Cosa ci hai capito?

Mi hanno chiesto di rispondere a domande sul ruolo della comunicazione durante la pandemia. Un lavoro destinato ad una ricerca che verrà pubblicata in un prossimo futuro. Siccome può interessare anche ai non addetti ai lavori, lo condivido. G.V.

D)   Ha detto Sabino Cassese: il capitolo della comunicazione si riassume così: è stata carente. Molte prediche generiche e piene di buoni sentimenti, non documenti con dati sicuri.
Aggiunge Roberta De Monticelli: mi infastidisce il tono paternalistico della voce pubblica. Ha trattato le persone come bambini viziati, incapaci di comprendere la gravità della situazione. Il messaggio dello “state tutti a casa” non è stato accompagnato da una dose di informazioni adeguata. Cosa rispondere?

R)   La comunicazione ha avuto uno svolgimento, un suo percorso, come l’epidemia. Va giudicata “al momento”,  in base alle notizie e alle conoscenze che si avevano a quello stadio dell’evento. Ora fatichiamo a ricordare la totale incertezza, la completa ignoranza di “cause ed effetti”, ne’ il clima generale, quando eravamo tutti guidati da emozioni, paura e orgoglio.
Adesso che tutto viene letto alla luce di quanto è maturato, giungiamo alla conclusione di avere sbagliato tutto: cure, assistenza ma anche comunicazione. La verità è che non c’è stata nessuna vera informazione di cronaca. Per il semplice motivo che non era possibile. Non potevi entrare negli ospedali, intervistare i medici, partecipare ai funerali, scoprire l’identità dei morti e dei loro parenti. Ma non poteva nemmeno circolare il giornalista. Emblematico è l’inizio della comunicazione pubblica dell’epidemia: una rotonda stradale ai confini della zona rossa di Codogno. Per 10 giorni siamo rimasti lì ma è come se non ci fossimo mossi per tutto il tempo del lockdown. È chiaro che in assenza di una informazione non può esserci stata una controinformazione. Lasciando perdere le rozze bufale mediche della rete. È difficile “dire la verità” quando non la si conosce. E, onestamente, si è avuto il coraggio di ammetterlo, in forme che non facessero scattare il panico.

 D)   Il conflitto comunicativo tra Stato e Regioni che dinamiche ha seguito?

R)  Non sono in grado di valutare l’informazione locale data ai vari livelli regionali ne’ la comunicazione istituzionale messa in campo dalle singole Regioni. Considerando le notizie “dalle Regioni” offerte dai media nazionali, vedo un percorso in più fasi. All’inizio non c’era conflitto anzi le Regioni volevano rappresentarsi come coautrici delle decisioni nazionali. Poi, man mano che confusione e morti aumentavano, hanno cominciato a sottolineare la limitatezza delle loro competenze e delle loro attrezzature, poi come la loro responsabilità venisse scavalcata dal governo. Erano combattute tra non perdere “potere” e cercare alibi. Ultimo passaggio: buttarla in politica. Esemplare è il caso della Lombardia. Anche se la Lombardia, quale che siano state le sue carenze, merita una amnistia preventiva. I media non hanno provato in alcun modo a stabilire quale fosse la verità. In parte perché era difficile e poi perché, in quel momento di emergenza, era dannoso. Si sono limitati, al massimo, a difendere il territorio da loro coperto editorialmente.

D)   Il conflitto tra comunità scientifica e comunità economico-produttiva come si è riverberato nei media?

R)   All’inizio ciascuno ha correttamente fatto il suo mestiere. Il mondo economico ha taciuto, non volendo sfidare l’impopolarità e dovendo usare discrezione per ottenere dai prefetti autorizzazioni straordinarie a tenere aperti gli stabilimenti. L’unico che ha sbagliato il tempo dell’intervento è il sindaco di Milano che ha parlato poco prima dell’aggravarsi della situazione. Dopo, l’istanza economica ha saputo cogliere meglio del governo (giusto una settimana di differenza) il momento di svolta, quando l’opinione pubblica ha cominciato ad annoiarsi. In quel momento ha provveduto a drammatizzare e colpevolizzare. A quel punto la comunità scientifica per la prima volta si è divisa tra prudenti e aperturisti. Molti immunologi, impazziti per la popolarità mediatica, si sono allineati ai giornali tutti a favore della riapertura.

D)   Nella sequenza delle decretazioni (isolamenti, autocertificazioni, congiunti) cosa appare stravagante?

R)   Appare stravagante che il Premier comunichi personalmente, a canali unificati, tutte le norme comportamentali, le regole, le multe etc. Da quel momento tutti i detentori di qualche ruolo o potere lo hanno imitato. È stata la fiera della vanità. La decretazione decentrata prima è stata frutto di puro protagonismo, poi dell’interesse elettorale del singolo sindaco o assessore regionale.

D)   Nel processo di spiegazione e di accompagnamento al virus c’è stata, nei media, una figura più adeguata o, invece, meno efficace?

R)    Il capolavoro involontario di comunicazione pubblica è stata la quotidiana conferenza stampa della protezione civile. Un appuntamento ridondante che però alternava momenti drammatici ( bollettino dei decessi e degli infettati) con momenti consolatori (numero volontari, fondi raccolti) e, fondamentale, il crescere delle certezze del comitato scientifico. Miserrima la qualità delle domande dei giornalisti (i rifornimenti di mascherine, l’applicazione pratica delle autocertificazioni) che però rispondevano alle esigenze degli spettatori.

D)   Ci sono stati momenti simbolici, linguaggi non verbali, che hanno comunicato valori e offerto sostegno, a cominciare dal Capo dello Stato?

R)   Il Capo dello Stato ha scelto una tipologia di intervento non scontato: nessun intervento epico-drammatico, nessun “messaggio”. Tanti brevi colloqui al caminetto per “rigenerare” la fiducia, persino ironico con gli studenti. Accompagnato dalla normalità del suo ufficio quotidiano , che fosse l’8 marzo o la strage di Capaci. Un modo di tranquillizzare l’Italia.
Cosa di più simbolico, nei linguaggi non verbali, di S.Pietro vuota. Non una resa della Chiesa ma una presenza rispettosa, umile, dolente.
Credo che abbia colpito il mondo la nostra reazione unanime, partecipe e orgogliosa dai balconi: l’ultima cosa che ti aspetti dagli italiani (tranne il rumore). Se vale l’identificazione pandemia/guerra allora è stata una sfida coraggiosa e beffarda al panico, accompagnata dall’eroico “sacrificio” di medici ed infermiere.

D)   Da una parte i media, dall’altra la comunicazione istituzionale dello Stato. Come si è articolato questo doppio canale?

R)   Per quanto detto in apertura, secondo me non ci sono state altre voci, è arrivato solo lo Stato.
Per questo considero accettabile la comunicazione pubblica. In questa situazione di totale monopolio la comunicazione istituzionale poteva assumere il tono della propaganda. In parte lo è stata ma solo in riferimento alla persona del Premier. Tuttavia senza toni “proprietari”, senza certezze e senza riguardi per alcuno.

D)   La questione dei numeri appare una metafora tra il vero e il verosimile. Qual’e’ il giudizio sulla prestazione statistica delle istituzioni italiane?

R)   Capisco l’importanza della correttezza statistica ma non credo che nel caso specifico ci sia stata malizia per migliorare il quadro o abbellire la realtà. I numeri comunicati erano già sufficientemente devastanti e non sarebbe cambiato il senso di sconfitta. Caso mai dimostra che in corso d’opera la macchina dei soccorsi non conosceva neanche vagamente l’entità del nemico che stava combattendo.

D)   Rispetto agli altri Paesi vittime della pandemia, quale è stato il modello informativo italiano?

R)   Il nostro approccio veritiero è apparso persino suicida o masochista quando attribuivamo la corresponsabilità covid a migliaia di morti causati da altra malattia. In altri paesi ci si limita a conteggiare le morti per sola e diretta dipendenza dal virus. Ma credo che sia stato corretto così.
Inspiegabile invece come altri governi abbiano sprecato le informazioni che anticipavamo loro. Credo che si tratti di puro razzismo nei nostri confronti. “Si sa come sono gli italiani. Da noi non succederà”.

D)   Qual’e’ il giudizio sul ruolo svolto dalla Rai?

R)    Trovo che la Rai abbia reagito con lentezza alla ghiottissima occasione. A parte la soddisfacente copertura di cronaca e news, ha tardato a capire come solo le sue teche (le produzioni nuove erano impedite) erano in grado di interessare gli spaventati telespettatori. Non potevi cavartela con un banale talkshow. O con la replica di un varietà.
Nel momento in cui chiudevano le scuole, i teatri , i concerti, le mostre tu, servizio pubblico, potevi ritrovare il tuo ruolo pedagogico, potevi far scoprire i tuoi tesori dimenticati, curati -allora- dal fior fiore degli intellettuali dell’epoca. Tutti noi in clausura sentivamo il dovere di non sprecare questa opportunità, di ritrovare il gusto di un uso intelligente di un tempo mai così libero.
Tanto gli ascolti, almeno in questa occasione, erano garantiti.

D)   Sintetizzando, quale può essere lo stimolo che l’informazione, soprattutto pubblica, può ricavare da questa esperienza?

R)   A cosa serve la comunicazione pubblica? Innanzitutto a chiarire e a rafforzare la identità nazionale. Cosa è stato il portato, il risultato nascosto di questo disastro? Proprio di sentirsi una comunità coesa, solidale che scopriva di avere valori condivisi. Che si compattava a difesa dei propri vecchi. Dove i luoghi comuni venivano ribaltati e la Calabria era più efficiente della Lombardia. Dove, caso più unico che raro, l’uguaglianza era totale. Non erano tollerati i furbi, i raccomandati, gli sbruffoni.

GianlucaVeronesi

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