La città di Alessandria ha dato i natali a molti politici e studiosi più o meno illustri, ma solo a due indiscutibilmente tali a livello nazionale e oltre: Urbano Rattazzi e Umberto Eco. Lo scrittore Umberto Eco è il solo scrittore alessandrino tradotto praticamente in tutte le lingue. Urbano Rattazzi (1808/1873), è stato, con Cavour, uno dei più importanti unificatori, e primi decisivi legislatori, dell’Italia che diventava finalmente Stato nazionale. Rattazzi è stato indubitabilmente un importante protagonista del Risorgimento italiano.

Ma mancava ancora dopo oltre centocinquant’anni dalla morte, una vera biografia politica di tipo rigoroso (noi cosiddetti addetti ai lavori diciamo “scientifico”). E non per caso. Infatti la brillantissima lunga lotta di Urbano Rattazzi fu contrastata non solo da altri protagonisti del Risorgimento in competizione con lui, come sempre capita nella storia in atto, ma anche da una vox populi spesso sfavorevole non da poco e, quel che è peggio nei tempi lunghi, pure da gran parte della storiografia sul Risorgimento italiano (da Adolfo Omodeo a Rosario Romeo e oltre). Infatti la vicenda di Rattazzi venne collegata ad alcune pagine tristi, se non addirittura buie, del Risorgimento italiano, come la tragica sconfitta di Novara del 23 marzo 1849, avvenuta dopo la ripresa della guerra all’Austria: ripresa che non avrebbe tenuto conto della sproporzione delle forze che c’era ormai, dopo il ritiro di tanti staterelli alleati dalla lotta, e per l’insufficienza dei movimenti di popolo, tra Regno Sardo e l’Impero austriaco asburgico. Più oltre, molti anni dopo, sotto un governo di Rattazzi ci fu il breve conflitto a fuoco avvenuto ad Aspromonte nell’agosto 1862, quando Garibaldi e i suoi volontari furono fermati dall’esercito regolare mentre cercavano di andare a liberare Roma, per tutti necessaria capitale del nuovo Regno, ponendo fine al potere temporale del papa: un pontefice garantito sin dalla caduta della Repubblica romana di Saffi, Mazzini e Garibaldi dalle armi francesi, perché Napoleone III faceva gran conto, nella sua nazione, del sostegno al suo “impero” da parte dei cattolici. Infine, ci fu il breve conflitto di Mentana, quando, con diecimila volontari, essendo stata Roma tempo prima lasciata dai soldati francesi, Garibaldi provò a ripetere l’impresa, ma fu fermato, trovandosi il soverchiante esercito francese in campo. Fu arrestato e tradotto brevemente nel settembre 1867, nella Cittadella di Alessandria, e poi, anche dopo proteste di popolo pure in Alessandria, fu rilasciato, e lasciato partire per Caprera. Ora anche su Aspromonte e Mentana, come già per l’incauta ripresa della prima guerra d’indipendenza (che a Carlo Alberto costò la corona), Rattazzi secondo i suoi avversari dell’epoca, la vox populi e tanti storici avrebbe sbagliato come ministro, e più oltre come primo ministro. Secondo molti, d’intesa col re, ma senza mosse adeguate, avrebbe lasciato che Garibaldi e i suoi volontari partissero alla conquista di Roma, per poi coprire, d’intesa col re, il fatto compiuto come con l’impresa dei Mille del 1860. Poi, quando aveva visto la reazione dei francesi, di nuovo pronti a scendere in armi per difendere lo Stato della Chiesa, Rattazzi avrebbe cercato di fermare le camicie rosse, prima incoraggiate o lasciate deliberatamente fare. Insomma, Rattazzi, ad “aspromonte” come poi a “Mentana”, d’intesa con Vittorio Emanuele II avrebbe giocato a fare il Cavour senza averne le capacità e combinando disastri, anche poco nobili.
Si capisce che la decisione dei fascisti, ovviamente nazionalisti, durante la Seconda guerra mondiale, di fondere il bronzo del monumento a Rattazzi per farne munizioni, fosse stata presa da quei reali o pretesi “patrioti” a cuor leggero. Data la fama di quel “furbo avvocato”, di quelli che in Alessandria si dicono mandrògn, del suo famoso monumento in Piazza ora detta della Libertà, preferivano forse disfarsi. Ma anni fa, giustamente, il monumento è stato riprodotto. Ed è giustissimo, anche in questi tempi antieroici da “ultimi uomini” o “uomini a una dimensione”, come li avrebbero detti Nietzsche o Marcuse, perché, come affermava in positivo il grande anticipatore del nostro Risorgimento, Ugo Foscolo nei Sepolcri, nel 1807, “A egregie cose il forte animo accende / l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella / e santa fanno al peregrin le terra / che le ricetta.” E non c’è dubbio che tra questi forti, la cui vita è sempre controversa diversamente da quella degli imbecilli che non fanno mai niente persino al potere seguendo la fiumana, Rattazzi appartenga, come uno degli imprescindibili costruttori di un grande Stato mai stato in Italia. E per me, con ovvie luci e ombre, ça suffit, o suffirait. E assai.
Anche il famoso “centrosinistro”, che dopo la prima guerra d’indipendenza nel 1852 mise insieme la destra costituzionale (liberale) di Cavour con la sinistra di tal fatta di Rattazzi, da alcuni è stato visto come l’inizio del male che perseguita il nostro paese, il trasformismo, che mette sempre insieme il diavolo con l’acqua santa, la sinistra con la destra, i riformisti con i conservatori, come ancora ha sostenuto Massimo L. Salvadori in Storia d’Italia e crisi di regime (Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 30-32). Credo che però quel “centrosinistro” sia stato necessario nel Risorgimento. Unire la patria contro lo straniero occupante è sempre stata buona tattica. E vale pure per fondare, o rifondare, un libero Stato, almeno nel mondo contemporaneo (ma “poi” per me no).
Ora esce questo “Urbano Rattazzi. Una biografia politica” di Corrado Malandrino, edito dal prestigioso Istituto per la storia del Risorgimento italiano, pubblicato nel novembre 2024: grosso lavoro di ben 675 pagine. Io l’ho letto con attenzione dalla prima all’ultima riga. E non per caso.
Intanto io pure avevo scritto su Rattazzi un saggio di una trentina di cartelle in una vasta opera collettiva in molti volumi, Il Parlamento italiano, pubblicata dalla CEI di Milano sotto i buoni auspici del Parlamento italiano, nel 1989, nel I volume. Allora, a parte un articolo in vista di una futura biografia di Carlo Pischedda e un saggio giovanile, ma molto acuto, di Guido Quazza uscito a puntate su “Critica Sociale” nel 1955, su Rattazzi non c’era quasi niente. Io ero andato a studiare i moltissimi riferimenti nei libri sul Risorgimento e li avevo organizzati in un puzzle riflettendoci sopra dopo aver letto i discorsi parlamentari di Rattazzi alla Biblioteca Civica di Torino e ne avevo ricavato appunto quel saggio. Ma si capisce che l’imponente lavoro di Corrado Malandrino non ha precedenti per precisione e ricchezza di riferimenti, e dimostrazioni, sino al dettaglio. In tante valutazioni mi sono riconosciuto e in alcune no, ma questo non ha ora la minima importanza.
Ma io mi sono centellinato tutto il fluviale e interessante “gran libro” con vivo interesse anche perché Corrado Malandrino è un mio vecchio amico dal 1968 (quando lui era un ragazzo e io avevo ventisette anni). Stava prendendo la sua maturità al Liceo Plana (oggi finalmente Eco). Malandrino era allievo in Filosofia di un mio grande amico, Gianfranco Dellacasa, allora marxista operaista, di estrema sinistra. Corrado Malandrino da ragazzo era stato in seminario, ma allora ne era uscito. Faceva parte di un gruppo di cattolici del dissenso diretto da un altro mio amico allora prete, don Mario Arnoldi. Facevano insieme una rivistina ciclostilata intitolata “Testimonianze minime”. Più oltre Malandrino divenne segretario di un assessore regionale che allora era veramente mio amico, l’ex segretario della federazione alessandrina del PCI, Domenico Marchesotti. In quegli anni Corrado si laureò, studiando pure l’olandese per andare a fondo sul suo personaggio, Anton Pannekoek, uno pei protagonisti del marxismo di sinistra europeo. Io fui uno dei due correlatori alla sua tesi di laurea, con Mirella Larizza: tesi discussa col compianto storico del marxismo Gian Mario Bravo, e poi pubblicata, e che tuttora è il più importante studio su quel grande socialista e comunista marxista, uno dei maggiori esponenti del “marxismo occidentale”, e tanti anni gli anni Venti pure critico geniale del Lenin “filosofo” . Più oltre Malandrino è diventato, nell’Università del Piemonte Orientale, professore ordinario di “Storia delle dottrine politiche” e Preside della Facoltà di Scienze Politiche. Egli è autore di molti libri specie sul liberalsocialismo e sul Federalismo (due dei quali io ho pure recensito, sul “Pensiero politico” e su “Critica Sociale”). Al proposito ha pure curato la prima pubblicazione in italiano del primo classico del diritto naturale moderno e della visione pattizia, per lui proto-federalista, della statalità, Politica methodice digesta (“Politica metodologicamente concepita”) del tedesco Althusius, del 1602 (comparso presso la Claudiana di Torino nel 2009). Tornato ad Alessandria, la città in cui si era formato e che aveva amato ed ama, Malandrino si è appassionato della sua storia, promuovendo dibattiti, convegni e studi, d’intesa con collaboratori ora a loro volta docenti universitari dell’Università del Piemonte Orientale, come Stefano Quirico e come Giorgio Barberis, ora ordinario della sua materia e Direttore di Dipartimento. In quest’humus Malandrino, in molti anni di studio, ha scritto appunto questa grande biografia di Rattazzi.
Il ponderoso, dettagliato, documentato libro di Malandrino su Rattazzi or ora uscito copre un “buco” della storiografia sul Risorgimento che era una voragine, dato il ruolo di primissimo piano del personaggio nel Risorgimento italiano. La documentazione è imponente e non so quanti decenni passeranno prima che un altro faccia su questo protagonista del Risorgimento qualcosa di confrontabile. Speriamo che non passi di nuovo un secolo e mezzo. Gli ho rivolto, in proposito, alcune domande, cui ha molto gentilmente risposto.
– Dalla lettura della tua imponente opera su Rattazzi mi pare che emerga, tra le altre cose, che il famoso “connubio” tra area parlamentare di destra costituzionale di Cavour e di sinistra costituzionale di Rattazzi, detto “centrosinistro”, sia stato l’asse portante del Risorgimento italiano. Questo Risorgimento aveva bisogno, se ho ben compreso, di una forte area centrale che non fosse prigioniera né dell’insurrezionismo dei repubblicani né del clericalismo anche non reazionario, ma cattolico liberale moderato, che era spesso più remora che sprone nel movimento di liberazione e unificazione dell’Italia. Si trattava di egemonizzarli entrambi, utilizzando convintamente la monarchia sabauda, con le sue ambizioni di espansione e la sua apertura non proprio disinteressata alla causa italiana. Ti pare corretta questa lettura, e, se sì, quali sono gli argomenti più stringenti che la suffragano?
Malandrino in proposito ha notato: – Sì, e penso che l’ideazione della formula ‘centro-sinistro’, che fu di Michelangelo Castelli e Domenico Buffa e poi fatta propria e politicamente valorizzata da Rattazzi prima che fatta propria da Cavour, il quale l’accettò in conclusione e ne fu poi insieme a Rattazzi il principale protagonista, sarebbe meglio valorizzarla di più sul piano storico, come ho cercato di fare. Tale formula fu ideata per sfuggire appunto alle parole d’ordine radicali della sinistra pura, che fecero fallire la posizione più moderata durante il dibattito parlamentare per la ratifica del trattato di pace, che d’Azeglio sfruttò per mettere fuori gioco tutta la sinistra col proclama di Moncalieri fatto pronunciare a Vittorio Emanuele II. Già dopo tale evento, quindi alla fine del 1849, Rattazzi e i suoi amici concepirono il distacco dalla sinistra democratica più accesa, come cerco di dimostrare raccontando dettagliatamente i passi fatti nella campagna elettorale che ne seguì e citando il supporto della “Croce di Savoia” [periodico risorgimentale vicino a Rattazzi] anche del Ferrara. Questo fu il secondo momento topico che consacrò Rattazzi come leader della sinistra moderata alleato del “centro-destro” e preparatore a quasi pari merito di Cavour (che però ne fu il protagonista grazie all’alleanza con la Francia che resta il suo grandissimo merito) del famoso decennio che portò il regno di Sardegna a poter iniziare la seconda guerra d’indipendenza. È evidente che già questo toglie ogni fondamento alla tesi che indica in Rattazzi un colluso con la sinistra radicale e addirittura con Mazzini. Su questo ci sono i capitoli “Rattazzi vs. Mazzini”.
– Rattazzi, nella tua analisi, emerge come un uomo con solida preparazione giuridica, e non solo in quanto avvocato. Secondo me è proprio il solido giurista che fa da retroterra al politico che, quale quarantenne che non aveva mai fatto politica, col suffragio assai ristretto dell’epoca, fu sbalzato – secondo la colorita immagine da te ripresa – nel 1848 nel Parlamento subalpino, emergendo presto come un protagonista. Ma è proprio così? E si può dire che Rattazzi, anche come importante ministro e poi capo del governo, abbia contribuito in modo importante alla costruzione giuridico istituzionale del nuovo Stato? In che modo?
Malandrino ha risposto: – Rattazzi emerge come solido giurista pubblico e come visione politica (cosa che non era in partenza, essendo lui stato un avvocato privatista) durante la prima Legislatura del Parlamento subalpino, con le sue proposte tese a modificare la struttura istituzionale del Regno sardo in direzione dello Stato monarchico costituzionale (si veda su ciò mio cap. IV, paragrafi 2-3) laico e di diritto, con venature democratizzanti, nonché durante il dibattito parlamentare sulla fusione tra il regno e le province lombardo-venete liberate nella prima fase della prima guerra d’indipendenza (cap. IV, par. 4). La sua direzione della commissione parlamentare per la fusione con le province lombardo-venete fu apprezzata e valorizzata sia nella sinistra sia nella destra cavouriana. Fu grazie alla sua opposizione alla prospettiva puramente annessionista del ministro Cesare Balbo che questi andò in minoranza e lasciò il campo al brevissimo ministero Casati, nel quale anche Rattazzi entrò come ministro per la prima volta, e poi nel ministero Gioberti come ministro di Grazia e Giustizia.
Certo gli altri momenti topici che illustrano positivamente l’azione ministeriale di Rattazzi furono nei due ministeri Cavour con le leggi di laicizzazione e nel ministero Lamarmora del luglio-dicembre 1859, dove si deve a lui se dopo l’autoaffondamento di Cavour a Villafranca [con dimissioni di Cavour, in fiera opposizione a una pace siglata tra Vittorio Emanuele II e Napoleone III, e poi a Zurigo, che poneva fine alla guerra senza liberazione del Veneto come era stato promesso nel patto sardo-francese], la seconda guerra d’indipendenza poté cogliere i suoi frutti con le riforme fatte da Rattazzi sia per preparare i plebisciti [di unificazione al Regno], le elezioni della primavera 1860 e la nuova legge sulle province.
– Tu impieghi una parte notevole, se non la più impegnativa, delle tue forze a dimostrare che con la ripresa della prima guerra d’indipendenza che portò alla sconfitta di Novara e con le imprese di Garibaldi per prendere Roma a dispetto della volontà di Napoleone III di difendere il Regno della Chiesa (imprese fermate dall’esercito italiano, ad Aspromonte nel 1862 con ferimento dello stesso Garibaldi), Rattazzi non c’entri, e sia anzi vero l’opposto, in base ai documenti che porti e illustri. Ma al tempo della ripresa della prima guerra d’indipendenza, c’era un fautore del conflitto più importante di Rattazzi, ministro di un Chiodo incolore primo ministro nel Parlamento subalpino? E su Aspromonte e Mentana non trapela quantomeno un atteggiamento oscillatorio, equivoco ed equivocabile, da parte del governo Rattazzi?
Malandrino ha risposto: – Questa è una domandona che mette insieme almeno tre domande diverse. Rispondo distinguendole una dall’altra.
A. Ripresa della prima guerra d’indipendenza: no, io affermo il contrario. Rattazzi fu il più fermo sostenitore della ripresa della guerra contro l’Austria, contro Gioberti che invece voleva rinviarla e fare subito una spedizione in Toscana per rimettere il granduca sul trono. Questo fu alla base della caduta del ministero Gioberti, come racconto nel capitolo 5 al paragrafo 3 e nel capitolo 6. Solo, io faccio notare che Rattazzi nel sostenere la ripresa della guerra, non faceva che onorare il programma del ministero cosiddetto “democratico” che Gioberti aveva presentato il 16 dicembre 1848 e che poi tradì. In questo senso Rattazzi non disse nulla di nuovo e non elaborò una linea politica diversa da quella presentata e approvata nel dicembre 1848. Su questa linea tutti gli altri ministri erano d’accordo, per questo la definizione di “mente politica del ministero Chiodo” la trovo esagerata. La linea politica del ministero Gioberti era stata decisa da Gioberti e dagli altri ministri fin dall’inizio e a questa tutti, tranne Gioberti che la tradì, furono fedeli. Rattazzi era in quella fase il ministro più autorevole, ma non la mente politica, se con questo si vuol sostenere che elaborò una linea politica diversa.
B. Aspromonte. Non ci fu alcun atteggiamento oscillatorio da parte di Rattazzi; semmai vi fu un po’ d’incapacità a liquidare tempestivamente una serie di prefetti e alti funzionari filogaribaldini che i governi Cavour e Ricasoli avevano nominati nei posti più importanti della Sicilia (Palermo, Messina e Catania). Poi naturalmente questi prefetti e lo stesso Garibaldi mettevano in giro le voci sull’acquiescenza del re e di Rattazzi, facendo riferimento all’atteggiamento che Vittorio Emanuele II aveva già avuto durante l’impresa dei Mille. Ma nel capitolo 13, paragrafi 3 e 4, cerco di dimostrare documenti alla mano proprio questo, sia a Sarnico sia nella sommossa siciliana finita ad Aspromonte. La collusione di Rattazzi con i movimenti garibaldini è una vera e propria balla, come dimostro citando anche il ruolo di Guerzoni che, come segretario di Depretis, era il vero agente garibaldino dentro il governo che agiva contro Rattazzi e fu il primo a dimettersi subito dopo Sarnico.

C. Mentana. Qui su Rattazzi si sono scritte veramente delle falsità. Non solo perché Rattazzi con Mentana non c’entra nulla, visto che si era dimesso venti giorni prima e quindi nella crisi che culminò nei fatti di Mentana era capo del governo Menabrea. Sul comportamento di Rattazzi nel governo che si dimise il 19 ottobre credo di aver dimostrato che Rattazzi voleva assolutamente togliersi dai piedi Garibaldi, come fece facendolo arrestare a fine settembre perché questo era il segnale da dare a Napoleone III per poter intraprendere un’azione come esercito italiano per “pacificare” Roma. C’era un vero e proprio piano approvato dal governo e dal re che fu tradito dal re medesimo e da lui sabotato facendo dimettere il ministro della guerra Genova di Revel il 17 ottobre senza avvisare prima Rattazzi. Questo è narrato nei particolari nel capitolo 15, paragrafo 2. Quindi in specie sul periodo pre-Mentana non ci fu nessun atteggiamento equivoco od oscillatorio da parte del governo da parte di Rattazzi. Egli, anzi, voleva metter fuori gioco Garibaldi e fu tradito dal re e dal Revel. Addirittura il re confidò al Revel che voleva far arrestare Rattazzi …
A ciò aggiungerei anche un quarto momento topico dell’azione di Rattazzi: fu la sua offerta a Ricasoli nel 1861 di fare un accordo politico (cfr. capitolo 12, paragrafo 4), una sorte di secondo connubio [dopo la morte di Cavour, il 6 giugno 1861] per cercare di riavviare una politica di riforme moderate per risanare lo Stato dopo le enormi spese sostenute nella guerra e far fronte alle difficoltà come il brigantaggio, il deficit spaventoso, il rilancio della politica laica per Roma, ecc. All’offerta di Rattazzi, Ricasoli oppose un rifiuto perché così volevano i membri della sua consorteria, accusando Rattazzi di intrigare. Ma Rattazzi quest’offerta la fece sia personalmente a Ricasoli in un colloquio, sia alla Camera il 4 dicembre. Insomma, nessun intrigo per sostituirlo.
M’hai convinto, Malandrino. E lo sospettavo già prima, ma ho voluto darti il modo di prendere il toro per le corna sintetizzando le tue argomentazioni su quelli che mi sono parsi i nodi di fondo che, a quanto credo, saranno i più discussi. Spero che saranno convinti pure tanti lettori appassionati e soprattutto gli studiosi del Risorgimento. E ti sono e siamo tutti grati, non solo per via di Alessandria. Del resto di riandare al Risorgimento avremmo tanto tanto bisogno, in Italia e nel mondo, mentre innumerevoli tamburi risuonano nella notte della Storia nostra. Avremmo proprio bisogno di un vero Risorgimento, nel mio auspicio di un Risorgimento Socialista, in un’Italia e mondo in cui una sinistra troppo spesso in ripiegamento, invece di rinascere balbetta. Ma questa è un’altra storia.
di Franco Livorsi
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