Ciminiera Borsalino: testimone oculare pre-scritto…

Visitando la forzatamente piccola ma assai bella mostra fotografica di Roberto Giordanelli alla Gambarina, dove una decina di magnifiche foto ritraggono l’abbattimento della ciminera della Borsalino, mi ha fatto innanzitutto piacere il riemergere, con Roberto, di uno dei più validi e significativi testimoni visivi della vita cittadina degli ultimi decenni. Alessandria non appare luogo particolarmente attento alla pagina -oggi invece fondamentale, decisiva- della fotografia: penso ad esempio alla formidabile esperienza, in decenni ormai purtroppo lontani, rappresentata dalla Studio Fossati di via Cavour, o ad alcune iniziative, non a caso altrettanto effimere, di Willy Zaino quando aprì negli stessi anni (non c’era ancora il vicino “Triangolo Nero” di Gianni Baretta e amici…) la galleria-editrice “Amnesia” in corso 100 Cannoni. L’una e l’altra lasciate sostanzialmente cadere, come tante altre, da una città per molteplici versi sostanzialmente indifferente.

Mi ha poi colpito, sulla «Stampa» di domenica 3, l’articolo della mia non dimenticata laureata pavese Valentina Frezzato, che mi ha fatto improvvisamente ricordare -e c’entra di nuovo “Amnesia…”, in tutti i sensi- che non soltanto, per ragioni del tutto casuali (passavo sul marciapiede opposto di via XX Settembre, del tutto ignaro della concomitante operazione fissata proprio per quel momento!) mi ero ritrovato ad essere spettatore diretto e vicinissmo dell’abbattimento della ciminiera. E ne avevo anche scritto, poco dopo, rimasto sotto l’impressione, introducendo il bel volume -fotografico, ci risiamo!- di Riccardo Massola 0131 – Alessandrini per immagine, che Zaino e Roberto Rossignoli misero fuori, proprio per le edizioni Amnesia, alla fine di quello stesso 1987. Facilitato ad esservi indotto dal fatto che all’epoca ero abituato, dalle finestre laterali di casa al terzo piano in piazza d’Annunzio, a vedere quotidianamente la ciminiera in fondo a via Torino, e da quel momento in poi avrei dovuto abituarmi, come tutti, a non ritrovarverla più.

Non è allora per patetico narcisismo (mi dico «ma va là» da solo…) o per sterile vintagismo (ormai è diventato vintage anche il vintage!) che rispolvero quelle pagine, dopo aver risfogliato il volume di Riccardo, constatando malinconicamente che, dei centodieci e passa concittadini che il magnifico fotografo ritrasse allora, rischia già di essere diventata maggioritaria la percentuale di quanti hanno avuto modo di Passare nel frattempo, loro malgrado, il Confine. (Per inciso, Riccardo ha dato e sta dando magnifiche prove come assessore alla Cultura di San Salvatore e direttore della Biblioteca Civica di Valenza, ma confesso che come fotografo almeno pubblico mi manca).

«Per ragioni del tutto casuali mi sono trovato ad essere, nel tardo pomeriggio di venerdì 28 maggio di questo 1987, tra i numerosissimi (e, in linea di massima, meno casuali) testimoni oculari dell’abbattimento della ciminiera della Borsalino. Non sono né superstizioso né menagramo, presumo: ma mancherei di rispetto alla verità se tacessi di aver tutto (una delle rare, forse l’unica volta a tutt’oggi in vita mia) la netta sensazione d’assistere al perpetrarsi d’una cattiva azione che avrebbe anche potuto non rimanere senza conseguenze.

La vecchia ciminiera, diciamocelo tra quanti hanno visto, con tutta la franchezza che l’eccezionalità del caso richiede, non ne voleva proprio sapere di andare giù: ha resistito finché ha potuto e non si sono messi a lavorarla, e di brutto, ai fianchi, e ancora si è permessa di far saltare come fili di refe alcuni tra i cavi d’acciaio che l’imprigionavano trascinandola alla rovina, un po’ come riusciva a fare Moby Dick con gli arpioni delle baleniere di Achab. E anche una volta privata del punto di consistenza, ha ancora pateticamente ed eroicamente cercato (come attestano le molte e belle foto che professionisti e dilettanti ci hanno saputo offrire nella circostanza) di cadere in piedi, restando integra fin dove e fin quando ha potuto.

Tutto questo non lo si dice per la ripicca di aver fatto ingenuamente e inutilmente parte di quella minoranza (esigua, si suppone, a livello tanto “di base” che di rappresentanza amministrativa, visti i riusltati che è riuscita ad ottenere!) che ha tentato invano di opporsi all’abbattimento. Nè per il disappunto agoistico di aver visto infrangersi la grata abitudine -più psicanalitica che estetizzante- di sedersi alla finestra aperta sull’inizio di via Lombroso, osservando, dal tavolo dello studio, con la bella prospettiva tranquillizzante dell’intera via Torino, il cui orizzonte culminava, al centro, proprio nella possanza lineare della ciminiera, la visione della quale contribuiva insieme a rassicurare e a chiarire le idee.

Ma anche senza tirare in ballo l’archeologia industriale e tutte le possibili deduzioni relative, cui evidentemente gli alessandrini che contano e decidono non credono (né ci sarebbe da stupirsi, in una città che riguardo a se stessa non ha tradizionalmente mai creduto neppure nell’archeologia tout court), rendendole quindi oggi inesorabilmente accademiche, per qualche mese era stato possibile sperare che, almeno una volta nella plurisecolare vicenda cittadina, Alessandria avrebbe voluto smentire almeno a se stessa di essere la perenne carnefice/vittima di quella “sindrome dell’avvocato Troncone”, così brillantemente descritta qualche anno fa da Franco Castelli in una serie di articoli che meriterebbero una ripubblicazione unitaria».

Gli articoli in questione erano stati proposti a puntate per l’intero triennio nel quale si era affacciata alle edicole l’effimera esperienza giornalistica de «la settimana» (la testata era graficamente così, tutta in minuscolo come i mezzi: la qualità direi di no). Nessuno ovviamente li ha mai ripubblicati, né tanto meno qualcuno oggi si ricorda ancora di quel traballante ma volonteroso ebdomadario. «La Stampa» domenicale ha altresì riprodotto l’articolo del 29 maggio 1987 con cui Franco Marchiaro descrisse il luttuoso evento, e Antonella Mariotti, nel commentarlo, ha ricordato ora che era sindaco al primo dei suoi due mandati il peraltro da me davvero compianto Beppe Mirabelli, la cui maggioranza Psi-Pci votò in massa per l’abbattimento (30 sì contro 4 no…): «Il dibattito andò avanti per mesi: una decisione lontana dagli umori della città. Alcuni studenti raccolsero firme per fermare le ruspe aiutati da Italia Nostra e dal Gruppo Archeologico. Ma quel simbolo era soprattutto un ostacolo al già pronto e approvato progetto residenziale, che doveva inserirsi nella città “in modo armonioso”».

Personalmente avevo trovato anche più disarmonica la sparizione della passerella che attraversava corso Borsalino congiungendo i due rami della fabbrica e, se vogliamo, anche la (sopravvenuta e irrimediabilmente perdurante) solitudine dellìex-Taglieria del Pelo rimasta in malinconico isolamento all’estremità angolare opposta. Più di recente, una giunta di centrodestra, quella “guidata” da Pier Carlo Fabbio, avrebbe pareggiato i conti, facendo fuori quasi con la tecnica del fatto compiuto il ponte della Cittadella, peraltro rimpiazzato da un capo d’opera di architettura smat internazionale che dà lustro (soprattutto pubblicitario…) alla città. E l’altro capo d’opera residenziale del pur certo grande Paolo Portoghesi, pur avendo rischiato di non vedersi riconoscere l’abitabilità per una questione di centimetri di altezza, se la memoria non mi inganna, dà tuttora agli alessandrini che transitano in zona Esselunga (a quando finalmente l’espansione dentro la vecchia Valfré inseguita da anni?) l’illusione di non trovarsi in terra madrogna ma ad Atlantic City U.S.A. Come la si contemplava nel vecchio bel film di Malle quando era sacrosantamente innamorato della mia coscritta Sarandon. Sempre secondo la Mariotti, «quel partito socialista voleva trasformare tutte le città che amministrava in “Milano da bere”». Da lì a pochi anni la magistratura proprio milanese avrebbe mandato di traverso quelle bevute: e nel ’94 Silvio Berlusconi avrebbe ringraziato i bevitori bevendosene i voti.

Rileggendomi oggi, ammetto che le espressioni riguardanti la cattiva azione compiuta che avrebbe potuto non rimanere senza conseguenze mi suoni un po’ improvvidamente iettatoria. Ma purtroppo non inappropriata: dall’alluvione del novembre ’94 alla cancellazione del Teatro Comunale del 2010, ad altre cose che ciascun lettore fin qui giunto potrebbe aggiungere à la carte, ditemi voi se qualcosa non è successo…

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