Capitani e condottieri

La volta scorsa avevo presentato molti dei “monumenti” alessandrini, nel bene e nel male. Tra questi, la chiesa di San Giacomo della Vittoria, che si chiama appunto così per ricordare la vittoria delle truppe di Jacopo del Verme sul francese D’Armagnac. Jacopo del Verme era un condottiero, uno di quegli uomini che facevano i capitani di ventura al soldo di chi pagava meglio.

Sarà stato il contesto, sarà stato l’argomento, da quella pubblicazione si sono succedute le richieste di amici o di semplici lettori, di saperne di più di questi avventurieri. Ma io non ne so molto, quindi ho chiesto aiuto a chi conosce quel mondo (antico?) fatto di mercenari, bottini e agguati. Giorgio Marengo potrà soddisfare le domande che avete posto, meglio di me.

G. P.

La figura del capitano di ventura è tra quelle che ha riscosso maggiore successo nell’immaginario collettivo, evocando l’immagine dell’uomo a cavallo, vestito d’acciaio, capace di risolvere la battaglia con coraggio e genio tattico.

La storia reale, come spesso accade, disegna un quadro differente per comprendere il quale non si può che partire dal concetto stesso di “condotta”. Si tratta di un tipo di contratto il cui impiego non era limitato al campo militare ma che, all’epoca, veniva utilizzato anche per affidare lo sfruttamento di una concessione mineraria o per gestire l’appalto di esazione delle imposte.

Un datore di lavoro (locator) prendeva in affitto un imprenditore (conductor da cui condottiero) che si impegnava a svolgere un certo lavoro mettendo a disposizione personale specializzato, attrezzature ed un’idonea struttura organizzativa; il tutto in cambio di un compenso e per un periodo di tempo predeterminato.

Il Condottiero, dunque, non era semplicemente il capo di una banda di armati ma il titolare di un’impresa militare che poteva essere assunto:

  • a soldo disteso” quando insieme ai suoi uomini era inserito in un esercito più grande con precisi rapporti gerarchici,

  • a mezzo soldo” quando gli era assegnata una zona geografica ed un incarico di massima lasciandogli l’autonomia di guerreggiare “… a suo bell’agio le terre, sovra le quali era mandato”,

  • in aspetto” quando, cessate le ostilità, riceveva comunque del denaro per restare a disposizione del signore di turno il quale si assicurava in tal modo una protezione senza correre il rischio, in un prossimo futuro, di ritrovarsi a combattere proprio contro quel condottiero che aveva precedentemente ingaggiato per la sua bravura.

Il contratto di condotta dettagliava con precisione tutti i contenuti della prestazione: si diceva quanti uomini dovevano esser messi a disposizione, con quali armi ed armature, con quanti cavalli e carriaggi e con quali ufficiali. Si stabiliva come sarebbero stati ripartiti il bottino ed i riscatti per i prigionieri ed a quali condizioni il condottiero ed i suoi uomini, laddove catturati, avrebbero potuto essere riscattati.

Si fissavano inoltre penali e multe per ogni inadempimento ed indennizzi per il materiale ammalorato in battaglia, per i feriti, per i morti, per i cavalli persi o “magagnati”.

Il contesto contrattuale ci aiuta a comprendere l’origine di quella che nei tempi odierni è rimasta una pratica diffusa di tutti gli eserciti ossia la “rivista militare”: una sfilata dei soldati in pieno assetto di combattimento. Oggi tale attività ha un carattere celebrativo e si svolge in occasione delle feste nazionali, all’epoca faceva invece parte degli accordi: il Condottiero doveva portare tutti i suoi soldati, cavalli ed attrezzature in un certo luogo, in un dato giorno, affinché chi lo aveva ingaggiato potesse controllare materialmente che aveva messo in campo le forze e gli armamenti pattuiti.

Ma la vita della Compagnie di ventura non si esauriva nelle attività militari le quali, per essere realizzate, richiedevano la presenza di una collaudata struttura logistica. Smessa l’armatura il Condottiero doveva procurarsi degli esperti arruolatori (per rinfoltire le sue truppe), fabbri, maniscalchi e falegnami (per manutenere le attrezzature e le armi) medici, cuochi ed una consistente schiera di garzoni chiamati a svolgere i ruoli più disparati (badare ai cavalli, montare gli accampamenti, condurre i carri, ecc.). Occorrevano poi notai e contabili che si occupassero di dare la paga ai soldati, di gestire gli acquisti ed organizzare la vendita del bottino che andava messo sul mercato prima possibile in quanto il suo trasporto e la sua custodia appesantivano gli spostamenti dell’esercito.

Era proprio la mobilità (insieme alla disciplina ed all’addestramento) il punto di forza delle Compagnie di ventura italiane che privilegiavano le truppe a cavallo in grado di spostarsi da uno scenario all’altro per sorprendere il nemico. La battaglia campale, se possibile, veniva evitata preferendo indebolire l’avversario con rapide incursioni alle quali seguivano distruzioni e saccheggi; in questo modo il signore dei luoghi devastati non solo avrebbe perduto ricchezze ma avrebbe dovuto concedere alle medesime località l’esenzione dei tributi se non voleva che gli abitanti emigrassero altrove.

Ma meno tributi voleva dire minore possibilità di ingaggiare soldati ed ecco così che col saccheggio si riduceva la forza del nemico senza avere la necessità di affrontarne l’esercito in campo aperto.

Nel corso dei secoli l’imprenditore militare ha continuato, in forme e contesti diversi, a restare in auge ed oggi se ne contano diversi esempi: negli Stati Uniti la “Academi” è una compagnia militare privata che addestra ogni anno oltre trentamila tra mercenari, militari ed agenti di polizia stipulando contratti in ogni parte del mondo.

La differenza è che questi moderni imprenditori sono manager seduti dietro ad una scrivania e non scendono sul campo di battaglia, in armi, alla testa dei loro soldati a differenza di quanto fecero i loro colleghi del passato e che, almeno in questo, onorarono la fama che la leggenda ha loro tributato.

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