelta se piegarsi, adattarsi o combattere. Non ci sono Jedi a salvare la situazione, né Forza a guidare il destino. C’è solo la volontà, il dolore, la rabbia. C’è l’umanità.
Una delle intuizioni più originali della serie è la rappresentazione dell’Impero Galattico non solo come potere militare, ma come apparato amministrativo capillare e anonimo. Gli ambienti asettici del Bureau of Standards e le dinamiche lavorative dei funzionari imperiali ricordano da vicino le distopie orwelliane o kafkiane. In particolare, il personaggio di Dedra Meero (interpretata da Denise Gough), analista dell’ISB (Imperial Security Bureau), mostra come il male totalitario si possa presentare in forma tecnocratica, razionale e persino competente, senza bisogno di sadismo o crudeltà plateale. Nella seconda stagione, infatti, la serie Andor approfondisce ancor di più la rappresentazione dell’Impero come una struttura burocratica opprimente. Gli episodi 7-9, in particolare, mostrano il genocidio orchestrato sul pianeta Ghorman, un evento che richiama tragicamente episodi storici reali. Il creatore Tony Gilroy ha sottolineato come la serie si ispiri a eventi storici di oppressione di massa, evidenziando come l’Impero sfrutti l’isolamento e l’orgoglio delle comunità per giustificare le proprie atrocità. Un altro momento cruciale della stagione è il discorso della senatrice Mon Mothma, che denuncia pubblicamente il massacro di Ghorman come genocidio. Questo atto di coraggio politico evidenzia la difficoltà di opporsi a un regime che manipola la verità e reprime il dissenso. La serie utilizza questo evento per riflettere sulle sfide contemporanee nella lotta contro la disinformazione e l’autoritarismo.
Andor si distingue per la sua capacità di affrontare temi complessi e attuali attraverso la lente della fantascienza, si allontana dal mito della Forza per mostrarci un universo in cui la politica, la repressione e il potere assumono forme fin troppo riconoscibili. L’Impero non è più il regno del Male assoluto, ma un sistema che funziona perché tanti lo alimentano, spesso senza nemmeno rendersene conto. In questo senso, la serie riprende la lezione di Hannah Arendt sulla “Banalità del Male”, offrendo una riflessione disturbante ma necessaria sul nostro rapporto con il potere.
Star Wars: Andor o Andor: A Star Wars Story – come suggerisce la stagione due – rappresenta uno dei prodotti più maturi e coraggiosi mai realizzati all’interno del franchise. Con una scrittura adulta, una regia attenta ai dettagli e una visione lucida della politica e del potere, la serie offre non solo un racconto appassionante, ma anche una riflessione profonda sulla resistenza, sulla paura e sull’identità. Più che un semplice capitolo della saga, Andor è un’opera autonoma capace di parlare al presente, dove la lotta contro le tirannie – esteriori e interiori – è più attuale che mai.
Che la Forza sia con voi!
Riccardo Coloris
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