Francesco Roat è un saggista, critico letterario e prosatore trentino. Oltre a vari testi narrativi, ha pubblicato i saggi: L’ape di luglio che scotta. Anna Maria Farabbi poeta (LietoColle-2005), Le Elegie di Rilke tra angeli e finitudine (Alpha beta-2009), La pienezza del vuoto. Tracce mistiche negli scritti di Robert Walser (Vox Populi-2012), Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove (Moretti&Vitali-2015), Il cantore folle. Hölderlin e le Poesie della torre (Moretti&Vitali-2016), Religiosità in Nietzsche. Il vangelo di Zarathustra (Mimesis-2017).
Da decenni scrive sulle pagine culturali di vari quotidiani e periodici, tra cui il giornale Città Futura on-line.
Giovedì 24 c.m. alle ore 17, presso la Biblioteca civica di Alessandria, l’autore presenterà il suo ultimo libro, intitolato: Beatitudine. Angelus Silesius e Il pellegrino cherubico (Àncora-2019).
Abbiamo chiesto a Francesco Roat di parlarci della sua nuova pubblicazione. Innanzitutto chi era Silesius?
L’intento del mio saggio è far conoscere un personaggio poco noto ma che fu al contempo grande poeta e mistico. Si tratta d’un maestro spirituale del XVII Secolo, che è stato in grado di creare un’opera eccelsa ‒Il pellegrino cherubico‒ sia dal punto di vista letterario che religioso e da cui emerge una sintesi magistrale di tutta quanta la mistica cristiana tedesca: da Meister Eckhart a Jacob Böhme. E ribadisco poeta giacché la poesia ‒grazie alla sua allusività e alla sua espressività metaforica e immaginifica‒ permette di dire l’indicibile mediante una parola che va oltre ed è altra rispetto a quella della razionalità, della filosofia e della scienza.
In sintesi qual è l’insegnamento di Silesius?
Per lui compito dell’uomo non è migliorarsi o divenire altro rispetto a sé bensì il prender consapevolezza dell’identità tra lo spirito individuale e quello universale: divino. Secondo il Nostro inoltre ‒come per tutti gli autentici mistici d’ogni epoca e latitudine‒ nulla va desiderato e di niente si deve andare in cerca; eppure proprio a causa di ciò molto si realizza. Tuttavia, paradossalmente, qualunque cosa si ottenga o non si ottenga, va (o dovrebbe andare) tutto bene egualmente. Non a caso egli auspica il distacco (o non-attaccamento) quale via previlegiata per giungere alla serenità dell’anima prendendo le distanze da ogni tipo di ambizione/volizione, specie quella relativa a qualsivoglia obiettivo spirituale.
Si tratta dunque di superare l’egocentrismo.
Sì, siamo alla totale rinuncia, che diviene pienezza accogliente e beatitudine grazie alla quale il nostro pellegrino può permettersi di pronunciare una sentenza provocatoria: “Io dico che nulla muore”. Così l’equanimità o serena indifferenza costituisce la qualità che è propria del vero mistico, capace non già di visioni estatiche ma di “dimorare nel presente” senza preoccuparsi del domani e di abitare senza angoscia sia la felicità che l’infelicità. Ancora, di contro all’idea tradizionale di trascendenza, che implica l’orientamento spirituale rivolto a un Dio ultraterreno, ecco il suo invito a cogliere il sacro nell’immanenza: “Fermati, dove corri? Il cielo è dentro di te: / Se cerchi altrove Dio, tu perdi lui sempre più”.
Un religioso cristiano ma eterodosso, diciamo…
Quello di Silesius nei confronti del lettore è un invito alla quiete e al silenzio: cifra universale che caratterizza non solo la modalità meditativa dei mistici d’Occidente ma pure di quelli d’Oriente. Silenzio in quanto umiltà, quindi. Silenzio quale fiducioso abbandono d’ogni pretesa e/o richiesta a Dio (o alla vita, per chi a Lui non crede). Silenzio infine quale accoglienza non discriminante, quale accettazione della realtà così com’è ed apertura al suo mistero; in modo da poter vivere ogni circostanza ‒anche quella apparentemente più negativa‒ come occasione per una salutare metanoia, per una profonda trasformazione e crescita spirituale.
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