Crisi della sinistra e crisi della democrazia come crisi del moderno?

L’ultimo libro di Aldo Schiavone e il dibattito che ne è scaturito, sulle pagine dei giornali nazionali e anche della nostra rivista, spingono ad intervenire sul tema della crisi della sinistra, crisi che va vista in relazione al declino della democrazia. Se partiamo dai dati sensibili, che ognuno può verificare facilmente, la caduta evidente delle forze della sinistra in Italia e in Europa, si sposa con una analoga discesa dell’affluenza elettorale che sta raggiungendo ormai proporzioni allarmanti per la tenuta democratica dei paesi occidentali. Il voto è espresso sempre più da minoranze che nelle elezioni nazionali difficilmente sfiorano il 70% degli aventi diritto, e ormai l’assenteismo si concentra fra le fasce popolari. Se si incrocia il dato desolante della scarsa partecipazione elettorale, e in genere alla vita democratica, con il concentrarsi del potere istituzionale nella struttura governativa, che assorbe sempre più la funzione legislativa e sogna di inglobare anche il giudiziario, assommando il dato del potere economico appannaggio di poche élite finanziarie e bancarie, si ha l’esatta percezione del fatto che la democrazia nostra assomiglia sempre più a un ordine oligarchico pieno. Già da queste scarne considerazioni si può fissare un punto di riflessione: se sinistra significa eguaglianza dei diritti e potere popolare, non si può che dedurne che il concentrarsi del potere al vertice, e dunque, in poche mani, dalla quale deriva la crisi della democrazia, determina, inevitabilmente, anche il declino della presenza politica della sinistra stessa. Inoltre, se la parabola della democrazia moderna, affermatasi dalla Rivoluzione francese in avanti, è caratterizzata dal delicato equilibrio fra rispetto della persona umana e della libertà da un lato, ed dall’emergere del carattere di massa del principio di uguaglianza, si deve notare che proprio la sfasatura della soddisfazione delle alterne esigenze causa un deperimento degli istituti democratici e della loro legittimità in seno al popolo. In sostanza, ritengo giusto affermare come dopo l’89’ e la conseguente ubriacatura neo liberale, gli eventi storici ci hanno insegnato come il principio di libertà dell’individuo non può essere pienamente espresso in assenza di una forte difesa del valore della eguaglianza fra i cittadini. Inoltre, mi pare ovvio che questi ultimi anni ci hanno altresì dimostrato come la concezione di libertà insita nella dottrina liberista è drammaticamente povera e non avveduta delle molte dimensioni materiali e spirituali della persona umana. Detto in altro modo, anni fa si sosteneva come la fine del posto fisso che dura tutta la vita avrebbe concesso ai giovani la possibilità di scegliere con più libertà di un tempo, di avere nuove esperienze lavorative, di cambiare spesso mestiere e vita, città, abitudini. In realtà, questa esplosione di libertà non vi è stata; precarietà e scarse tutele non hanno fatto rima con libertà ma semmai con parole antiche come sfruttamento e con costrizioni materiali, che impediscono di costruire per i giovani e meno giovani un libero e dignitoso progetto di vita. La libertà del capitalismo nella sua interpretazione liberista si è dimostrata povera e incapace di cogliere gli aspetti molteplici della personalità dell’individuo. La libertà di mercato ha ridotto l’uomo ha fattore della produzione; tutto ciò era evidente ai primi osservatori del macchinismo e del capitalismo nascente a fine settecento, come ancora oggi è evidente a chi guarda alla nostra società con occhi critici e disincantati. Una espressione più libera nel lavoro dell’individuo e delle sue esigenze può essere data solo da una economia che sia regolata da strumenti pubblici che definiscono nuovi e più avanzati obiettivi pianificabili, obiettivi che il semplice funzionamento del mercato ritiene ostacoli e impacci. Dunque, è il delicato equilibrio fra la libertà della persona e il suo inserirsi armonicamente nelle esigenze del collettivo che è il nocciolo problematico della convivenza democratica. Senza una difesa e una compenetrazione fra individuale e collettivo le nostre democrazie deperiscono e scadono a livello di stanche strutture oligarchiche. In ciò che sopra ho scritto vi è implicita anche una critica del comunismo e del suo travagliato rapporto con la democrazia e la partecipazione. Il collettivo non può soffocare la libertà umana; su questo il comunismo ha perso la sua battaglia egemonica storica con il suo avversario, il capitalismo. Se la rivoluzione progressiva procede dall’alto, per usare le immagini di Gramsci, chiaramente la passività indotta nelle masse si ritorcerà prima o poi contro il governo per il popolo e gli elementi di progressività che pur possono essere presenti in quelle società verranno generalmente rifiutati e riassorbiti. La democrazia ha, dunque, una sua struttura formale, che però non può che essere animata da una sostanza interna, ed essa è la partecipazione, la più ampia possibile del popolo e degli individui alla costruzione di un progetto comune che sviluppi tutte le potenzialità dell’uomo e della società. La democrazia non è solo, tuttavia, eguaglianza fra gli individui di diversa estrazione conciliata con l’esigenza della persona e della libertà di questa, è anche liberazione dal lavoro e del lavoro, ovvero liberazione del lavoro inteso come semplice fattore di quel sistema impersonale dominato dalle macchine e dal capitalismo. Se il sistema capitalistico continua a ridurre le persone a cose e merci la democrazia non sarà pienamente espressa. Ne deriva da tutto ciò che la democrazia non coincide con il formalismo degli strumenti del costituzionalismo liberale, anzi fra liberalismo e democrazia può esservi contrapposizione netta, ma la democrazia è tensione verso obiettivi di partecipazione, è il potere portato alla base, è il progetto di costruzione di una società sempre più inclusiva, giusta e per questo libera. Se la democrazia è questo, che cosa ne è stato di una sinistra dimentica dei nodi epocali che la questione solleva. Dagli anni novanta, la sinistra, in Europa e nel mondo, ha pensato che l’idea democratica coincidesse con la libertà di mercato, equilibrata semmai da un po’ di redistribuzione sociale. Più che l’utopia, si è smarrita, fra chi si schiera fra i progressisti, l’idea di un progetto sociale che andasse oltre al semplice meccanismo economico del capitale, a cui sacrifichiamo tutto, anche il benessere comune e l’idea stessa di ciò che deve essere l’uomo. L’antropologia dell’uomo fatto per la sola dimensione economica ha fatto scuola anche fra le forze politiche che un tempo erano del movimento operaio. Oggi, tuttavia, è necessario uno scatto in avanti delle concezioni politiche, filosofiche e strategiche che la sinistra dovrà adottare, se vorrà realmente essa contrastare le derive nazionaliste e identitarie delle destre attuali.

Filippo Orlando

Alessandria 21-05-2023

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*