Dai grandi saggi alle macchine pensanti

Sappiamo – e sapremo – sempre meno dell’intelligenza del mondo. La capacità di capirlo, e trasformarlo. La storia del pensiero si snocciola – almeno dal Rinascimento in poi – intorno a un numero ristretto e visibile di menti che anticipano e guidano il travaglio della nostra Storia. Che si tratti di economisti o di filosofi, di riformatori sociali o visionari politici, i loro nomi sono scolpiti e condivisi nella koinè culturale, così come il percorso biografico da cui nascono le loro opere. Quale, invece, che sarà il bene o il male che ci verrà dall’Intelligenza artificiale, al massimo conosceremo una sigla dell’identità delle macchine pensanti che si apprestano a governare il pianeta.

Nello scontro tra apocalittici e integrati sul destino che l’IA generativa ci sta schiudendo o cui ci sta condannando ho scelto di pensare positivo. Visto che i maggiori esperti su un solo punto concordano all’unisono: che il futuro rimane inconoscibile, mi adeguo al precetto di Pascal di scommettere che ci andrà bene. Però, c’è uno snodo che trovo particolarmente inquietante. Grazie all’IA, la produzione intellettuale si sta espandendo a ritmi vertiginosi. Ma, al tempo stesso, sta diventando anonima. Che si tratti di Claude o Chat GPT, gli LLM funzionano con lo stesso principio: accumulano una mole sterminata di testi e, grazie alla combinazione di algoritmi addestrati con reti neurali e una elevatissima capacità di calcolo, sfornano analisi che rielaborano enunciati e collegamenti tra – una selezione di – quei testi. Si tratta di un procedimento molto simile a quello con cui gli studiosi svolgono da sempre il proprio mestiere. Ma con una differenza chiave, che è anche la chiave di volta dell’ecosistema digitale.

In entrambi i casi, la conoscenza si sviluppa sulla base delle connessioni che vengono individuate e attivate. Ma nel caso del pensiero umano, è il singolo individuo a tessere la trama della propria comprensione. Le macchine pensanti, invece, si basano su una rete connettiva che alimenta la soggettività. Non è l’autore che crea le reti, ma sono le reti a plasmarlo. Questo fenomeno ci è familiare quando osserviamo i milioni di follower che fanno la fortuna di un cantante o di un uomo politico, diversamente da quando il successo dipendeva dalla rete sociale che ciascuno tenacemente si costruiva. Con le sue mani. E con la propria testa.

Ciò che spicca, infatti, nella vita dei grandi intellettuali è proprio la straordinaria ricchezza dei contatti che ne alimentano il pensiero.

Ho tra le mani un testo esemplare di questo spartiacque storico, l’ultimo libro di Sabino Cassese, Varcare le frontiere – Una autobiografia intellettuale, appena edito da Mondadori. Fin dalle prime pagine, ciò che colpisce è la vastità e varietà delle frequentazioni umane. Il ventaglio di discipline e di approcci che, negli anni cruciali formativi alla Normale di Pisa, Cassese insegue e coltiva. Evitando di rimanere prigioniero della dommatica giuridica che si insegnava nelle aule, e affidando invece la sua crescita a una continua cross-fertilization di problematiche e decisioni. Il merito principale di questo lievito che farà di Cassese una delle figure più autorevoli della nostra storia istituzionale sta certo nella curiosità quasi ossessiva con cui continua a provare, appunto, a «varcare le frontiere».

Però, in retrospettiva, il milieu che ha nutrito la sua personalità di pensatore e di docente appare ormai irriproducibile. Estinto dalla società delle macchine.

Oggi, ogni accademico che si rispetti ha accesso immediato, via Internet, a un numero di fonti incomparabilmente maggiore rispetto a quelle che hanno alimentato la cucina delle teorie con le quali ci siamo per secoli orientati. Mancano, però, i filtri. Non quelli dei motori di ricerca, che ci offrono molto più del necessario. Ma quelli di altri individui come noi, possibilmente migliori di noi. Per carità, ci sono ancora per fortuna buoni maestri cui rapportarci. Ma si perdono facilmente nel magma incontenibile della rete. E il mestiere del pensatore diventa, inevitabilmente, più solitario. Connesso virtualmente a tutti, ma veramente collegato con pochi.

Invece, per le macchine pensanti, questa differenza non conta. Anzi, la loro forza sta proprio nel digerire una mole infinita di libri senza porsi minimamente il problema di chi ne sia stato l’autore. Parafrasando Musil, si tratta di macchine senza qualità. E senza nome. E questo, purtroppo, rischia di acuire il malessere che sta divorando alle radici la società contemporanea, il suo deficit di identità.

di Mauro Calise

(“Il Mattino”, 21 ottobre 2024)

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