La battuta fulminante di Grillo – da francescani a gesuiti – fotografa un elemento chiave del nuovo corso pentastellato, la fine dell’elemento messianico con cui – in pochissimi anni – avevano conquistato il potere. Ma è, al tempo stesso, il riconoscimento che le buone intenzioni non bastano per cambiare un paese, e la politica. Ancor più se, a dettare le regole, c’è un padre padrone senza stimmate, e con una concezione assolutista del nuovo mondo che voleva fondare. Il passaggio del movimento al partito sotto l’egida di Giuseppe Conte non avviene, tuttavia, senza ombre.
La principale criticità riguarda il fatto che, a comandare, resti un capo plenipotenziario. Non si tratta di un elemento anomalo nel panorama italiano, e tanto meno internazionale. Il format del partito personale, con una piena identificazione nel leader, è ormai – nel bene e nel male – una caratteristica trainante nei regimi contemporanei, fortemente mediatizzati e con seguiti elettorali volubili che riescono – a fatica – ad orientarsi solo se incontrano un capo carismatico. Ne è testimonianza l’intervento al Palaeur di Sahra Wagenknecht, neo-protagonista della scena tedesca con il partito che ha fondato da poco e che si chiama con le sue iniziali.
Con l’esperimento BSW, i cinquestelle di Conte condividono anche un posizionamento ideologico pragmatico che rifiuta l’alternativa bipolare tra destra e sinistra. Nell’interpretazione originaria di Grillo significava rifiutare le alleanze in nome della propria purezza e diversità. Conte ha esordito rovesciando questo dogma, restando a Palazzo Chigi alla guida di due coalizioni di governo radicalmente differenti, con l’unico elemento in comune rappresentato da se stesso. Ed è questo il vero imprint che segnerà la strategia dei cinquestelle nell’era post-grillina.
Fino ad oggi, il segnale più chiaro è venuto dal rifiuto di Conte di aderire al campo largo del centrosinistra come orizzonte stabile e duraturo. Chi confonde la politica con l’aritmetica continua a ripetere che, in questo modo, i cinquestelle si precludono la possibilità di ritornare al governo. Ma, almeno fino alle prossime elezioni, questa ipotesi è comunque irrealizzabile. E a Conte interessa utilizzare ogni margine di manovra per accrescere visibilità e spazio, quale che sia l’occasione e la direzione. Come si è visto con i toni durissimi usati ieri dal palco nei confronti del premier israeliano, e come si vedrà sempre più nei prossimi mesi anche sul fronte ucraino, dove l’arrivo di Trump può rappresentare una svolta nella direzione di concreti negoziati di pace. Modificando anche gli atteggiamenti di molti esecutivi europei, a cominciare da quello italiano.
Si sa che, nei confronti della Russia, le posizioni della Lega sono vicine a quelle dei Cinquestelle, creando opportunità di convergenze tattiche fino a ieri difficilmente praticabili. E risultati simili – più o meno esplicitamente trasversali – si potranno realizzare anche su altri obiettivi, come in passato – per esempio – è avvenuto nei confronti delle agevolazioni edilizie. E non si esclude che, come è successo nella rapida ascesa del partito di Sahra Wagenknecht, Conte favorisca un indurimento sulle politiche migratorie, più vicino alle posizioni tradizionali del centrodestra. Approfittando del fatto che il vento, in Europa, sta decisamente cambiando, anche spinto dalla presidenza Trump.
Certo, non è chiaro se e in che misura tutto questo riuscirà a frenare l’emorragia di voti che i Cinquestelle continuano a registrare, nelle urne delle amministrative e nei sondaggi. Ma Conte non ha fretta. Una volta consolidata la leadership interna, eliminando l’unica figura in grado di fargli ombra, può continuare a virare il suo vascello a seconda delle opportunità che si aprono, e di quale vantaggio può trarne. In questi tempi di profonda incertezza, le fortune dei partiti mutano senza preavviso. Per Conte, quello che conta è rimanere saldamente al timone.
di Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 25 novembre 2024).
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