Depressione di un partito e aria del sud

Qualche riflessione, più di carattere psicologico che non politologico, sul crollo del PD da parte di un “vecchio” simpatizzante. Classe dirigente e molti militanti del PD sembrano al momento essersi arroccati sulla difensiva, sia a seguito degli attacchi insistenti e insolenti della Lega e del M5S nel corso di tutta la campagna elettorale, sia piangendo l’ingratitudine di un popolo che non li ha più seguiti nonostante le buone cose fatte dai governi a guida PD.

La psicologia insegna che un gruppo sconfitto cade pressoché inevitabilmente in uno stato depressivo (senso di fallimento, di frustrazione, oscuramento di speranze e prospettive); a questo stato facilmente si correlano sentimenti di rabbia e di risentimento per l’immaginaria o reale aggressione subita. Va da sé che il prevalere delle emozioni sulla lucida razionalità rende difficile un realistico sguardo sulla situazione e sulle opportunità che possono aprirsi. Questo coacervo di sofferte reazioni emotive a fronte della sconfitta comporta due possibili sviluppi delle dinamiche del gruppo . L’uno consiste nel volgere all’esterno quel senso di un’aggressione subita che si accompagna alla frustrazione, accusando sistematicamente della propria sciagura gli esterni al gruppo, la loro cattiveria ( “ce l’hanno con noi, a prescindere da qualunque cosa facciamo”); ma così ci si preclude un serio esame delle proprie responsabilità . L’altro tipico sviluppo consiste nel volgere il malanimo all’interno del gruppo, “sbranandosi” tra gli stessi membri, che si accusano a vicenda esser causa del male presente. E’ una rabbia che nei casi più gravi porta a un cupio dissolvi: l’aggressività di tutti contro tutti deborda in meccanismi autodistruttivi, con la conseguente dissoluzione del gruppo.

Questi modi di reagire allo stato depressivo, accumunati da emozioni ad un tempo persecutorie ed aggressive, è il più frequente nei partiti e in genere nei gruppi che si pongono in competizione l’uno contro l’altro, dove domina la semantica dell’ “avversario”, della “lotta”, della “battaglia”. A questa tipologia lo psicologo dei gruppi dà il nome di “gruppo in assunto di base di lotta e fuga”. Ebbene, venendo alla fattispecie – dato che le modalità espressive con cui si comunica qualcosa tradiscono altri significati oltre al mero contenuto – come non vedere l’orgoglio ferito in quel guanto di sfida: “Ci provino loro se sono capaci”, lanciato minaccioso nelle parole di Renzi alla conferenza stampa di martedì 6 marzo, esprimendo per altro – implicitamente ma incautamente – certezza nel “loro” fallimento? Al che non poteva non fare eco con analoghe espressioni quel Rosati della legge elettorale, cui dobbiamo in buona parte i guai della imminente ingovernabilità. Non è il caso evidentemente di volgere la depressione in un’autoflagellazione ulteriormente deprimente; ma un esame di coscienza manca in ambo i soggetti citati, fino al punto che il primo dei due nel medesimo discorso è arrivato a dar implicitamente la colpa al Capo dello Stato per aver eluso le elezioni anticipate nel corso del 2017, mentre il secondo tace di essersi cercato lui i guai. Ma anche il saggio Del Rio (e non solo lui) è uscito con un infelice “Ci hanno mandato all’opposizione” – anziché un più appropriato “Siamo diventati minoranza ” – supponendo nell’elettorato come prioritaria la maligna intenzione di punire, cioè aggredire il PD, anziché l’intenzione di premiare, a torto o a ragione, altri leader e altri programmi. E pure l’onesto Richetti in un risentito intervento giovedì 8 a Piazzapulita, più o meno si esprimeva così: “Ci hanno sempre svillaneggiato come incapaci e corrotti quei dei 5 Stelle. E ora come possiamo metterci con loro? ”. Certo, da parte del M5S c’è stato cieco pregiudizio e irrazionalità emotiva nell’identificare il PD con la “casta” e nel rifiutare di vedere quel che di buono ha pur fatto il PD; ma il deprecabile comportamento degli uni non giustifica una reazione sullo stesso piano emotivo degli altri, quasi in un gioco tra bambini.  Ancora: è pure risuonato un “Come possiamo andare con loro? Avete visto come nel ’13 Crimi e la Lombardi trattarono il povero Bersani allo streaming ?”, con l’implicita aggiunta: “Gli renderemo la pariglia!”. Se le parole del risentimento a botta calda sono comprensibili, è però sciagura semmai ispirassero un’azione politica.

Gli studiosi hanno evidenziato tipologie di possibili reazioni emozionali alla depressione, che esulano dall’universo aggressivo-controaggressivo, ma restano irrazionali e dunque dannose per il gruppo se non intervengono dei correttivi. Una tipologia, in opera per nulla di rado, è quella per cui il gruppo spera in un evento portentoso: che venga alla luce un salvatore che miracolosamente solleverà il futuro del gruppo. E’ il cosiddetto “gruppo in assunto di base di accoppiamento” (nel senso appunto di poter generare una sorta di novello bambin Gesù). Questo schema interpretativo si attaglia al PD post elezioni 2013: un PD osannante il giovane Renzi prima versione, che avrebbe dovuto salvare il partito dall’emorragia di consensi già allora a favore del M5S. Ma il Renzi-salvatore è fragorosamente crollato in un PD che non ha voluto o potuto – e non solo per via dell’incentramento sul figlio-prodigio – né elaborare strategie e prassi per una sostanziosa riforma interna, né compiere una disincantata presa d’atto di una realtà sociale in forte movimento, a partire dalla propria base elettorale. E al momento attuale? Potrebbe profilarsi un’ulteriore tipologia di  reazione irrazionale allo stato depressivo, quella che gli psicologi definiscono “gruppo in assunto di dipendenza”: vi si attende una soluzione dall’alto ai problemi del gruppo, mettendosi sotto le ali protettive di un leader inclusivo. Il pensiero nella fattispecie del PD va, tra gli altri, al carisma dell’unico leader vincente (Zingaretti). Ma ancora una volta è illusione pensare che il leader, per quanto bravo, possa togliere le castagne dal fuoco in mancanza di un serio lavoro interno al partito, a partire da una realistica presa d’atto da parte di tutto il gruppo, e della sua classe dirigente in particolare, della nuova aria che sta tirando nel Paese.

E a proposito dell’ “aria che tira”, qualche fugace osservazione da parte di chi non è sociologo né politologo: è un vento che, pur con tutte le sue ambiguità, rumoreggia con fragore. Aria del Nord e più ancora aria del Sud: portano rispettivamente quelle istanze che il PD non ha saputo cogliere ed interpretare adeguatamente, lasciandosi “fregare” da due abili demagoghi (pur al netto del generale declino della socialdemocrazia in tutto l’Occidente, invocato in una sorta di “mal comune, mezzo gaudio”) . Il vento del Sud, che ha gonfiato le vele del M5S, a mio avviso non è solo – ma neppure soprattutto – la richiesta di un assistenzialismo neo-democristiano con la promessa del reddito di cittadinanza: percentuali che superano il 40% fanno pensare a voti provenienti pure da ceti sociali che di quel reddito non hanno bisogno. Se ci si limita ad enfatizzare polemicamente il motivo di un nuovo e più ampio voto di scambio, come fatto da commentatori anche di sinistra, non si vede – o non si vuol vedere – la reale situazione. Almeno due sono le questioni che dalla situazioni si evincono: la prima riguarda ovviamente l’oggettivo malessere di un’alta percentuale di disoccupati e di giovani al Sud, che devono emigrare per trovar lavoro, l’altra riguarda lo stato di rivolta contro le classi al governo, locali e nazionali, di destra come di sinistra. Su questo stato di rivolta s’è soffermata una parte della stampa, ma in misura minore è stato rilevato un dato che dà un’ulteriore conferma della rivolta: il successo del M5S è stato tanto maggiore, superando di netto il 50% dei consensi, nelle circoscrizioni elettorali in cui più imperversano mafie e camorre, quelle della Sicilia orientale e quelle dei dintorni di Napoli. Da questi dati mi par lecito dedurre qualcosa di complessivamente positivo: col voto al M5S il clientelismo delle classi dirigenti al potere di destra come di sinistra, male endemico del voto al Sud più che al Nord, unito alla pressione dei ricatti e delle collusioni mafiose, non è riuscito a far presa sull’elettorato. (E’ improbabile che mafie e consorterie locali già prima del voto siano saltate sul carro dell’incerto vincitore). E se la deduzione appena fatta trovasse conferma, si tratta di vento buono, dietro la spinta del quale un rinnovato PD dovrebbe dispiegare le sue vele ammosciate. Ma per il passato: l’attacco alla casta dei politici, portato avanti con veemenza dal M5S, come non poteva non far breccia anche tra gli ex elettori PD dopo che essi hanno visto misure troppo timide del governo PD sulle questione della corruzione, dei malgoverni regionali, dei vitalizi di parlamentari nazionali e regionali, e inoltre aver visto un governo Crocetta in Sicilia e la cerchia dei De Luca in Campania?

Da ultimo solo un cenno ad un momento dell’aria che soffia a Nord, più che a Sud, e di cui demagogicamente s’è fatta carico la Lega di Salvini: le paure per l’immigrazione e la sicurezza. Minniti sciaguratamente è venuto troppo tardi , dopo anni di imbarazzante traccheggiamento dei governi a guida PD, di gestioni corrotte dei centri per gli immigrati; inoltre una giustizia troppo lenta a definire la posizione degli immigrati.

In conclusione, una disamina dei propri errori e un’analisi senza paraocchi della realtà sociale, cui è auspicabile approdi il gruppo dirigente del PD, suppone un superamento delle reazioni emotive e irrazionali del momento, e obbliga sul piano operativo a dare risposte a quel vento di cui non ha colto l’intensità con cui stava soffiando. Parimenti irrazionale è reagire con una stizzosità e un risentimento che per un verso portano ad arroccarsi in una difensiva autoconservazione e per altro verso portano ad escludere a priori ogni possibilità di collaborare con chi meglio ha saputo cogliere le istanze che vengono dal Paese. Il partito è un mezzo per portare al governo istanze della società, e non un fine per l’autoconservazione di un gruppo dirigente.