Chi fa il gioco di Salvini?

La crisi di governo che si è aperta è stata seguita dagli italiani – nelle varie dirette televisive dal parlamento – come i campionati di calcio. Finalmente. I cittadini, sia pure oscuramente, intuiscono l’importanza decisiva del momento politico: quello che un tale nel giugno 1940 chiamava “l’ora delle decisioni irrevocabili”, che anche quella volta là sarebbe stato meglio fossero state “revocate”, pure per il “figlio del secolo” M (oltre che “figlio di buona donna”, con rispetto parlando per la mamma, la maestra Rosa Maltoni).

A sinistra ci sono – tanto per cambiare – due linee, entrambe con le loro ragioni vuoi di bottega e vuoi altamente politiche.

Una posizione – sostenuta dal segretario del PD, Nicola Zingaretti, e nobilitata dal filosofo Massimo Cacciari – dice che è meglio andare alle elezioni che fare un governo non già di legislatura, ma per fare poche cose decisive e poi andare al voto; un’altra, “renziana”, pur non contraddicendo apertamente la prima, è più aperta al compromesso pur di fare un governo anche di portata più limitata tra PD e M5S evitando le elezioni.

Le ragioni di basso profilo dell’una od altra scelta sono più o meno note a tutti. Abbiamo, da molti anni, un parlamento scaturito da listoni di nominati da ogni capo partito, sanzionati dagli organismi interni di ogni formazione politica, e proposti – prendere o lasciare – agli elettori. Perciò il PD ha ora gruppi parlamentari composti da deputati e senatori che, in sostanza, erano stati scelti uno per uno da Renzi, e che naturalmente – nonostante la notoria slealtà e ingratitudine vigenti nel mondo della “politica politicante” – sono rimasti in gran parte fedeli al “Capo” che li aveva messi lì. Perciò c’è un interesse di Renzi a tenersi la maggioranza dei parlamentari per altri tre anni, o comunque il più a lungo possibile, pur avendo perso l’ultimo congresso 30 a 70 (secondo i maligni più maligni per poter preparare con calma il nuovo partito che avrebbe in mente). E c’è un interesse di chi ha vinto il congresso, cioè di Zingaretti e compagni, ad andare a nuove elezioni per poter annullare, o comunque ridurre ai minimi termini, la forza dei renziani in quel centro decisivo che sono i gruppi parlamentari (tanto più in una democrazia quasi senza veri partiti com’è ormai la nostra).

Che dire di questi ragionamenti strumentali in massimo grado?

Tre cose essenzialmente. La prima è che – come dicono a Roma – non ce ne potrebbe “fregà’ di manco” (tanto di avere gruppi parlamentari del PD “renziani” come “antirenziani”, anche come elettori del PD). La seconda è che il calcolo sull’influenza della propria corrente di partito si è sempre fatto, e solo le anime candide possono stupirsene. La terza è che è – però – un’autentica vergogna – indice della decadenza del Paese – che gli interessi generali siano subordinati – invece che solo “un poco condizionati” – a calcoli di bottega di corrente (tanto che io penso che il PD, che mi pare un po’ più serio degli altri partiti, alla fine farà prevalere l’interesse del Paese: il che – però – non è certo, ma da verificare).

In termini più nobili chi punta a un vero accordo politico di legislatura tra PD e M5S pensa che un governo di profilo più basso, su pochi punti importanti – dopo i quali “si dovrebbe” andare a votare – coinvolgerebbe semplicemente il PD in alcune manovre economiche impopolari; inoltre farebbe passare la coalizione di governo col PD come ritorno dei soliti ignoti, e per ciò avvantaggerebbe decisamente solo la destra. Non dico che il rischio non ci sia e che la scelta da fare sia facile, ma il mio ragionamento mi porta da un’altra parte.

Infatti io – pur ammettendo che la scelta presenti comunque incognite non piccole – parto dal vedere quale sia, da un lato, il pericolo principale, innanzitutto per il Paese e per la democrazia costituzionale, e poi per la sinistra; e dall’altro quale sia lo scenario prevedibile in un caso o nell’altro. Ora mi pare assolutamente evidente che il pericolo principale sia costituito da una destra populista che conquisti, se si va a votare subito – cioè tra ottobre e novembre – la maggioranza assoluta in Parlamento. Questa possibilità significherebbe: rotta di collisione sicura con l’Unione Europea; rafforzamento del nazionalismo xenofobo in Italia e di qui in tutta l’Europa, e rapporto quantomeno di emulazione – ma da parte di una grande nazione decisiva per l’Europa – della “democratura” di Budapest. Questa possibilità c’è al 90%. Se “questi qua” della destra populista prendono la maggioranza assoluta in parlamento, dureranno dieci anni, con Salvini premier. Ma – si dice – siccome con un governo di corto respiro ci si sputtana come sinistra, il rischio è che la Lega di Salvini prenda poi, da sola, il 50%. E anche questo non è un discorso stupido, ma che alla fin fine mi sembra meno convincente. Ecco le ragioni.

Che la destra populista – se si vota a breve come voleva Salvini – prenda con la Meloni, e magari Berlusconi, il 50% e più dei seggi in Parlamento, eleggendosi poi pure il prossimo Presidente della Repubblica, è certo; che lo prenda tra due anni o tre anni, con un Salvini nel frattempo senza ministeri chiave, all’opposizione, e magari inseguito dal “Moscagate” e dai suoi concorrenti interni (“Salvini, guardati da Giorgetti!”), è quantomeno molto dubbio. Questo è tanto vero che Salvini – dopo aver commesso il gravissimo errore di credere, dando credito alla sola posizione di Zingaretti del PD, che si sarebbe andati subito a votare, trovatosi senza governo e senza elezioni anticipate, e col rischio del PD di nuovo al governo, cioè letteralmente col culo per terra – fa di tutto per tornare alla vecchia alleanza giallo-verde. Essendo un vero “Capitano”, che pure ha sbagliato mossa, pur di recuperare è pronto a lusingare il narcisismo spinto di Di Maio, proponendosi come suo Vice. Perciò non consentire a Salvini di andare a elezioni anticipate, e impedirgli di tornare al governo, significa impedirgli di riprendersi il pallino incautamente perduto in seguito a un suo troppo forte azzardo politico. Quindi aggravare la crisi del “salvinismo” significa votare un governo PD-M5S dignitoso, ma senza alzare irresponsabilmente la posta. In questo quadro se il potenziale socio di maggioranza, che in questo parlamento ha il 34% dei voti, insiste su Conte premier, perché incaponirsi?

Si dice: “Ma non è forse giusto dare la parola al popolo sovrano, che vota e sceglie chi vuole?”. É più che giusto, miei cari; ma chi l’ha detto che la partita elettorale vada anticipata di oltre tre anni perché fa comodo a un partito che nell’ultima tornata aveva preso il 17%? – Aspetti e speri.

Provate a immaginare una seduta spiritica con il grande e astuto leader politico comunista Palmiro Togliatti, che io ho sempre ammirato, e chiedetegli se lui farebbe saltare – in primo luogo per rifiutare “Conte” – la possibilità di un governo atto a fermare, anche solo per uno o due anni, una destra populista che rischia di prendere la maggioranza assoluta, e vedrete che matte risate si farà alle vostre spalle anche solo perché gliel’avete chiesto.

Oltre a tutto sullo sfondo c’è anche un rischio di scissione del PD. Io la sconsiglierei vivamente con tutte le mie forze perché tutte le scissioni a sinistra sono finite male, sia per la sinistra che per chi le ha fatte (anche quando hanno avuto “effetti collaterali” importanti). Ma non è bene mettere una minoranza di Partito nella condizione di dover scegliere tra la propria totale liquidazione politica e la rottura del proprio partito. Tanto più che mandare Salvini al potere, prima o dopo elezioni, per una pretesa intransigenza, per la “sinistra” significherebbe provocare, per molti anni, una svolta a destra con basi di massa mai vista dal 1948 a oggi.

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