Il “bla bla bla” continua. La COP 26 di Glasgow a un bivio…

Che ne dite se cominciassimo con “La riduzione delle emissioni di gas serra delle città europee è incoraggiante” ? . Può sembrare una affermazione azzardata ma…come cercheremo di dimostrare i …dati sono indicativi. Almeno quelli “di tendenza”. Comunque, per non apparire “mainstream”  e “proni alle esigenze di resilienza lenta delle multinazionali” (1), riportiamo anche quelle che sono le sensibilità, a fondo articolo, di chi – giustamente – si lamenta di una evoluzione non equilibrata. Ma…andiamo per ordine.

Prima di tutto occorre ricordare che in un contesto di massiccia adozione di obiettivi di carbon neutrality, il monitoraggio dell’impatto delle politiche climatiche locali rimane scarso e poco consolidato, come lo è – di fatto – anche a livello nazionale. Le tendenze al miglioramento ci sono, ma vanno implementate. Sotto questo profilo da segnalare il fatto che l’azione delle città europee è particolarmente ben documentata. Tutti coloro i quali vissero nelle pianure europee dagli anni Settanta dello scorso secolo fino agli anni Novanta avanzati sanno bene che la qualità dell’aria – oggi – nonostante tutto è nettamente migliore di quella di allora. Meno residui di piombo dispersi, meno zolfo e derivati, meno particolati più o meno fini, meno fibre di amianto (e non solo) disperse nell’aria. I numeri sono incredibili, se non fossero documentati da più studi: le riduzioni in parti per milione sono dell’ordine delle cento volte e, talvolta, anche di mille…Nel senso che i valori oggi pari a 0.9/1.0 erano allora pari a 900/1000. Non ci si rendeva conto che l’assorbimento dell’atmosfera non era infinito e che i conti con l’ambiente – prima o poi – avremmo dovuto farli. E così è stato.

Tornando comunque ai dati preliminare del “panel” informativo dell’ANCI al prossimo COP 26 di Glasgow,  è utile ricordare che dopo 10 anni di Patto dei Sindaci per il Clima e l’Energia in Europa, (2) il consolidamento dei dati di 1.800 città e 90 milioni di abitanti mostra una riduzione del 25% delle loro emissioni di gas serra (GHG) tra il 2005 e il 2017, superando del -20% l’obiettivo 2020 degli Stati europei (CCR, 2020). Queste città, che hanno rappresentato il 15% delle emissioni dell’UE-28 nel 2017, sono anche sulla buona strada per superare il loro obiettivo del -30% entro il 2020.

Ad esempio, Torino  ha ridotto le sue emissioni del 44% tra il 1990 e il 2017, a causa della sua terziarizzazione ma anche delle sue politiche di mobilità e decarbonizzazione, anche grazie alla  rete di teleriscaldamento. Più in generale, i piccoli centri utilizzano maggiormente le leve interne (appalti pubblici, domanda energetica), mentre i comuni più popolosi utilizzano maggiormente la normativa e gli strumenti finanziari. Tutti utilizzano politiche di sensibilizzazione, dimostrando la partecipazione attiva dei cittadini. Molte città in tutto il mondo hanno recentemente calcolato i propri inventari delle emissioni di gas serra o perfezionato metodi e dati.  Così, dal 2015 quasi 150 città hanno comunicato al CDP almeno 4 volte i loro dati sulle emissioni ma, nonostante una crescente appropriazione di strumenti di carbon accounting, questi dati non consentono di trarre molte conclusioni: Porto (in Portogallo), ad esempio, ha ridotto le sue emissioni del 30% tra il 2004 e il 2017, Chicago del 7% tra il 2010 e il 2015, e Wellington (NZ) del 26% tra il 2013 e il 2017.

Infine, 86 regioni, province e altri governi subnazionali, uniti nell’iniziativa Under2MoU (3), mostrano una riduzione media delle proprie emissioni territoriali del 7% tra l’anno di riferimento, che varia da una regione all’altra, e il loro ultimo inventario. Rappresentano 600 milioni di abitanti e il 10% delle emissioni globali. Alcuni sono sulla buona strada per raggiungere i loro obiettivi per il 2020, come l’Andalusia che mirava a una riduzione del 26%, la Scozia del 75% e il South Australia del 50%.

Continua la mobilitazione dei territori e la strutturazione delle azioni per il clima.

Le iniziative internazionali, pur testimoniando un particolare dinamismo in America Latina, Europa e Nord Africa, non ci portano però valori significativi rispetto  alle azioni nelle città delle regioni asiatiche. La relativa stabilità del numero di città impegnate nel Patto Mondiale dei Sindaci (~ 10.500 Comuni nel 2021) conferma un rapido aumento delle adesioni e dei risultati delle Convenzioni Regionali dei Sindaci, avviate principalmente dall’Unione Europea e in coordinamento con la Convenzione Mondiale .e le principali reti di comunità. Le città firmatarie rappresentano ormai quasi il 14% della popolazione mondiale, contro l’11% del 2019. La dinamica è particolarmente forte in America Latina e Caraibi, dove dal 2019 hanno aderito all’iniziativa più di 100 città per un totale di oltre 519 firmatarie e il 31% della popolazione. Numeri quasi incredibili per noi italiani, abituati ad una visione miope e legata alla penisola e a poco altro ma – evidentemente – il mondo è cambiato (e molto) e noi non ce ne siamo accorti. In Asia, invece (secondo quanto riportato nei documenti preparatori al “panel” specifico) le città firmatarie rappresentano solo l’8% della popolazione del continente. In oriente l’attuazione dei piani di mitigazione e adattamento sta procedendo più lentamente, ma in alcune regioni l’iniziativa del Patto dei sindaci  indirizza in modo significativo l’azione per il clima. La corea del Sud, la Thailandia, il Giappone, la repubblica di Mongolia, alcune repubbliche asiatiche ex sovietiche, stanno fornendo conferme in tal senso. Così come   nel Maghreb e nel Mashrek1 dove si stanno preparando in più di 100 città piani di mitigazione e adattamento (che vanno perfettamente ad integrarsi con il sistema pianificatorio e programmatico precedente).

I paesi del nord Africa occidentale  stanno inoltre allestendo una banca dati comune per i firmatari della convenzione, dimostrando una rapida strutturazione del monitoraggio e della valutazione delle loro azioni. Anche questo sintomo di professionalità e attenzione ai risultati effettivi delle proposte.

Anche in America Latina, l’adozione di piani d’azione sta mostrando chiari progressi, con oltre 50 piani di mitigazione e adattamento pubblicati dal 2019. Nel sud-est asiatico e nell’Africa sub-sahariana, invice, poche città al di là dei progetti pilota finanziati, sono stati in grado di realizzare un piano di mitigazione/adattamento. E questo dato viene registrato proprio nell’ottobre 2020 con più di 900 città e regioni del mondo coinvolte in una qualche forma di impegno per la neutralità del carbonio (NewClimate Institute, 2020). Monitorare attentamente l’evoluzione degli strumenti di misurazione sarà importante per dare credibilità a questi impegni, come ognuno sa, ma comporta strumetazioni, protocolli e organizzazioni molto precise.

Interessante sapere – sempre tramite i dati preparatori al  COP 26 – che pure durante il periodo Covid-19, i territori restarono luoghi di innovazione e sperimentazione per le politiche climatiche. A livello cittadino, la densificazione dei servizi è ormai vista come il rimedio alle crisi sanitarie e climatiche e questo anche grazie ai provvedimenti presi dai vari Stati nelle fasi iniziali e centrali della pandemia. Dalla pianificazione alla regolamentazione, passando per gli investimenti diretti e gli appalti pubblici, gli strumenti a disposizione delle città e delle regioni per gestire la loro transizione sono sempre più vari e mobilitano l’intera gamma delle loro competenze. E mai come come nei primi mesi del 2020 questi processi strettamente integrati, furono potenziati.

Di fatto, la gestione della pandemia ha accelerato la riflessione sulla densificazione dei servizi urbani e sulla loro governance locale. Il concetto di “città in un quarto d’ora”, dove tutti i servizi essenziali sono alla portata di tutti in bicicletta o a piedi, è stato al centro della campagna municipale di Parigi, emulato anche oltre Atlantico (Portland, Minneapolis) e in Russia (Perm , Ekaterinenburg) , fino a declinarsi in “città del minuto” nelle metropoli svedesi di Stoccolma e Göteborg. Se i timori suscitati dalla pandemia sulla sicurezza alimentare sono stati determinati in Europa dalla resilienza del sistema agroindustriale, l’impegno di 31 città nella Dichiarazione di Glasgow su cibo e clima ricorda che la sfida climatica richiede la riconnessione dei nostri centri urbani con i terreni agricoli, come sta cercando di fare Rufisque (4) nella regione di Dakar con il suo Local Food Plan, o il progetto Edinburgh Fish City per incoraggiare i pescherecci scozzesi a vendere frutti di mare prodotti localmente da pratiche più durevoli. Uno dei simboli della reattività delle città alla pandemia è stato l’ampio dispiegamento (e soprattutto la seria considerazione in tutto il mondo) delle piste ciclabili che, come misura economica della resilienza sociale, si stanno rivelando un vero e proprio strumento per ridurre le emissioni del trasporto urbano .a lungo termine, in un contesto in cui l’uso e le finanze del trasporto pubblico hanno sofferto molto. Nel 2020, 617 città di tutti i continenti si erano impegnate a fornire energia rinnovabile al 100%, principalmente in Europa e negli Stati Uniti e tra 100.000 e 500.000 abitanti (REN21, 2021) (5). Alla fine del 2019, 58 città e regioni, di cui 44 in Europa, hanno dichiarato di aver ottenuto il 100% di energia rinnovabile (IRENA, 2020).

Melbourne è uno di questi ed è illustrato dal suo utilizzo di contratti di acquisto di energia elettrica, che si affermano come strumenti strategici per garantire l’approvvigionamento di energia rinnovabile alle città garantendo al contempo finanziamenti stabili per i progetti locali di produzione di energia elettrica.

Nel documento citato viene fatto anche un riferimento al bilancio del carbonio di Manchester, che intende proporre politiche di riduzione delle emissioni fino al 2050, o il bilancio climatico locale di Oslo, che vota ogni anno su obiettivi di mitigazione settoriali quantificati come parte della sua procedura di bilancio. Tutti  “approcci innovativi che testimoniano la professionalizzazione del clima pubblico territoriale”  (COP 26 3rd panel” – p. 23).

Vi è poi un altro aspetto che , giustamente, viene evidenziato: tra i contributi nazionali all’Accordo di Parigi rinnovato dai paesi nel 2020, pochi menzionano i “meccanismi di governance” che vedono coinvolti governi centrali e  governi locali, tranne che in America Latina. Il loro approccio “settoriale” per affrontare la riduzione delle emissioni nei territori maschera le potenzialità legate alla pianificazione territoriale e alla resilienza locale. Le analisi del primo ciclo di contributi nazionali degli Stati (NDC) all’Accordo di Parigi nel 2015 mostrano che pochi paesi hanno coinvolto sufficientemente attori locali e subnazionali nella definizione delle loro strategie climatiche. Solo il 10% dei paesi afferma di aver integrato i propri obiettivi climatici nazionali nelle politiche climatiche locali e regionali e nei propri budget (fonte UNDP, 2019).

Evidenziano inoltre che le varie Nazioni non riconoscono le città come sistemi nelle loro strategie, ma adottano approcci settoriali che non tengono conto del potenziale di mitigazione associato alla concentrazione spaziale di persone, infrastrutture e attività economiche. In sostanza si propongono questionari e si fanno indagini per onore di firma non per una vera intenzione di cambiamento.

L’osservazione del secondo ciclo di NDC aggiornato da circa 40 paesi e dall’UE-27 nel 2020 porta a conclusioni simili: una minoranza di essi cita i governi locali, spesso come esempio e non in connessione con la governance della strategia nazionale, guardandosi bene dal farne un esempio concreto da seguire e non un mero dato statistico . È il caso dei grandi paesi emettitori come Australia, Brasile, Regno Unito o Russia. Tutti legati a sistemi tradizionali di produzione industriale, reperimento dell’energia e conseguenti produzioni non a basso impatto.

Diversa la situazione, sempre secondo il documento citato, di Ruanda, Vietnam e Corea del Sud che – più volte – fanno riferimento a “meccanismi di consultazione dei governi locali”, ma è in America Latina che è più evidente la piena integrazione delle loro potenzialità e dei loro bisogni (Perù, Cile, Argentina, Cuba, Colombia, Messico), per alcuni presenti già nei loro Piani di Investimento generali. Per  esempio lo Stato peruviano ha istituito un “Gruppo di lavoro multisettoriale” per integrare i contributi dei diversi ministeri ma anche di attori non statali nel nuovo “Contributo al Perù nel 2020″, approvato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, tredici ministeri, ma anche dall’Assemblea Nazionale dei Governi Regionali e dall’Associazione dei Comuni del Perù (AMPE). Sebbene ciò non abbia ancora un impatto diretto sui CND, anche le Convenzioni dei Sindaci Regionali hanno dato vita ad alcune esperienze interessanti. Per garantire il finanziamento e l’attuazione dei piani climatici formulati dalle città del Maghreb e del Mashreq, i gruppi di coordinamento nazionali formano spazi di consultazione in ciascun paese che riuniscono ministri, associazioni e tutti gli altri attori chiave. Da questi gruppi sono emerse strategie di azione per il clima che guidano l’azione delle città in connessione con le strategie di mitigazione e adattamento di ciascun paese.

Nei sistemi di governance del clima esaminati (Germania, Canada, Francia, Brasile) poche città sono soggette a obblighi climatici. La loro azione si basa quindi sul sostegno disparato degli Stati. La limitata armonizzazione dei metodi di monitoraggio spiega in parte la scarsa integrazione del potenziale delle città nelle strategie nazionali.  Queste analisi non cercano di confrontare l’efficacia degli accordi o delle strategie istituzionali di un paese, ma piuttosto di fornire una comprensione di ciò che guida l’azione per il clima del governo locale in diversi contesti.

Una prima conclusione riguarda i vincoli e gli incentivi

In Germania, Canada e Brasile, lo stato federale legifera poco o niente (“less or nothing” nell’originale) sugli obblighi e sui poteri climatici dei Comuni, la cui azione dipende molto più dal livello di ambizione e dalle politiche varie dei governi intermedi. Con la conseguente richiesta di  progetti specifici o fondi disponibili. Pochi di loro sono quindi tenuti ad adottare e monitorare l’attuazione di un piano per il clima, data la mancanza di un protocollo preciso di riequilibrio. Ad esempio, le città canadesi hanno realizzato la maggior parte dei loro piani climatici come parte di un’iniziativa volontaria. Lo Stato dell’Ontario impone piani d’azione per la sola regione di Toronto, mentre il Quebec ne finanzia la formulazione in più di 200 città senza che ciò sia un obbligo. Solo la Nuova Scozia lo impone ai suoi Comuni. In Germania nessun Land ha reso obbligatoria l’adozione di un piano climatico. Tuttavia, la Renania settentrionale-Vestfalia fornisce un forte sostegno, portando molti comuni ad adottare obiettivi vincolanti e un piano d’azione in rete. In questo modo le “amministrazioni locali ” (e intermedie) beneficiano di linee guida, strumenti gratuiti e accesso ai dati regionali.

Una seconda conclusione riguarda il modo di organizzare l’articolazione delle diverse politiche climatiche ed in particolare il loro monitoraggio e valutazione. I governi locali sono più facilmente coinvolti nelle fasi di formulazione e come vettori delle politiche nazionali e settoriali. L’unico problema – serissimo – sono i fondi per potr attuare i programmi di resilienza e riequilibrio. I cordoni della borsa sono, di solito, sempre in mano ai vari organi centrali, con conseguenti complicazioni amministrative e tecniche.

In Brasile, il governo federale ha ridimensionato del 50 per cento il budget per combattere il cambiamento climatico e ogni città e Stato sta cercando di tamponare al meglio tale ritirata. Tuttavia, l’assenza di norme federali non consente una chiara ed esplicita articolazione tra gli enti federati, e né la politica nazionale, né alcuna altra politica stabilisce parametri chiari in tutti i settori per raggiungere gli obiettivi, né il modo in cui gli obiettivi nazionali verranno essere distribuito a livello statale e locale. In Francia, invece, ormai quasi tutti i 760 soggetti soggetti all’obbligo di adottare un piano per il clima (già istituiti nel 2016 su base dipartimentale)  sono impegnati nella loro attuazione.  Infatti la quasi totalità dei 760 soggetti  francesi tenuti all’obbligo di adottare un piano per il clima è ormai impegnata nella sua attuazione. Per articolare questi piani climatici, piani regionali, nazionali e settoriali, la legge predefinisce diversi “niveaux de compliance”. Tuttavia, il monitoraggio degli indicatori comuni a città e regioni non è richiesto e i diversi calendari di revisione ne rendono difficile il coordinamento. Gli “osservatori regionali clima-energia” (altra novità post COP 21) compensano in parte questa mancanza di armonizzazione a livello regionale, potendo persino essere uno spazio di consultazione e di proposta per i Comuni, come dimostra l’esempio di “OREO” in Occitania.

Agenda 2030

Dopo alcuni anni nella fase di appropriazione, i territori stanno cogliendo gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) per attutire gli shock socioeconomici delle politiche climatiche. Secondo l’ONU, la pandemia ha invertito i progressi compiuti nella riduzione della povertà, nell’assistenza sanitaria, nell’istruzione e nell’accesso all’energia. In sostanza un po’ tutti gli Stati hanno “tirato i remi in barca” rispetto a tutte quelle aree tematiche non ritenuto di primissimo interesse. Tuttavia, diversi segnali testimoniano una maggiore localizzazione degli SDGs grazie al ruolo chiave delle comunità nell’assicurare l’accesso ai servizi essenziali durante le misure di contenimento e come interlocutore privilegiato dei cittadini e degli attori economici territoriali. In Europa, delle 34 reti di enti locali di 28 paesi europei intervistati, l’82% è a conoscenza degli SDG e vi fa riferimento regolarmente nelle proprie attività, mentre era solo il 31% l’anno precedente (fonte CCRE, PLATFORMA, 2020).

Gli SDGs consentono di abbattere il gap tra servizi e competenze, attraverso la formulazione di nuovi piani strategici basati sugli SDGs, l’adeguamento dei piani esistenti o la valutazione dei progetti realizzati attraverso il prisma dell’Agenda 2030. D’altro canto, le amministrazioni locali sono ormai associate a più della metà (55%) delle Voluntary National Review presentate nel 2020 dagli Stati per testimoniare i progressi compiuti nell’attuazione dell’Agenda 2030 (contro il 40% nel 2019), segno di una maggiore integrazione verticale dei livelli di governance anche in questo ambito. Per il clima, questa integrazione degli SDGs  “il più vicino possibile ai territori” consente di rafforzare l’allineamento delle politiche di transizione low carbon con le aspettative della popolazione in termini di giustizia sociale.

A Bristol, ad esempio, il piano climatico è integrato nella strategia di sviluppo socio-economico della città, mentre Strasburgo analizza il contributo delle sue politiche climatiche a ciascuno dei 17 SDGs. Bogotá, invece (sempre secondo il panel 3rd) una delle città pioniere nello schieramento di “coronapistes” (piste ciclabili preferenziali a corona), è impegnata a ridurre le disuguaglianze di genere nel ciclismo urbano.

Una resilienza comunque sempre più presente…

Una recente analisi delle politiche climatiche adottate da 429 città nell’ambito del Patto dei sindaci per il clima e l’energia in Europa mostra che ad oggi il 70% di esse ha presentato misure di adattamento. Mentre quasi tutte queste città producono analisi dei rischi climatici che affrontano, solo la metà formula obiettivi di adattamento e meno del 70% di esse dedica finanziamenti all’adattamento.

Procede, tuttavia,  l’integrazione delle competenze locali nei piani nazionali di adattamento, anche se l’accesso ai finanziamenti e alle tecnologie ancora poco mature e costose restano i principali ostacoli individuati dalle città. Consentendo di superare i confini amministrativi locali, le regioni si stanno rivelando la scala preferita per pianificare l’adattamento ai cambiamenti climatici su scala ecosistemica. Stranamente questo avviene in aree regionai europee ed extraeuropee senza troppi attriti, mentre in Italia non si riesce ad andare oltre un regionalismo poco incline ad una visione di insieme.

Come il RECO, creato nel 2019 in Occitania, o il Climate Risk Institute in Ontario (Canada) , il modello delle agenzie regionali di adattamento si sta diffondendo ovunque per rafforzare le connessioni tra scienza e politica. Tra le 28 regioni aderenti all’iniziativa RegionsAdapt che hanno riferito sulle proprie pratiche di adattamento, il 90% di esse dichiara di aver subito un impatto socio-economico dovuto al cambiamento climatico, legato alla salute pubblica o all’aumento dei costi economici dei disastri. L’80% , però, ha già sviluppato o sta sviluppando valutazioni della vulnerabilità al rischio e il 70% ha già messo in atto un piano di risanamento / adattamento. Quest’ultimo dato, di una grandissima importanza, sarà – presumibilmente – il leit-motiv delle giornate di Glasgow…. Il “si puo'”,  “è possibile” che tutti vorremmo sentirci ripetere e in cui credere. Secondo il “panel 3rd” addirittura sette regioni brasiliane, cinque province canadesi, cinque regioni dell’Africa occidentale e meridionale, due stati australiani e la California sono tra queste regioni “modello”, che rappresentano un totale di 233 milioni di abitanti in tutto il mondo.

Dati su cui riflettere e che fanno, comunque, presagire un dibattito, almeno in alcuni settori specifici, di qualità e di concretezza in quel di Glasgow… Staremo a vedere.   Per concludere l’appello accorato di chi rappresenterà le “comunità indigene” a Glasgow.

Conferenza sul clima COP26 a Glasgow
I popoli indigeni chiedono giustizia climatica

Bolzano, Göttingen, 29 ottobre 2021

Il punto di vista indigeno devono essere preso molto più in considerazione alla COP 26 a Glasgow, in Scozia. Questo è ciò che chiede l’Associazione per i Popoli Minacciati (APM) in vista della conferenza sul clima che inizia domenica prossima a Glascow. I popoli indigeni stanno già combattendo in prima linea contro il cambiamento climatico,
per esempio resistendo al disboscamento illegale e all’agricoltura “taglia-e-brucia”. Allo stesso tempo, sono direttamente interessati dalle conseguenze del cambiamento climatico a causa della loro connessione esistenziale con la natura e l’ambiente.

Da una prospettiva indigena, le precedenti conferenze sul clima sono state estremamente deludenti. Questo perché Stati come il Brasile o l’India, dove vivono molte popolazioni indigene, si concentrano più sulla loro crescita economica che sulla protezione del clima o delle parti più vulnerabili della loro popolazione. A causa della pandemia, molti meno indigeni possono essere presenti a Glasgow rispetto alle
conferenze precedenti. I paesi ricchi in particolare hanno quindi il dovere di cercare un dialogo diretto e di imparare dall’esperienza indigena.

In Brasile in particolare, il presidente Jair Bolsonaro sta portando avanti senza sosta la distruzione delle foreste e della natura. Attraverso le sue politiche e la sua retorica, i criminali si sentono incoraggiati a invadere, sfruttare e bruciare i territori indigeni per
l’agricoltura intensiva. Nel territorio degli Ashaninka, una compagnia di
disboscamento sta attualmente costruendo una strada illegale attraverso la foresta pluviale e il relativo territorio indigeno – sia dal lato peruviano che da quello brasiliano. I diritti territoriali dei popoli indigeni sono la base per la protezione del loro ambiente. Gli Ashaninka hanno preso l’iniziativa per la foresta pluviale nello stato brasiliano di Acre anni fa e hanno ripiantato più di 2.000 giovani alberi sul loro territorio che erano stati distrutti dal disboscamento illegale. Tali iniziative possono essere un esempio internazionale. Oltre ai negoziati intergovernativi, sarebbe quindi un segnale forte se i politici europei avessero colloqui diretti con i popoli indigeni su questo argomento.

È tempo di agire – e i governi del mondo non devono solo decidere tra di loro cosa succederà al clima del mondo. La società civile, compresi i popoli indigeni, deve avere il diritto di discutere e decidere.
Sfortunatamente, la società civile per lo più non viene ascoltata. I  popoli indigeni, che danno un grande contributo alla protezione dell’ambiente, sono lasciati fuori dalle decisioni. Questi veri ambientalisti devono essere finalmente ascoltati e presi in seria
considerazione. Perché i governi che ricevono i finanziamenti , spesso contribuiscono più alla distruzione dell’ambiente che alla sua protezione (5).

Siccome conosciamo bene la questione, per averla verificata sulla nostra pelle qui in Italia, seguiremo con ancora più interesse l’evolversi della situazione, ben comprendendo che molti sono i “portatori di interessi”, a volte contrapposti e che la “politica” da tempo evita di affrontare le questioni più spinose. Collegando i due doumenti commentati (il “panel 3rd” di introduzione al COP26 e la dura presa di posizione dei popoli indigeni) possiamo solo augurarci che ci siano le  occasioni per “parlarsi” e scambiarsi i rispettivi punti di vista. Molte delle problematiche nascono proprio dalla mancanza di confronto.

L’immagine in hp  è  dell’artista di origine turca Abydin Dino

.1. “La responsabilità sociale delle Multinazionali” ILO ediz. – https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—ed_dialogue/—actrav/documents/publication/wcms_203976.pdf

.2. Patto dei Sindaci per il Clima e l’Energia in Europa: si tratta di  un’iniziativa volontaria lanciata dalla Commissione Europea nel 2008.

.3. “Under 2 Mob of Understanding” :  https://um.baden-wuerttemberg.de/en/topics/international-climate-protection/under2-coalition/

.4. Rufisque è una città del Senegal occidentale situata nella regione di Dakar, è capoluogo del dipartimento omonimo. Situata sulla penisola di Capo Verde, ha una popolazione di 179.797. In atto più progetti tendenti al recupero dei sistemi di coltivazione, trattamento e commercio dei prodotti tenendo conto di emergenze climatiche locali e facendo riferimento continuo alle tecniche di coltivazione antiche.

.5. “Bollettino internazionale delle energie rinnovabili” – https://www.ren21.net/reports/global-status-report/?gclid=Cj0KCQjwt-6LBhDlARIsAIPRQcJaCqBeR-mXQgkKvx9iRS4TdmwIT2FuR9q4FzDHaVACjLwPOeRA4QkaAk_5EALw_wcB

.6. Eliane Fernandes parteciperà alla conferenza sul clima a nome dell’APM e sarà sul posto dal 3 al 7 novembre. Il 6 novembre, l’APM organizzera’ un evento nel padiglione tedesco insieme all’Alleanza Clima, la Fondazione per il clima, l’Alleanza per il clima (Klimabündnis) e Kindernothilfe.
Alle 15.00 inizierà il panel “Giustizia climatica – La prospettiva globale”. Voci da Madagascar, Perù, Brasile, Pakistan e Sudafrica presenteranno l’attivismo climatico globale. Il panel metterà in evidenza gli attuali impatti del cambiamento climatico e le strategie di successo contro di esso, e presenterà le visioni del futuro dei giovani
attivisti. I due rappresentanti Ashaninka Francisco Piyãko (Brasile) e Berlin Diques Rios (Perù) parleranno a nome dell’APM. Uno streaming live dell’evento sarà reso disponibile dal Ministero Federale dell’Ambiente tedesco su www.german-climatepavillion.de.

Per approfondire …consultare anche in gfbv.itwww.gfbv.it/2c-stampa/2021/211011it.html |
www.gfbv.it/2c-stampa/2021/210910it.html |
www.gfbv.it/2c-stampa/2021/210903it.html |
www.gfbv.it/2c-stampa/2021/210831it.html |
www.gfbv.it/2c-stampa/2021/210825it.html |
www.gfbv.it/2c-stampa/2021/210526it.html |
www.gfbv.it/2c-stampa/2021/210205it.html |
www.gfbv.it/2c-stampa/2020/201222it.html |
www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/brasil-tras.html |
www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/water2017-it.html |
www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/sud2010-it.html |
www.gfbv.it/3dossier/diritto/ilo169-it.html
in www: www.ukcop26.org | www.climatealliance.org |
https://it.wikipedia.org/wiki/Popoli_indigeni | www.ilo.org

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