La guerra è in bilico tra due scenari. Un allargamento che porti – su entrambi i fronti – a bombardamenti di civili, con conseguenze che spingerebbero i due paesi ad una accelerazione del conflitto, e al possibile coinvolgimento diretto dei loro principali alleati – Usa e Europa per Israele, la Russia per l’Iran. Oppure, un raffreddamento delle ostilità, con una iniziativa iraniana che riapra il tavolo delle trattative. Fra i fattori in gioco per propendere nell’una o nell’altra direzione, quello probabilmente decisivo è la morsa del Mossad che si sta chiudendo sulla leadership iraniana. Mettendone duramente alla prova la capacità di coordinamento. E di sopravvivenza.
Tra i tanti messaggi minacciosi che le due parti si stanno scambiando, l’unico davvero ultimativo è quello di decapitare – dopo i vertici militari – anche quelli politici. A cominciare dall’autorità suprema, Ali Khamenei. Nessuno oggi è in grado di sapere – tranne, forse, Netanyahu – se il sistema di sicurezza iraniano, già bucato per i suoi generali e scienziati di maggior valore, è ancora in grado di proteggere la propria classe dirigente. E fino a quale livello della catena di comando. Si può facilmente immaginare che questo sia l’interrogativo prioritario che ci si sta ponendo in molte cancellerie in giro per il mondo. Dopo quello che abbiamo visto con l’uccisione e l’evirazione di oltre duemila militanti Hezbollah, è probabile che gli attentati mortali già innescati dai servizi segreti israeliani possano essere molti altri. Quanti? E fino a chi?
Questo tipo di attacco al nemico non è certo nuovo nella storia, basta pensare al precedente più tragico, l’operazione Valchiria, il fallito tentativo di eliminare Hitler del 20 luglio del 1944. Ciò che però è assolutamente inedito è la dimensione tecnologica di cui oggi questi attacchi si servono, e che pone i servizi israeliani in una condizione di supremazia geopolitica che pochi altri stati sono – forse – in grado di contendergli. In pratica, se lo volesse, Netanyahu sarebbe in grado di spingersi molto più avanti, cercando la prova di forza per il rovesciamento del regime. Non con una lunga, sanguinosissima e certo molto contestata distruzione di città e vite civili. Ma con un blitz mirato a un numero significativo – e decisivo – di capi. Se pure gli americani fossero intenzionati a fermarlo, lo scoprirebbero a cose fatte.
È sperabile che questo scenario estremo resti nel limbo delle opzioni non utilizzate. Anche perché, come ha spiegato lucidamente Paolo Mieli sul Corriere, l’illusione di rivoluzioni dall’esterno ha costellato gli ultimi trent’anni di micidiali e fallimentari disastri. Ma è bene non farsi troppe illusioni. Dopo la sperimentazione di «basso rango» con gli Hezbollah, la caccia al Capo è entrata ufficialmente nel novero delle armi strategiche più pericolose e terminali. Già da almeno un decennio i vertici degli apparati di sicurezza nazionali si sono trasformati all’insegna della minaccia digitale. Strutturandosi in sottosettori, ciascuno preposto a vigilare sui flussi informatici più critici: dalle criptovalute alle supply chain, dall’hackeraggio di società e amministrazioni pubbliche alle innovazioni tecnologiche di ultimissima generazione, a partire dalla militarizzazione dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale.
Per il lettore che voglia provare ad informarsi su questo vero e proprio cyberstato parallelo e invisibile, c’è un bel libro di Roberto Baldoni – già responsabile dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza Cibernetica – appena uscito nella traduzione italiana per il Mulino, col titolo Sovranità digitale. Il sottotitolo della edizione inglese – Guida alla sopravvivenza – indicava ancora più crudamente la posta in gioco. Per gli Stati. Ma, ancor prima e più direttamente, per i loro capi.
Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 16 giugno 2025).
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