“Arriva la Celere”

Era l’avvertimento che scompigliava piazze e cortei.

E’ lontano il ricordo d’un mattino domenicale nella sonnolenta Alessandria: spettatori e curiosi riuniti sotto i portici e in piazza Marconi, altri più numerosi in piazza Garibaldi, ascoltavano un comizio di Almirante. Poliziotti in borghese erano confusi tra simpatizzanti e non … ma li riconoscevi subito.

Nel silenzio della città deserta, ad eccezione della piccola folla di persone che aumentava di momento in momento, solo la voce dell’oratore aleggiava nitida sugli astanti. Non un moto di dissenso, di scherno o ribellione: forse fu proprio quel silenzio pesante più d’una minaccia reale a far partire l’ordine d’intervenire.

Ero giovane allora ma spinta dalla curiosità d’imparare e sperimentare seguendo l’esempio dei più grandi che frequentavo. Tacevo, leggevo, sperando di riuscire un giorno ad esprimere le mie opinioni e magari di averne di originali.

“Arriva la Celere!” … fu il grido d’allarme a giungere improvviso. Dalle strade laterali arrivarono le camionette a sbarrare ogni via d’uscita e “celermente” come deve fare la Celere si misero a rincorrere e manganellare senza distinzione la gente che scappava inseguendo chi cercava scampo nei portoni e per le scale dei palazzi.

Rimasi paralizzata dov’ero, contro un angolo dei portici per passare inosservata e provando un profondo senso d’ingiustizia e di disgusto per tanta violenza gratuita. Fu in quel momento che decisi di stare dalla parte del dissenso e dell’utopia per contribuire a trasformare la realtà in un mondo migliore. Solo in seguito avrei compreso quell’umanità in apparenza così estranea e irragionevole, non costituita da individui ma una categoria: la Celere.

Erano i prodromi del ’68, quando il mondo pareva diviso in due, sceglievi il campo in cui stare e nel mio campo da quel giorno non ci stavano i poliziotti col manganello in mano. Noi ragazze sentivamo il vento dell’emancipazione scompigliarci i capelli, andavamo alle conferenze con un po’ d’insofferenza per chi amava ascoltarsi più che comunicare ed anche al circolo del cinema dove alla ”Corrazzata Potemkin” seguiva fantozziano dibattito… e cominciavano a farsi strada altri progetti oltre il “buon matrimonio”, cui seguiva “il miglior impiego per una donna è l’insegnamento che ti lascia più tempo per curare la famiglia”.

Poi il ‘68 arrivò davvero e la partecipazione pareva un vero atto sovversivo, pur relegate ad un ruolo di subalternità anche nella rivoluzione.

Dunque, percorsa la strada già segnata, mi ero trovata ad essere insegnante senza aver completato il progetto d’uno stabile matrimonio quando entrai alla Scuola di Polizia come incaricata di scuola popolare: era il primo anno in cui venivano ammesse le donne all’insegnamento in una caserma di maschi. Il 68’ era entrato anche lì, un mondo estraneo verso il quale ero prevenuta se pur attratta dall’opportunità di un’esperienza non comune.

Nel marzo di quell’anno il movimento studentesco afferente la sinistra extraparlamentare si era reso protagonista della “Battaglia di Valle Giulia”, alla riconquista della Facoltà di Architettura dell’Università di Roma: negli scontri, assai violenti, i feriti furono 148.

Fu in quell’occasione che Pasolini scrisse provocatoriamente “Il PCI ai giovani”, dichiarandosi solidale con i poliziotti figli dei poveri, una sollecitazione a liberarsi della loro appartenenza borghese per unirsi nella lotta agli operai e al partito:

E poi guardateli come si vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio e di caserma … senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali), umiliati dalla perdita delle qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).

io simpatizzavo con i poliziotti”.

In quell’autunno “caldo” di scontri e occupazioni, presi servizio nonostante avessi dichiarato liberamente, durante il colloquio, la mia appartenenza politica senza che ciò costituisse ostacolo alla mia assunzione. E fu la prima sorpresa cui aggiungere un’accoglienza quasi protettiva da parte degli ufficiali che si prodigavano in ogni modo per mettere le quattro ragazze che eravamo a nostro agio.

Le mura esterne custodivano una piccola città autosufficiente: uffici, dormitori, mensa, bar, spaccio, strutture sportive ed altre finalizzate alla completa formazione degli allievi. La palazzina che mi accolse il primo giorno di lezione aveva soffitti alti e finestre che davano su un viale alberato. Sentivo solo il rumore dei miei tacchi mentre percorrevo il corridoio dal pavimento lucidissimo. Ero emozionata quando giunsi alla porta dell’aula e per poco non mi cedettero le gambe quando l’ufficiale che mi accompagnava diede l’attenti e i quarantotto allievi in tuta mimetica e scarponi si alzarono battendo i tacchi … novantasei tacchi dal rumor di tuono.

Incombeva la cattedra alla sommità d’una pedana che dominava la platea come un podio.

Con un ultimo scatto d’orgoglio guadagnai la cima. Alzai gli occhi per incontrare i loro: attenzione, curiosità, attesa.

Facce dalla pelle scurita dal sole e mani da lavoro, screpolate, mani grandi da contadini. Facce curiose di chi viene da lontano e ancora devono capire dove sono. Facce di nostalgia consapevoli solo di ciò che hanno lasciato. Facce di chi ancora non sa perché si trovi lì. Pochi gli anni che ci separavano. Potevo vincere o perdere in un attimo.

Per cominciare feci l’appello, sbagliando l’accento di qualche cognome: provenivano da luoghi diversi, soprattutto dal Sud, per prestare servizio militare in polizia. Solo in seguito avrebbero potuto confermare la scelta dopo aver superato le prove attitudinali.

Non era facile portare tutti all’obiettivo finale di elaborare correttamente il pensiero scritto, leggere e comprendere un testo per farne una sintesi: diverse erano le competenze poiché alcuni erano arrivati alle scuole superiori, altri si erano fermati alla quinta elementare.

Che c’è il piove, che c’è la nevica, qui la mangia è assicurata …” aveva risposto qualcuno la prima volta al perché si era arruolato. Tanta umanità dolente non meritava correzione lessicale. Lasciai il testo così com’era poiché nessuna risposta sarebbe stata più eloquente.

Contrariamente a quanto succedeva nelle scuole superiori, l’Educazione Civica era materia fondamentale e fonte di riflessione. Quando dopo qualche mese arrivammo a commentare il diritto di sciopero, divennero naturali i dubbi e il confronto d’idee.

Se le lezioni si svolgevano al mattino accadeva di trovare la classe dimezzata. Erano richiamati in servizio a fronteggiare manifestazioni turbolente e scioperi, ed erano per loro le prime esperienze sul campo. Il giorno dopo li ritrovavo stanchi, stropicciati e disorientati, provando una gran pena. Quelli per me non erano più “la Celere”. Erano i miei ragazzi che facevano i poliziotti..

Perché signora ci insultano, ci sputano addosso, ci provocano … . Siamo svegli dalle quattro, poi il viaggio e ore e ore in piedi in attesa di un ordine. E’ difficile mantenere il controllo e la lucidità. Ci odiano eppure sono come noi. .

L’essere odiati fa odiare”… “non più uomini ma poliziotti”… ancora Pasolini. Ma come spiegare? Come aiutarli a mantenere le loro qualità di uomini?

Non cadere nel tranello. Lucidità e controllo parte fondamentale della professione. Forze dell’ordine, non del disordine. Solo in questo modo la divisa è motivo d’orgoglio.

Nel dicembre ’68 si sollevano i braccianti di Avola: sassaiole, lacrimogeni, manganelli. Scappano colpi di mitra. A terra due lavoratori morti e una trentina di feriti.

Nell’aprile ‘69, a Battipaglia, operai in sciopero contro la chiusura d’una fabbrica. Lo scenario si ripete: 119 arresti ma un insegnante che s’era affacciata alla finestra per curiosità ed un tipografo ci lasciano la vita. Lo sconcerto è grande e si diffonde in tutta Italia con conseguenze prevedibili. Viene istituita una commissione d’inchiesta parlamentare per indagare sulla formazione dei poliziotti visitando anche le scuole di polizia.

Un mattino arrivarono i pullman. Parlamentari, giornalisti, alti ufficiali del Corpo.

Rappresentando le insegnanti sentivo la responsabilità del ruolo in quel particolare momento. Sarei stata intervistata, unica donna in quell’esercito di persone.

Riuscii ad essere credibile anche se non sempre la verità lo è. Difficile sostenere che godevamo di assoluta libertà d’insegnamento e d’un rispetto quasi reverenziale senza essere sospettata di piaggeria, e che gli allievi venivano sottoposti per giorni ad esami attitudinali da una commissione medica proveniente da Roma per fare una selezione e stabilire le mansioni più adatte a ciascuno. La mia classe risultò essere la migliore alla verifica finale tra le scuole d’Italia.

Su questo racconto, a ben pensarci, ha camminato la Storia. Ed anche su di me.

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