Come eravamo

Le dichiarazioni di Cutolo, riportate su questo giornale, sul suo – mancato – ruolo nelle trattative sul sequestro Moro confermano quello che alcuni storici – apertamente – e quasi tutti i politici – segretamente – sapevano. Il principale leader dell’epoca, l’uomo intorno al quale ruotava la fine della contrapposizione frontale tra comunisti e democristiani, fu – per usare un eufemismo – lasciato morire. Si trattò, ancorché forse involontario, di un omicidio di regime.  Oltre che per dovere di cronaca, riesumare ancora una volta questa terribile verità ha un valore maieutico su cui dovremmo continuare a riflettere. Per prendere meglio le misure alla fase che stiamo attraversando. Sforzandoci di andare al di là del clima di autocommiserazione che impronta il dibattito pubblico. Con la messa in stato di accusa, senza attenuanti, della mediocrità e incompetenza della classe di governo attuale – maggioranza e opposizione – rispetto al solito bel tempo andato. Quell’Italia dei partiti che hanno costruito e custodito, per mezzo secolo, le fondamenta della nostra repubblica.

La foto di famiglia saltata fuori dalla deposizione di Cutolo racconta tutta un’altra storia. Un ininterrotto susseguirsi di stragi di Stato e di attacchi al cuore dello Stato, da piazza Fontana a Capaci, con il rischio costante che crollasse l’intero ordinamento democratico. Certo, il linguaggio era ben diverso da quello della vulgata populista su cui si esercita l’ironia, oggi, degli opinionisti à la page. I comunicati che rivendicavano i delitti, o le veline che ne sviavano i responsabili, erano redatti secondo i dettami delle rispettive – non rispettabili – matrici ideologiche: rivoluzionarie o poliziesche. E al posto dello sberleffo di Totò – che oggi si meritano alcuni governanti – c’era il rumore secco degli scoppi. Delle pistole o delle bombe. E se dalla cronaca nera ci spostiamo a quella finanziaria, quella stessa classe politica la cui lungimiranza rimpiangiamo è responsabile della voragine dei conti pubblici sui cui decimali, ad ogni autunno, sono costretti ad accapigliarsi i loro sfortunatissimi eredi.

Lo so che il senso della Storia non è più – al tempo della Rete – tanto di moda. Eppure stiamo parlando di una storia ancora recente. Non quella dei nostri padri, la nostra. E non si tratta di scaricare soltanto su chi aveva responsabilità di governo i lutti terribili di quella stagione. Né è un invito, in nome del passato, ad avere clemenza nei confronti di chi voglia dilapidare il presente. Ma visto che si dibatte tanto sulla necessità di impartire, nelle scuole e nella società, più insegnamenti di informatica a scapito delle materie umanistiche, possibile che non si capisca il danno enorme che facciamo a noi stessi cancellando la nostra storia? Non solo dai banchi di classe, ma da ogni riflessione pubblica che non riesce ad andare più indietro degli errori di Matteo Renzi e della reazione di Grillo. C’è voluta la tenacia di un editore indipendente per riempire, in questi giorni, le sale di Napoli di animatissime Lezioni di Storia. Lezioni sui grandi temi del passato. Ma anche, e soprattutto, un richiamo al metodo che dovrebbe improntare il nostro sguardo su quello che siamo. Siamo quello che siamo diventati. E a volgerci alle nostre spalle per capire, abbiamo solo da guadagnarci. Non sono forse come li immaginavamo. Ma i nostri figli sono molto migliori di noi, i loro padri.

( “Il Mattino”, 29 aprile 2019)

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