“Anima e Mondo”: Borgo San Paolo alle origini del socialismo italiano

Proseguo nell’anticipazione del mio libro “Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni. L’idea della rinascita nel XXI secolo, Golem editore, Torino, 2018” a partire dal capitolo “Socialisti e libertari”. In questa “puntata” il focus si sposta nel mio Borgo San Paolo natio di Torino. Nello stabilimento Lancia di Corso Peschiera, proprio a ridosso dei cortili delle case popolari in cui abitavamo, intorno ai vent’anni lavorò come operaio mio padre, che fu lì tra i fondatori delle Casse Mutue contro le malattie. In seguito si diplomò, divenne un funzionario della Cassa Malattie, prese la Maturità Classica, si laureò in Legge e dal 1949 divenne direttore dell’INAM in diverse città, tra cui Alessandria.

   Presentando la puntata precedente ricordavo che dopo un medico del suo paesello siciliano natio, un mazziniano del 1848, quasi un secolo dopo fu proprio mio padre il primo laureato in famiglia, prima di me e di altri due miei fratelli.

   L’immagine che ho scelto per questa “puntata” mostra i cortili “sanpaolini” delle case popolari della mia infanzia. Lì vissi anch’io alcuni anni felici. E vi tornai sempre da miei zii. Nel delineare questo capitolo ho immesso, nei tanti ricordi di famiglia dei miei, dei miei zii e nonni, soprattutto le cose che ho studiato per molti decenni sul socialismo e comunismo in Italia. Su ciò nella mia vita ho scritto migliaia di pagine. Ho pur curato scritti e biografato Bordiga (Feltrinelli 1975 e Editori Riuniti 1976) e Filippo Turati, il vero fondatore e capo storico del socialismo italiano (Feltrinelli, 1979 e Rizzoli, 1984). Perciò ho potuto mescolare, qui, storia e ricordi, con un pizzico di immaginazione conforme ai ricordi diretti e indiretti ed ai molti miei studi storici: alla ricerca dell’anima mia e collettiva, anche nella storia. Ho cambiato qui le prime cinque righe, rispetto al libro,  per dare un minimo di autonomia al testo che propongo. Buona lettura.

  Il socialismo trovò il suo humus dentro la grande Valle Padana, che nel profondo era ed è più cristiana – più solidale nei suoi precordi, in primis tra la gente povera – di antichi popoli del Mediterraneo, che nell’antico erano stati greci e pagani. E infatti nel nord della nostra Italia, specie ove scorre il vecchio Po, il socialismo va sempre avanti per tre decenni dalla sua nascita: sin quando irrompe la dittatura in cui il nero ingoia il rosso (ma il rosso poi riprende a correre, specie nel nome del “comunismo”, quando il fascismo viene disfatto). Il socialismo ivi è un grande fiume, anche se poi entra in un mare che è ancora quello del Capitale, come purtroppo è ancora vero (ché “il nostro” Oceano resta lontano: ancora latita Colombo nostro, resta remoto il mondo nuovo). Ma il socialismo quivi è di casa.

   Dapprima capita nella tragedia, verso la fine dell’Ottocento: non solo in quanto c’è la miseria, a lungo grande anche nel Nord, ma perché allora c’era la pellagra in tante zone della campagna: gonfia la pancia specie ai bambini come alle puerpere di nove mesi. Non si può vivere sol di polenta.  Nera signora falcia i più poveri anche all’interno delle città, in cui consuma bronchi e polmoni, dentro casupole umide e fredde, e in officina in mezzo ai miasmi. Focolai sono innumerevoli. Se in sette giorni febbre permane, campana a morte segna un destino. Penicillina è ancor remota.

   Però nel mezzo di tanto abisso, sorge l’aurora della speranza, che in questo Nord mette radici sicché diventa quercia frondosa.  Sol d’avvenire prende a spuntare, dentro la grande Valle Padana come venisse fuori dal mare, e infatti sorge dapprima a Genova, mentre Ottocento volge al tramonto, nel 1892. Ogni Paese fa il suo partito dei socialisti poveri cristi. Pochi i compagni intellettuali, la grande parte son proletari. Al primo albore son centinaia, presto saranno poche migliaia in un’Italia molto operosa, ancor cenciosa però in cammino. Nei sindacati, presto milioni, sempre nel nome del Socialismo; molte migliaia dentro il Partito, nelle sezioni, nelle officine, più ancor nei campi come braccianti (veri operai della campagna almeno nella Valle Padana, ma con propaggini persino in Puglia, un’eccezione nel grande Sud). Il Socialismo va sempre avanti nel grande mondo dei salariati, della campagna, della città: siano braccianti, siano operai; sino all’avvento delle camicie nere, che però arriva solo dal ‘21. Mentre si apre il Novecento, la storia era tutta diversa: “sinistra estrema” nei municipi; con quattro soldi creano i servizi per aiutare la gente povera, sempre tenendo i conti a posto, come la legge allora comandava; bandiera rossa nella Società Operaia, dentro il Partito, nel Sindacato: fuori dal mondo del padronato, come se i rossi fossero stati un mondo piccolo, tutto formato da lavoratori, prefigurante un “mondo nuovo”.  I proletari scorgono l’aurora, nel loro avito primo trentennio, come gli ebrei dentro l’Egitto; anzi, gli ebrei da due millenni, che ancora aspettano la redenzione. Ma i socialisti la credon prossima, appena al fondo del tunnel nero. Il germe cresce, e ben si vede, sia pure minimo quanto si vuole. Più sono oppressi e più vi sperano, sotto le insegne di Karl Marx, ma ripensato a modo loro, qual San Francesco della rivolta: “Dolori e gioie saran divisi. In breve tutto sarà di tutti. Ognuno dovrà qui lavorare o resterà senza mangiare. Soltanto i bimbi, vecchi ed invalidi potran campare senza sgobbare, essendo a carico di tutti quanti. Lavoratori, tutti al potere: uno per tutti, tutti per uno, senza dipendere più da nessuno, né nell’impresa né nello Stato”, Molto diversa realtà effettuale, il nuovo infante in gestazione, il socialismo parlamentare, sin troppo aperto ai compromessi. Per non parlare del socialismo “reale”, il cosiddetto Comunismo: il leninismo e poi stalinismo, che infatti emergono molti anni dopo, nell’efferata Guerra mondiale, in mezzo ai ghiacci di Pietrogrado, in cui il potere del proletariato – che per quattr’anni c’era pure  stato, sebbene in mezzo alle tragedie – sarà scippato sino alla fine dall’apparato, fior fiore della burocrazia di stato, in un decennio in modo pieno, e di lì in poi “pianta d’ogni clima”, in senso inverso a chi l’aveva detto – proprio a ridosso del russo ottobre – potere stesso del proletariato. Nell’anteguerra era diverso sin dalla fine dell’Ottocento, tra proletari ben solidali, ma senza incombere di caporali pure nel nome del sol dell’avvenire, il quale invece era tutto loro (senza burocrati come tutori, come sarà nel Comunismo).

   Tutti faticano per dieci ore, e molto spesso anche di più. A nove anni uno è già buono, dopo due anni solo di scuola, per l’officina o la filanda, il calzolaio o il falegname, per munger vacche o seminare, o spannocchiar grano dopo il raccolto con il suo babbo, con la sua mamma, i suoi fratelli, le sue sorelle, che allora sono ovunque tanti. “Va a spané d’ mélia”: così vien detto per sprezzatura sempre rivolta verso i baròtt (quelli che stanno nella campagna) nel mio nativo Borgo San Paolo dell’operaio professionale, nella Torino di mio papà, della mia mamma, antelucani come “terroni” dalla Sicilia, dopo la prima guerra mondiale, prima che il fascio fosse al potere nella sua forma dittatoriale, all’albeggiare degli anni Venti. Intorno al Borgo c’è la campagna. Fanno due passi e ci son dentro. La povertà furoreggiava. Solo in cucina c’era la stufa. Latrina immonda sopra il balcone era la norma, non l’eccezione, dentro le case dei proletari, persino in quelle degli artigiani, per non parlare dei contadini, in cui era un buco fatto per terra con assi intorno per la “decenza”. Mangiavan carne solo nelle feste grandi. Il fiasco solo giammai mancava, ché la miseria si consolava in casa oppure all’ostu loro con la Barbera in ogni dove, narrata tramite “Maria Giuana”; ma “chi va all’osto poi perde il posto”.

   Vita operaia nella mia infanzia era “migliore” pure se il motto restava valido, dopo la seconda guerra mondiale. Non si faceva ormai la fame, dopo il secondo conflitto immane, almeno dagli anni Cinquanta, neppure quando mancava il posto, benché indigenza fosse diffusa. E c’era ormai la penicillina sino dal tempo della mia infanzia. Si faticava dopo la quinta elementare. In ogni caso ad undici anni. Era la sorte dei proletari. Ti piaccia o meno, devi servire. Devi sudare, se vuoi campare. Se ti va bene, migliori un poco, ma l’indigenza è il tuo destino.

   Son mosche bianche poche eccezioni, però lottando sino allo spasimo. Ma l’eccezione non è la regola, e chi si eleva dalla miseria e si fa ricco effettivamente, paga salato il gran sudore per ciò versato, le mille astuzie e i compromessi fatti per giungere dov’è arrivato (forse persino al giorno nostro). Gioco non vale candela accesa, male di vivere sol muta segno. Però andrà meglio per i figlioli, e soprattutto per i nipoti.  L’eroe che sale resta ferito, il nato povero resta fottuto, anche se infine si è un po’ arricchito, a parte pochi più fortunati, che si son meglio mimetizzati, di cui in molti scordano gli inizi. In generale il tipo tale giunge alla meta spesso angosciato; ride e ama molto, spesso felice per la potenza che ha conquistato, ma il cuore spesso è sanguinante. Dové umiliarsi con i potenti mentre picchiavano pure sui denti, sempre irritati dal suo avanzare (“chi crede d’essere questo pezzente che prima aveva le pezze al culo?”). Non si perdona giammai chi sale pure nel mondo senza le caste. Potenti e poveri sono spietati, i borghesucci pure di più quando uno appena li sopravanzi se giovinetto era caduto; dovrà passare una generazione, e spesso una non potrà bastare. (…)

   Vita servile, vita alienata, sembrava incombere come un destino. Ma per i nonni era miseria, sicché cercavano il lor riscatto sotto le insegne del Socialismo, come nel sogno del nostro omino, nei nostri slums col suo Monello di Charles Chaplin, quando vedeva il mondo degli angeli, la comunione tra tutti quanti, ch’era in sostanza il nostro mito, pure guastato dalla realtà che s’affacciava nel dormiveglia, e tanto più quando era sveglio: col poliziotto, il prepotente, ed i burocrati d’orfanatrofio, sempre appostati poco più in là come servili proni allo Stato che s’infischiava del proletariato. Pure il bambino voglion strappargli, che per lui era figlio adorato, un trovatello da lui raccolto, su cui versava tutto il suo amore. Però alla fine vince l’omino. Il suo bambino resta con lui. Lotta straziante l’ha emancipato. Deve desistere pure lo Stato quando l’amore tra noi sia immenso.

   Il Socialismo fu cosa loro. Il Socialismo fu casa loro. La Società fu l’ostu loro. Affaticati, ma in allegria, son pure i giovani e i padri loro. Bevono, cantano e insieme sognano la lor giustizia e libertà: ingenui e kitsch, però giganti. Mi fanno ridere i loro canti, sbrodolature sentimentali spesso melense e dozzinali, ma mi fa piangere chi li cantava. Il dio Vulcano li benedice, beve un cichèt col nostro Dioniso. Molti tra loro son forti e schietti, e infatti ciulano proprio per bene, quasi fanciulli quelli più svici. Ma per le svice spesso è tragedia: se le conquida qualche balùrd, le concupisca un gargagnàn, presto finiscono sul marciapiede.

    Dentro il quartiere molti sùn napuli, sicché il mio Borgo dicono sia quartièr cinèis, come se fossimo degli stranieri (forse lo siamo per i borghesi). Pur proletari del nostro Borgo un poco sfottono i “furesté”, talor sorridono dei lor “terroni”: “napuli, napuli, quatt sòld ad gnàciu – pochi centesimi di castagnaccio – le fìe mate sun da marié”: con l’ossessione di maritare le loro “figlie non accasate”. Tutti le mandano a lavorare, perché si deve pure campare, ma i napuli lo fanno a malincuore: temono infatti siano scopate prima di giungere al loro altare tutte “illibate” come si deve, quasi esse avessero la ciòrnia d’or. Però i Gennari e Salvatore tutti li vogliono come lor generi, tutti li accolgono come cognati, tutte li cercano come mariti. Vale ancor più per le lor fìe, brave ragazze bìn anlevà, giungono in chiesa spesso illibate.

   Sozzo razzismo non è del Borgo. E chi ce l’abbia e sia suonato se mai un Gennaro si sia incazzato, “vada a canté int ‘n’autra cùrt”.

   Almeno il sabato, in allegria, gomito a gomito come compagni. La loro opera è collettiva e quel che fanno è roba loro, senza signori né funzionari. Fine Ottocento era così; pure così vent’anni dopo quando i miei cari eran fanciulli. Anche nel mezzo della miseria, lottare insieme mette allegria,  sin dai primordi e a lungo dopo. Dà un fine nobile ad una vita, gomito a gomito tra i “saltapasti” in specie in casa dei socialisti, in Società e al Sindacato. Loro pensiero puoi divisarlo: “Vieni con noi, bevi un bicchiere, ti scalda il cuore sino alle vene. Tipi borghesi manco lo sanno: siam solidali senza pensarlo. Molti tra noi son come loro, sono borghesi senza i quattrini: siamo una gente in carne e ossa, non superuomini di cartapesta. Ma per lo più noi siamo amici perché ci piace esser sodali quali mai furono i cocchi di mamma, lindi e egoisti sin dai primordi, e prepotenti, e pure vili,

dieci contr’uno per vezzo antico anche all’interno del mondo loro: assai viziati, spesso viziosi, vadano a prenderselo tutti nel frac.” Lungi è il riscatto, ma s’intravede: orsa polare pei naviganti, sin dalla fine dell’Ottocento.

   Ma proprio mentre questo accadeva, dando l’impronta a tutta un’era che ancor lambiva la Grande Guerra, sino al Quattordici o poco più, sino alle squadre di Mussolini emerse dall’anno ’21, nel socialismo si formò pure – quale cultura che l’integrava – una miscela alquanto strana di cretinismo parlamentare e di marxismo “positivista” (con la pretesa d’essere scienza), o riformista o massimalista.

   Fu favorita da una ventura che poté essere una iattura. Mi riferisco alla scissione tra il socialismo e l’anarchismo sin dalla nascita di quel Partito, nel 1892, ma con sviluppi sino al fascismo. Non abbiam certo nessun’ubbia per l’ideale dell’Anarchia. Tale tendenza è in sé un composto i cui ingredienti poco ci piacciono. Sempre è segnata dall’utopismo. Crede possibile ciò ch’è impossibile. Mira ad un luogo che mai c’è stato, e come fosse già dietro l’angolo: il libertario vuol tosto farlo, anticiparlo il giorno dopo. “Quell’ impossibile si deve attuare: la volontà fa il divenire, può riscattare ogni servire: pochi ma buoni, però per tutti.  Ciascuno poi potrà apprezzare quello dai pochi prefigurato: il nostro riscatto senza confini; il Fine massimo, ma qui e ora, pure travolto per mille volte – noi lo sappiamo che ciò accadrà – che però semina la libertà. Il chicco buono poi frutterà il gran raccolto della libertà in cui saremo uno per tutti, tutti per uno. Passerà un anno, passerà un secolo, passeran forse anche due secoli, ma la via buona è quella nostra: oltre il principio d’autorità, da cui dipende lo sfruttamento, in ogni istante, per sé e per tutti. Oltrepassandolo quando possiamo, pur nel crepuscolo del capitale, vediamo luce in fondo al tunnel anche se è nero come la pece: questa soltanto è la vita libera, oltre il principio d’autorità, la quintessenza di qualunque Stato, lo sfruttatore che è più dannato, di tutti quelli che per campare debbono andare a lavorare vendendo la loro forza lavoro. Dobbiamo sfuggire alle sue grinfie in ogni cosa che lo consenta, in ogni attimo dell’esistenza, e ognor lottare per abolirlo, come San Giorgio che uccise il drago. Siamo lo spirito della negazione per annientare ogni servire. Testimoniamo che si può fare in tutto il nostro modo di campare. Ogni altra strada è un’irrisione; se tu ci credi resti fottuto, per quanto agiti la coda del culo.” È l’A, B, C del libertario, è l’alfa ed omega dell’Anarchia. Però mirando all’impossibile, vede “il possibile” sempre ingannevole: “un po’ di grasso gettato al gatto”. Vera realtà per lui è il suo sogno.

   Ma per i più tra i proletari campare supera ogni sognare, benché quel mito resti latente, tutto giustizia e libertà senza servire mai più nessuno: sempre galleggia in ogni mente, forse persino in ogni ànthropos. Certo è latente nel proletario.

   Ma il passo piccolo qualcosa vale, opina quasi ogni compagno, pure a dispetto del libertario. Il grande sogno di vita nuova, e socialista e libertaria, tutta diversa da questa qua, tosto giustizia e libertà, senza lo Stato, senza padroni, e senza preti rompicoglioni, tutto da vivere e qui e ora, suscita un moto catacombale: vita di setta, non delle masse. Gli illuminati in mezzo a loro, intellettuali spesso frustrati, coi lor papà sempre incazzati sin da ragazzi e pur da vecchi (anche per tanti buoni motivi), han l’amarezza in fondo al cuore, la cifra stessa del loro campare, che induce a odiare l’autorità, il Grande Padre, “l’uomo che sa”. Tra loro stanno pochi operai, ma solo quando son molto giovani. Poi prenderanno la loro strada, spesso facendosi i cazzi loro (“se l’Anarchia fu solo un sogno: ognun per sé e Dio per tutti: pure alla larga dai socialisti, che molto ciarlano e nulla fanno”, dicono questi poveri cristi mentre diventano degli egoisti: ancora al termine di “Lotta continua”, che alla radice fu libertaria intorno agli anni del Sessantotto). Più persistenti i sottoproletari, talor finiti in gattabuia perché grattavano la roba altrui sempre sprezzando la proprietà (giustificati dai libertari in quanto tipi contro lo Stato “almeno in una forma istintiva”, “a loro modo gente in rivolta”).

  Per tutti loro quest’Anarchia ben sublimava la vita effettiva. Separatezza ivi è opzionale, un modo d’essere il più normale, come la manna scesa dal cielo. Sono a lor agio solo tra loro: pochi ma buoni e marginali. Passano il tempo gomito a gomito. Tra loro chiacchierano da mane a sera; sono di casa nella lor piola, sempre sognando la gran rivolta in cui nessuno comandi alcuno: senza padroni, e senza Stato (“maggior nemico del proletariato, ché senza lui pure il padrone lo prenderemmo a calci in culo, lo cacceremmo in un baleno, e, se insistesse, al cimitero”).

   Ma per la massa dei proletari il numero stesso è ognora potenza. Vogliono essere e tanti e contro sino dai giorni del nostro Marx. I proletari han pé per tera: perciò Anarchia non li persuade, benché talora possa tentarli se mai la rabbia sia smisurata. I tipi anarchici non li convincono: però comprendono questi anrabià, pure dicendoli ’n po’ fisà. Sempre così io ho pur pensato, quando un adulto son diventato: “Pochi ma buoni” son già i padroni. Storia la fanno le grandi masse, sebbene ognora coi capi loro. Anche se seguano opposte bande: il massenstreik di Rosa Luxemburg, moto di masse per sé spontaneo, che rende attuale la liberazione dei proletari dal Capitale con la potenza della rivoluzione, che dee sussumere l’istituzione, la forma stato e ogni partito, quali “strumenti” dell’operare dei proletari dentro la Storia; ma pur se seguano Capo dannato, quando c’è “fuga dalla libertà”, come spiegato dal bravo Fromm, se tutto intorno sia la ruina, sicché s’inventino un Salvatore, tutto diverso dai tempi andati, in cui era stato un marginale; anche se, dopo, quel pifferaio – se sia diabolico pseudoprofeta, ben conosciuto proprio dai frutti come Gesù ci aveva detto – tutti ipnotizzi col flauto magico portando i ratti dentro l’abisso; e pur se ascoltino re di denari, si chiami Berlusconi o Donald Trump, un lor “padrùn dalle bele braghe bianche”, che in grande crisi del vecchio Stato risulti il primo incantabissi, ora coi suoi piccoli schermi, eroe del tempo dell’”ultimo uomo”. Ogni elitismo perciò è sbagliato, ché senza masse non nasce niente, tanto nel bene come nel male, nel grande mondo del Capitale (e pure in quello che lo contrasta). (…)Perciò ogni élite senza le masse, pur se si tratti di libertari, è come un campo pieno di ortiche, dove non nasce il grano nostro. È un Michelangelo senza scalpello e senza marmo per le sue statue; Napoleone senza l’Armata; un Casanova senza le femmine (o senza maschi se abbia altri gusti). La relazione tra masse e élite è in ogni caso chiave di volta. Mai “solo élite”, mai “solo masse”: due forme opposte dell’impotenza, cui s’accompagna nostra indigenza. Gioco è incrociato: le impone entrambe. In maggioranza o minoranza, servono sempre immense folle perché altrimenti non conti niente.  Se tu rimani senza le masse, l’irrilevanza è garantita. Pure se tu manco lo sai, pure se tu giammai lo vuoi, tu devi fartene una ragione: stai dentro un campo di contendenti e nella pace e nella guerra; l’area è percorsa da folle immense in qualsivoglia lotta sociale, in cui è perduto il marginale che voglia o debba restare tale nei tempi lunghi dell’esistenza. Starai con gli uni, starai con gli altri, ora volente e or spinto a calci; giocherai sempre per qualcheduno pure se tu non voglia farlo. Buona o cattiva, Storia è così Da essa niuno può mai sortire. Ti puoi fregare di tutti quanti se per te le vacche siano tutte nere come ci appaiono nella fosca notte, ma sol negando le differenze, che nel reale ci sono sempre. Ti puoi salvare in seno al popolo; ti puoi dannare in seno al popolo, ma senza il popolo tu non sei niente, anche se fuori dal grande mondo talora vedi pure più a fondo, poiché riesci a oggettivarlo, quasi non fossi dentro di esso. La setta – però volta al riscatto, quale fu quella dell’Anarchia, ma forse è valso per ogni setta di qualsivoglia orientamento fosse essa rossa o nera o verde sino ai più prossimi tra i nostri dì – guardando il mondo qual “mondo altro” può pure cogliere quel che è celato a chi al “reale” sia abbarbicato (sicché non vede oltre il suo naso). È qual Noè nella sua arca, quando scrutava globo allagato: vedeva – con Dio – fuori da tutto, mentre il gran mondo andava a fondo, come osservava Marcel Proust. Il feticismo che è della merce può fuorviare grandi compagni, ed offuscare la mente stessa di vaste masse di proletari. Perciò l’anarchico è da capire, pure il “fissato” è da ascoltare, i suoi discorsi sono da meditare se il grande sogno non dee morire, ché ci dovremo pur liberare (chi ce lo spiega, qualcosa vale, e ricordarlo resta essenziale). Solo il servile, l’uomo volgare, lo può ascoltare come un marziano, quasi qual tipo di testa frasca. “Un dì nessuno dovrà servire – torna a spiegarci il libertario -. Tutti dovremo insieme vivere senza lo Stato né il padronato. Più tardi è, e peggio è. Un’altra strada per noi non c’è. In mezzo c’è solo illusione. Sotto padrone, sotto lo Stato, l’antica infamia non passerà.” Pensa così il libertario, per molti versi cogliendo il vero: il mondo retto dal padronato, il mondo in cui c’è ognora Stato, sotto ogni clima e in ogni dove infatti è ognora un mondo sozzo, una discarica a cielo aperto, e per ragioni che lui ci spiega, in questo meglio di Karl Marx.

   Ma il libertario, che pure svela il vero, non porta luce per nostr’azione. Sua verità resta “analitica”, la grande critica “macina a vuoto”, e svela cose che ogni politico un po’ cresciuto scopre e riscopre in ogni campo, e forse pure in ogni tempo, e che così possiamo dire: “Ogni potere sporca le mani. Sovranità non delegare, ché, se lo fai, non è più tua, e il delegato, d’un balzo solo, il tuo potere dee soppiantare. Nel parlamento non t’immischiare, o ti farai sempre irretire da una potenza comunque immane che non ti serve, ma che tu servi qualunque sia la tua intenzione, qualsiasi sia tua convinzione. Vai per suonare e sei suonato, in primo luogo dalla Forma Stato, che scippa tutta la libertà. Oppure suoni proprio i sodali, spremi ed umili i tuoi compagni, vendi Gesù per trenta denari, per il potere del vecchio Tempio, sempre alleato dei militari. Caifa e Pilato sono connessi, insieme sempre si compromettono, e sempre un Giuda è pronto a venderci (tardi si pente e va a impiccarsi).  Prendi tu pure sozzi denari, diventi complice dell’Anticristo, risulti cellula che è tumorale, assai preziosa per quel Nemico. Nega la delega, puoi trarti fora. Solo il prestigio fa buoni capi che sian davvero interni al popolo; se mai insigniti, formalizzati in istituti a ciò preposti –

quelli che il volgo dice ‘elettivi’ – diventano tutti dei padroncini, persino dentro il tuo Partito.” Il libertario lo pensa sempre.

   “La dittatura dei proletari – afferma già Michail Bakùnin – pur se dirà d’essere tale sarà soltanto una tirannia d’ex proletari e intellettuali sui contadini e gli operai.” Ce lo spiegava solo a due anni dalla Comune, nel 1873, ponendo allora l’alternativa tra forma “Stato” e l’”anarchia” in un suo libro da meditare che furibondo rendeva Marx, che le sue glosse tosto segnava: mentre quel Michail tutto intendeva bene sapendo come va il mondo finché non sorga “umanità nova’”. Svelò il segreto da Marx negletto: proprio “il rimosso” del nostro Marx. Lo voglio esprimere a modo mio, però il pensiero rimane il suo: quello di Michail, da Marx maudit, pure per tale Stato e anarchia. “Sorta la Storia l’uomo è cambiato, ha introiettato tabe di Stato. L’Ombra è nel cuore anche migliore. L’uomo non nasce qual produttore, non è l’effetto di quel che fa, ma di chi ha in pugno la società in quanto domina sopra lo Stato. Senza di esso, pure il padrone dileguerebbe immantinente. Non durerebbe due settimane. Potere ‘buono’ è un’illusione. Nella sua propria realtà effettuale, lo Stato è come un demone che sia invisibile, è l’Ombra stessa qual vero archetipo. Pur modellata dentro la Storia, che dà le maschere all’Ombra stessa, questa in sostanza resta sé stessa, qualunque sia la Forma-Stato: pure nel nome del proletariato, in quanto implica Stato maudit, che sempre opprime chi gli sta sotto. In breve tempo, torna il bastardo, spietato e forte come ai primordi. Il virus resta sempre operante, sicché lo Stato può fuoriuscire, diverso e uguale in ogni tempo, e gl’innocenti sempre ammazzare. Può tutti opprimere in ogni modo, con le estorsioni senza misura e la potenza di costrizione, che ognora tornano, come ogni notte fanno i bastardi nei nostri sogni, che pure nascono dall’esser nostro: anche nel nome dei lavoratori, pure per conto degli sfruttati, se mai qualcuno abbia un potere sovraordinato su tutti quanti, nel nome della pretesa legge, come ogni Stato sempre proclama. Il risultato è ognora scontato: assicurata è la prevaricazione ove qualcuno voglia per tutti, chiunque sia che l’ha mandato. L’ingenuo sogna che siamo santi, se a comandare siano i ‘nostri’, immaginando Stato ‘diverso’, cuore e cervello del proletariato; ma l’arroganza sempre è in agguato ove qualcuno abbia il potere: pure nel nome dei cittadini, pure per conto dei proletari, pure estorcendo l’approvazione – con le cattive o con le buone – della gran folla che quivi scelga i legislatori oppure i governanti.”

   La conseguenza che ne traeva era coerente quanto utopista: la cifra stessa dei nostri outsider. A modo mio la torno a dire, sia per Bakunin o per Kropotkin, Carlo Cafiero, il Malatesta, Sacco e Vanzetti, la vasta schiera dei libertari, “Lotta continua” e “Autonomia” (pur se negavano ogni Anarchia era lo spirito del loro agire, e tale resta anche oggidì): “Solo il futuro detto impossibile val contro un oggi senza speranza. L’uomo egoistico, sempre tirannico, senza lo Stato scomparirà: perché lo genera l’autorità quando si eleva sopra ciascuno come se fosse un mondo a parte, un’entità artificiale, in sé perenne, istituzionale: nella natura giammai esistita. La nostra specie nata sociale, nel caso umano autocosciente, di universale spirito immanente, senza il potere artificiale, senza lo Stato sovraordinato, potrà tornare ben solidale, qual l’animale che viva in branco in tutto il mondo che è naturale. Senza lo Stato ritorneremo uno per tutti, tutti per uno. Sorgerà allora un’‘umanità nova’ oltre il principio d’autorità. Se mai il potere torni informale, senza corazza istituzionale, i poliziotti, la polizia; se torni ad essere una faccenda interpersonale, in nessun modo istituzionale, la biologia si fa politica: anzi politica si fa biologica. E accade in parte al tempo nostro, quando operiamo senza quel mostro, o ci battiamo contro quel mostro, quali embrioni d’umanità nova’.” Già lo sapeva nostro Kropotkin, pur senza il Negri e il suo Foucault. Scoprono quello che lui sapeva, anzi sapeva meglio di loro. “Dalla scintilla dell’Anarchia – anche se resti un fuoco fatuo, un’intuizione del divenire, pure minuscola anticipazione del nostro mondo della libertà – riemerge l’uomo detto ancestrale, il ‘buon selvaggio’ in noi latente, come nel tempo del barattare, in cui non c’era il Capitale, né Forma Stato, che lo fa durare, ed è persino marcia radice di chi ognor spreme nostro sudore per ricavare il plusvalore. Vogliamo l’uomo senza cavezza. Vogliamo un eros senza barriere. Quel ch’è impossibile, sarà possibile. Un tipo buono giace latente nella natura propria dell’uomo (pensa l’anarchico, come Rousseau, con stessi rischi d’enantiodromia). Se tutti i vincoli d’istituzione con la rivolta potrai spezzare, amor, piacere – propri del branco – anche domani puoi ritrovare. Solo il potere fa ineguaglianze, in specie se formalizzato. Se togli Stato, proprietà crolla (con la coorte dei privilegi). Senza signore, in Cielo e Stato, e nella sfera di proprietà, farà irruzione la libertà.” Così parlava il libertario. E così parla pure il suo epigono, da quel Bakunin sino a Kropotkin, da Toni Negri sino a Foucault.

    Che fare dunque?

Chiusa la strada verso il potere di parlamento o giacobini – forze elitiste sempre ingannevoli, o liberali o dittatoriali, pei libertari intercambiabili, col parlamento e pure senza –  si deve forse gettar la spugna, o far la parte da “uomo qualunque”  dell’età romantica, da don Chisciotte amareggiato quale quel Stirner famigerato, apologeta dell’individualismo sino alle cime dell’egoismo, in primo luogo contro lo Stato, che Marx e Engels han canzonato con umorismo che è filosofico, come Voltaire dentro Candide, ma lì Voltaire del comunismo, nell’irresistibile Ideologia tedesca?

   Non lo opinavano i libertari e socialisti e comunisti. Questo era invece il loro pensiero dalla Comune ai nostri dì, che sempre esprimo a modo mio: “Se il mondo nuovo non lo puoi fare senza allo Stato te pur piegare, solo l’azione distruggitrice potrà poi essere liberatrice. Ogni equilibrio è conservatore. Ogni squilibrio è salvatore. Sol la barbarie di grandi masse, la rivoltella di rivoltosi, nei tempi lunghi potranno minare qualsiasi forma di statalità aprendo la strada alla libertà: quella di tutti e di ciascuno.”

   Ma un tal contesto da avveniristi, da sfiduciati e terroristi, poteva solo alimentare un ben vetusto gran congiurare. Amor di setta o Carboneria già fu risposta alla tirannia degli stranieri e pure dei borghesi come nel nostro Risorgimento. Però era pure una vocazione connessa a quella tal condizione ch’è da irrealisti e pessimisti, compagni eroici ed arrabbiati, buoni soltanto a trucidare, o anche a farsi ammazzare per un rifiuto del mondo intero con l’utopia qual sogno vero. Son quattro gatti, vedon legioni pronte ad accorrere al loro fianco, qual proletario che allor “si desta”, e “Dio si mette alla sua testa ed i suoi fulmini gli dà”, come diceva un dì Mameli: lo pensò pure “Il diavoloa Pontelungo”, il vecchio Bakùnin sempre in rivolta, già canzonato lì da Bacchelli (e ancor ci casca il Toni Negri, come in Dominio e sabotaggio, e nel Potere costituente, in cui pur splende una grande mente). Nella lor testa credono d’incarnar la Storia, anche se le masse manco ci pensano. E l’immaginario del libertario rimane tale: forma mancata dentro il sociale; e dura pure se quelle masse oppresse siano attratte dalla reazione. Così morì Carlo Pisacane. Così impazzì Carlo Cafiero. E così è morto Gianfranco Faina, quasi abbracciato a Toni Negri con cui egli era incarcerato. E così è morto ogni rivoluzionario che abbia confuso il suo immaginario con il pensiero vero delle masse, che possono essere masse in rivolta, ma solo quando si siano scatenate, e non perché un piccolo gruppo esterno le chiami a qualche insurrezione, con un appello ognora vano se la rivolta non sia iniziata, in una forma inequivocabile, in molti punti della società, in una misura significativa. È l’A B C d’ogni marxismo, ma pure quando fosse professato, ogni settario non l’ha mai capito. I profeti di sventura non l’intendon mai: per lor sventura e a danno delle masse, sia quando siano poveri illusi, sia quando siano anime grandi, come fu pure quella di Faina, giammai seguito nelle opzioni estreme, e che però molto a vent’anni mi apprese, con empatia mai più scordata, proprio all’aurora degli anni Sessanta. E tuttavia quell’approccio era vano, dentro la sfera della politica, in cui l’anarchia è scuola di disfatta, pur motivata da puri di cuore come Cafiero o questo Gianfranco.

   Ha sempre espresso quel tale humus ben inquadrato da Antonio Labriola, e che tu certo potrai vedere se desperados vuoi frequentare persino dentro il nostro tempo, in cui per altro l’Anarchia ritorna. Diceva infatti Antonio Labriola quando parlava dell’Anarchia, opposta tutta all’altra via del Manifesto dei comunisti, a cinquant’anni dal grande annuncio: “Ivi, fioriscono solo illusioni, e vi campeggiano meschini intrighi, oppur si formano conventicole in cui il pazzo sta con la spia. Al movimento degli operai voglion legarsi tenacemente, qual parassita addosso a un corpo, ma per tal via essi lo screditano. Sono accozzaglia di malcontenti, degli spostati, e borghesucci, speculatori sul socialismo come su altre fedi similari che sian di moda sopra il mercato. Spesso convincerli è molto arduo. Solo il disinganno apre i loro occhi. Altri però li sostituiscono.”

   Tutto tal quadro è persuasivo: descrive “il culo” del sovversivo; ma questi ha pure una faccia buona, ch’è quintessenza del riformismo il disconoscere nell’anarchismo. Sì, il libertario spesso è uno “spostato”. Uomo irrealista, egli non capisce che autoritaria è la Rivoluzione, come spiegava il nostro Engels proprio in contrasto con l’Anarchia. Un po’ nevrotico, disadattato, il libertario famigerato poi ci sputtana dentro lo Stato. Fa perder voti e tempo buono. Ẻ un ben noioso attaccabottoni, e in certi casi, che sono limite, maleducato rompicoglioni: per non parlare della sua tendenza, ch’è ricorrente e perniciosa, a farsi prendere in sovversioni che son veraci provocazioni, da Necaev a Prima Linea (figliata dalla Lotta Continua qual minoranza “più di sinistra”, la più violenta già nei picchetti), ma fan versare lagrime e sangue quando non restino un’operetta e si risolvano dunque in azione, che, ‘sì, sputtana la Rivoluzione.

   Ma il libertario, o sovversivo, è molto spesso anche idealista, che non si piega alla realtà se questa neghi la libertà, la quintessenza dell’essere umano. Qui “San Michele” che “aveva un gallo” – un grande apologo dei fratelli Taviani – illustra bene tale sentire. Ci dice che la libertà vale soltanto se sia liberazione attuale; deve iniziare proprio qui e ora, non la si può mai rinviare senza tradire il nostro ideale. Se non si può, meglio è “affogare”: ché l’avvenire si può pensare, e in esso può l’uomo investire, ma solo s’esso sia già in cammino, la vita nuova mentre si fa, come un infante nato da poco, cucciolo d’uomo fragile e nudo, che deve crescere per dare il meglio, ma che sgambetta e ci dà gioia da quando emette il primo strillo. Non vale il “sole dell’avvenire” se questo resti “terra promessa” per l’illusione dei poveretti a cui fan” credito” sempre “domani”, come facevano e fanno i preti quando promettono il paradiso. Questo è reale se si può iniziare, con embrioni di vita sociale in cui si pratichi la libertà totale, sicché ciascuno fa quel che vuole, come alla porta dell’Abbazia di Telème, in Gargantua e Pantagruel, del libertario François Rabelais al cuore del Rinascimento.

   Il libertario in ciò è migliore dei socialisti più democratici, per non parlare dei comunisti (sempre asserviti alla forma-stato, nel nome del proletariato, di cui diventano i caporali). L’anarchico non crede al giorno di san mai più se non sia almeno luce dell’alba, un primo raggio nella fosca notte. Per lui le idee non sono würstel, e il discettare suo interminabile – che in apparenza “non serve a niente”, e pare solo un fiume di chiacchere – lascia un residuo non disprezzabile che, penetrando nelle nostre file, la nostra vita non rende vile. Ma questo “tipo” è stato liquidato per fare spazio alla forma-stato in una misura spropositata, come se null’altro ci fosse o ci sia da fare per chi abbia lottato o ancora lotti per liberare l’uomo alienato dallo sfruttamento e, al tempo stesso, dall’autoritarismo, che sempre durano sotto ogni statalismo. E, questo, Marx l’aveva ben spiegato per tutto il corso del suo pensiero, prima in antitesi col vecchio Hegel e infine col compagno Lassalle, ma inascoltato da tutti quanti. Aveva liquidato il vacuo anarchismo, nel movimento proletario dell’Internazionale, in culo al vacuo astensionismo, e pure al microfrazionismo di vecchi settari irriducibili: perché la politica da praticare doveva essere delle grandi masse chiamate sempre a farsi Stato, coi parlamenti o pure senza, come potere del proletariato, e di nessuno posto suo. Ma rotto il ponte con l’anarchismo, poi arrivò il pan-statalismo, socialdemocratico e comunista, contro cui quello era stato un argine: tendeva al volontariato dentro il sociale, in primis nel mondo sindacale, non asservito allo Stato dannato. Forse la rottura fu razionale, per spingere il socialismo a farsi valere ovunque: anche mirando a farsi nuovo Stato. Ma la sinistra fece un buon affare, o gettò via, con l’acqua sporca del vacuo utopismo, del fastidioso e querulo anarchismo, il puer aeternus della libertà, che potrà darsi solo oltre lo Stato, ed anche ora agendo oltre i suoi confini, tra i lavoratori ed i cittadini?

   Indispensabile è lo Stato minimo, e per me pure un minimo assai forte, in un contesto liberale e democratico, con i poteri divisi e bilanciati, all’ombra pure del premierato o in un assetto semipresidenziale; ma l’orizzonte della libertà – e della mente e della società – non può esaurirsi nella forma-stato, e forse neppure incentrarsi in essa (anzi più è fuori e meglio pare, almeno nell’era della globalizzazione, dell’informatica e dell’automazione). Dovrebbe essere in gran parte fuori dallo Stato, il quale è appena un male necessario, la medicina che ci dee curare, pure se è amara e talora dolorosa, ma a forti dosi ci può ammazzare o può diventare “una dipendenza”. (…) Potrebbe essere un punto di ripresa, che assuma dallo spirito libertario, che è pure spirito liberale, il non far troppo conto dello Stato, di cui non possiamo fare giammai a meno, ma che va assunto a dosi minime perché il potere ha sempre manifestato la vocazione a degenerare. Se è grandemente limitato, ma forte dentro il proprio agire, e coi poteri ben divisi e meglio bilanciati, si può di certo bene gestire: però va assunto solo con misura, qual qualsivoglia medicina, dolce o amara: se no ci può solo fare male, e in troppi casi pure accoppare. Potrebbe essere un nuovo modo di pensare, forse al di sopra della politica, ma pure dell’antipolitica: ambito aperto alla post-politica, in cui la libertà proletaria potrebbe rifiorire, ma solo dentro la società civile: un po’ alla larga dalla “politica politicante”, tutta incentrata dentro lo Stato, che troppo spesso è stata sangue e merda.

   La comprensione di tale istanza potrebbe pure essere un varco minimo in modo che possa far sorgere il nuovo sole dell’avvenire, che ora un’eclisse che pare interminabile ha tolto dalla nostra visuale. Ma anche ‘sta volta “ha da passà’ ‘a nuttata”.

                                (1986/2018)

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